Autore: 
Valentina Saccarola

Il prima

A noi genitori adottivi sentire usare il verbo adottare in altri contesti (secondo noi) impropri mette un po' di disagio.

"Adottare un monumento, adottare un bambino a distanza, adottare un cane" ...non ci piace per niente.

Per noi adottare è una cosa grande, enorme; a noi evoca un complesso e impegnativo progetto che riguarda noi e la nostra famiglia. Sentir banalizzare una esperienza così forte e totalizzante ci fa stare un po' male.

Vado indietro con la memoria, tanto indietro. Mi viene in mente quando ero bambina, il momento in cui un adulto mi ha spiegato cosa volesse dire adottare un bambino. Non ho ricordi precisi ma solo l'immagine di tanti piccoli bimbi con un grembiule bianco e gli occhi sgranati; ero con mio papà, stavamo aspettando che la mamma facesse la spesa della carne in macelleria; l'avevamo accompagnata in macchina perché la macelleria si trovava in un paese a qualche chilometro da casa. Nei paraggi c'era un orfanatrofio e ci andai con lui; in quell'occasione mi spiegò che erano bambini senza mamma né papà, ma che probabilmente avrebbero trovato una nuova mamma e papà, che li avrebbero adottati.

Il secondo ricordo di infanzia è invece legato a una frase - non del tutto opportuna - che dissi a una mia zia, che era senza figli. "Ma perché tu e lo zio non ne adottate uno?". Ho ancora in mente lo sguardo di mia mamma, che con gli occhi voleva dirmi "non sono affari tuoi!", ma intanto l'avevo detto e la figuraccia l'avevo fatta...

Anche da ragazzina è rimasta nella mia memoria una sensazione bella e che mi faceva stare bene ogni volta che mi capitava di vedere in giro "bimbi colorati" con "genitori non colorati" (segno inequivocabile di un'adozione).  D'istinto la cosa mi entusiasmava, anche se non sapevo bene spiegarmi perché. Forse centravano i miei ideali, i miei valori, l'idea che ho sempre avuto del mondo, dei nazionalismi, dei pregiudizi razziali.

Poi la mia memoria passa alla lenta ma costante crescita della voglia di avere figli (maturata con un discreto ritardo rispetto ai "canoni biologici") e alla delusione e sofferenza legata alla consapevolezza di non "riuscire" a fare dei figli.

Fu triste e doloroso.

Io, quando sono triste, sto spesso anche male fisicamente e si innesca un circolo vizioso, per cui non so più se è stare male fisicamente che mi fa star male anche emotivamente o è il contrario. In quella situazione trovai la lucidità e la determinazione di non infierire sul mio corpo per cercare di avere dei figli biologici. Mi conosco bene e sapevo che sarei precipitata in un vortice di negatività fisica e psicologica, che si sarebbero alimentate a vicenda.

A conti fatti penso che quella sia stata, in assoluto, la scelta più giusta che abbia fatto nella mia vita.

Con mio marito realizzammo che volevamo, tanto, tanto, farci una famiglia e avere dei figli, ma non con cure mediche, ospedali, cliniche, esami invasivi, terapie, tentativi periodici ecc.

Anche a quel tempo nella nostra regione l'approccio all'adozione prevedeva l'obbligo di fare almeno quattro pomeriggi di formazione con gli psicologi e gli assistenti sociale dell'ASL. Era giugno e per quattro lunedì pomeriggio ci andammo. Lì iniziò il bello della storia...

Il durante

A quei pomeriggi seguì, a settembre, un week end tutto centrato sull'adozione internazionale. Non ricordo con precisione le cose che ci dissero, ricordo solo che quando rientravamo a casa, anche in auto lungo il tragitto, non facevamo altro che parlare; parlare di quello che avevamo ascoltato, di quello che provavamo. Alla fine l'entusiasmo cresceva, la determinazione aumentava, la consapevolezza delle difficoltà e dei problemi che avremmo incontrato non ci scalfiva per niente. Ci rendevamo conto che quello che avevamo scelto di fare perché "volevamo dei figli e non eravamo riusciti a farli" era in realtà un "mettere in ordine" una situazione di disordine: dei genitori senza figli incontravano un figlio senza genitori. In questa logica ci voleva poco a capire chi era la parte debole della faccenda, non certo noi adulti. Le nostre riflessioni, preoccupazioni si spostarono inevitabilmente dal genitore senza un figlio al figlio senza genitori. Discutevamo, litigavamo, ci emozionavamo. Io, come spesso mi accade in questo casi, compravo libri sull'adozione ogniqualvolta ne trovassi uno da qualche parte. Leggevo, forse anche troppo e senza selezionare il tipo di letture, per cui a un certo punto mi vennero anche un sacco di paure di non essere adatta, di non essere in grado di diventare madre adottiva.

