Autore: 
Luigi Bulotta

La sentenza della Corte Costituzionale  che sancisce il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini anche nei casi di "madre naturale che ha scelto di non voler essere nominata", apre un dibattito sociale e politico tra i sostenitori di tesi divergenti. Molti sostengono che ricontattare oggi quelle madri che hanno scelto di partorire in forma anonima per verificare il perdurare della loro scelta dell'anonimato, sia una intrusione nelle loro vite, una violenza che fa riemergere un passato che avevano chiesto di archiviare per sempre, con un concreto rischio di sconvolgimento dei loro rapporti familiari. Gli stessi ritengono che per il futuro,  la possibilità che sulla decisione di partorire in forma anonima non cali l'oblio previsto attualmente dalla nostra legislazione (99 anni), e che è stato il motivo principale di tanti parti anonimi, possa aumentare il rischio di aborti e di abbandoni selvaggi, quando non di peggio anche di infanticidi.

Di sicuro una madre che decide di partorire  e di non voler essere nominata opera una delle scelte più difficili e dure che una donna possa fare, una scelta che merita tutto il nostro rispetto.

Altrettanto rispetto però merita chi, non riconosciuto alla nascita, vive con sofferenza la privazione di una parte di sé e della propria identità e arriva alla determinazione di ricercare le proprie origini.

Si tratta di una decisione che richiede senz'altro una notevole introspezione,  l'accettazione dell'impatto che questa ricerca avrà sui rapporti familiari esistenti, la delusione a cui una scelta del genere inevitabilmente espone. Anche questa è una scelta che si compie non senza fatica e che merita tutto il nostro rispetto.

Ma siamo sicuri che nel mondo in cui viviamo oggi esista realmente una garanzia alla riservatezza? La legge che di fatto oscura i dati della madre non consentendone alcuna diffusione, non impedisce certo l'iniziativa personale e la rete è forse il canale di più facile accesso tramite cui una tale ricerca possa essere svolta. E' facile imbattersi in siti web o pagine sui social network in cui appaiono bacheche con annunci in tal senso, in cui vengono fornite le poche informazioni di origine in proprio possesso e si attende e spera che qualcuno possa dire qualcosa di più.

Vogliamo chiamarlo un "fai da te" di ritorno?

Ma allora perché non mettere a punto delle regole e prevedere un intermediario istituzionale che non lasci solo chi si mette alla ricerca delle proprie origini, cercando così di superare il ricorso al "fai te"? Perché non immaginare che anche una decisione difficile e sofferta come quella di partorire e non lasciare traccia di sé possa essere soggetta a un ripensamento? Si potrebbe persino pensare di modificare l'attuale normativa sul parto anonimo. In questo potrebbe venirci in aiuto l'esperienza maturata da altri paesi europei laddove ad esempio prevedono che anche una madre che partorisce in forma anonima possa decidere di lasciare in forma pubblica alcune informazioni che non possono servire a identificarla (potremmo pensare, ad esempio, a informazioni sanitarie). D'altra parte bisogna pensare che anche la ricerca delle origini, così come l'abbandono, è mossa da molte diverse motivazioni e spesso è dettata anche solo da necessità di conoscenza, non sempre dalla volontà di recuperare rapporti.

Quale tra il diritto alla riservatezza della madre e quello alla conoscenza di un figlio deve ritenersi prioritario?

E' fondamentale che, trattandosi di diritti entrambi legittimi, anche se spesso contrastanti, nessuno prevalga sull'altro e la discussione che si svilupperà nei prossimi mesi e che porterà alla modifica dell'attuale legge, così come la Consulta ha richiesto, ottenga il contributo più ampio possibile da parte di tutte le forze politiche e sociali. Solo così si potrà sperare di realizzare il grande equilibrio necessario affinché tutto possa coesistere nella maniera più armoniosa possibile.

 

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Data di pubblicazione: 
Lunedì, Luglio 28, 2014

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