Quando poi iniziarono i colloqui con gli operatori dei servizi sociali ci tranquillizzammo molto. Alla fine non ci chiedevano se non di raccontare di noi stessi, della nostra storia, della nostra famiglia di origine. Devo ammettere che su alcune cose questi colloqui mi hanno anche aperto gli occhi; ho rivisto in modo diverso il rapporto che ho e ho avuto con mio madre e mio padre. Quando si è adulti certe riflessioni fanno bene, anche se sono un po' dolorose...

Ricordo che i colloqui si svolgevano di sabato mattina presto; avevamo circa quaranta minuti di strada da percorrere, che passavano sempre velocissimi sia all'andata che (soprattutto) al ritorno. Fitte, fitte le nostre conversazioni successive ai colloqui.

I mesi successivi (Tribunale dei Minori, faticosa e coscienziosa selezione dell'ente con cui adottare), li ricordo indubbiamente come momenti di grande impegno e concentrazione, ma caratterizzati da quel senso di "leggerezza" che è stato sicuramente la nostra forza, soprattutto quando poi abbiamo affrontato l'incontro coi nostri due figli (la nostra "principessa" Tatiana nel 2004 in Ucraina e il nostro "tigrotto" Theo nel 2007 in Cambogia). Per "leggerezza" intendo quella meravigliosa sensazione di fiducia, che spero sia capitato di sentire anche a voi, in qualche momento della vostra vita. Quella piacevolissima serenità che nasce dalla consapevolezza che hai fatto la cosa giusta, che hai messo tutta la tua energia e intelligenza nel tuo progetto.

Poi, ... andrà come dovrà andare ...

Mi sono chiesta se uno dei fattori di leggerezza sia stato anche aver scelto subito la strada dell'adozione, pendendo subito atto che non sarebbe stata la natura ma ... qualcos'altro e qualcun altro a portarci dai nostri figli.

Fatto sta che, anche adesso che sono passati parecchi anni, penso pure alle difficoltà e alle tensioni, legate ai momenti "clou" dell'adozione dei nostri figli, come ai momenti più forti e belli della mia vita: il viaggio in treno, interminabile, nella pianura ucraina; la mia dissenteria, curata da una scrupolosissima e severa infermiera di Mariupol, porto industriale sul Mar d'Azov; il pianto disperato e inconsolabile di mia figlia, quando per la prima volta salì in auto con noi per tornare a casa in Italia. E poi ancora il caldo e umido soffocante di Phnom  Penh a settembre; lo stomaco che ti si chiude nel vedere decine e decine di bimbi, che in istituto ti vengono incontro, sperando di essere loro i prescelti stavolta; la paura che lui non ti voglia perché non sei come lui si aspetta... Ripenso a tutto questo con la nostalgia che si prova quando si rievocano momenti della vita, in cui ti sembra di aver vissuto con la massima intensità, veramente vissuto.

Il dopo

Qualcuno ha scritto "un genitore adottivo è uno che crede di più nei legami affettivi che nei legami di sangue". Penso sia una semplice ma grande verità.

Da un punto di vista biologico la nostra non potrebbe essere una famiglia meno omogenea. Ma noi siamo una famiglia.

Secondo qualcuno siamo una famiglia di serie B. Spesso le persone che la pensano così le individuo anche solo con uno sguardo. Sono quelli che chiedono ai tuoi figli notizie dei loro "veri" genitori. Sono quelli che ti dicono che "sei brava e hai fatto una buona azione". Sono quelli che ti dicono "più piccolo lo adotti e meglio è, perché sembra che sia tuo". Sono quelli che vedono mio figlio, pelle scura e due meravigliosi, enormi occhi a mandorla e chiedono preoccupati "ma gliel'hai detto che è stato adottato?".

La nostra cultura si basa in gran parte sui valori della famiglia biologica, dei legami di sangue. Forse è anche comprensibile perché (Darwin insegna...).

È anche vero che la storia dell'umanità ha fatto passi avanti perché qualcuno ha cominciato a dire e fare cose che andavano contro il pensiero comune.

Per me, donna non credente e ormai non più giovanissima, essere diventata madre dei miei due meravigliosi figli ha dato finalmente un significato alla vita. Certo, era bella e intensa anche prima, ma ora ho scoperto il vero senso della mia personale esistenza.

Tuttavia sono completamente d'accordo con ciò che ha detto una persona che si occupa di adozioni da tanti anni: "Penso che l'esperienza dell'adozione internazionale non possa per sua stessa natura essere relegata a un puro fatto personale, familiare, privato, ma che abbia in sé una valenza pubblica e sociale, proprio perché sperimenta modelli di famiglia diversi che racchiudono le utopie e le speranze di tutti (o perlomeno dovrebbe essere così) e cioè di un microcosmo, quello familiare, in cui si realizza la multiculturalità".[1]

 


 

[1] Fiammetta Magugliani, intervento a Convegno per i 30 anni CIFA. Torino 29 aprile 2010

Data di pubblicazione: 
Venerdì, Maggio 17, 2013

Condividi questo articolo