Autore: 
Andrea Redaelli

"I figli crescono come noi invecchiamo" ci sentiamo dire spesso. "La loro età cresce con la vostra". "Quando lui avrà 18 anni voi ne avrete 65". Ed è assolutamente vero. Una logica che non può essere contraddetta. Ma è una logica piuttosto sterile, tecnica, che non riesce a cogliere la complessa realtà del percorso verso l'adozione e del progetto di genitorialità in genere. Una logica incentrata sulla realtà dei bambini adottabili che tralascia il vissuto della coppia.

Rimanendo su questo terreno un po' asettico e realistico è giusto affermare che l'età dei bambini adottati attraverso il canale dell'adozione internazionale si è alzata nell'ultimo decennio. Nonostante "la media riscontrata nel 2013 sia stata di 5,5 anni, in diminuzione rispetto al dato registrato nel 2012 (pari a 5,9 anni). Più esattamente, oltre 4 bambini adottati su dieci nel 2013 (42,1%) hanno un'età compresa fra 1 e 4 anni, il 43,8% dei minori adottati ha un'età fra 5 e 9 anni, l'8,8% un'età pari o superiore a 10 anni, mentre solo il 5,4% dei bambini adottati si colloca sotto l'anno d'età. Le età medie più elevate, per i Paesi con più di 20 adozioni, si registrano tra i minori adottati in Ucraina (8,9 anni), in Bulgaria (8,1 anni), in Brasile (7,9 anni) in Ungheria (7,8 anni), in Polonia (7,7 anni), e in Lituania (7,6 anni); le età medie più piccole si riscontrano nelle adozioni realizzate in Vietnam (1,9 anni), in Etiopia (2,3 anni), nella Repubblica Popolare Cinese (3,5 anni), in Burundi (3,9 anni) e in Burkina Faso (4,4 anni)" (Rapporto statistico CAI sull'anno 2013)

Ed è anche giusto affermare che l'età dei genitori si è alzata. La media delle età degli adottanti al momento della presentazione della domanda secondo i dati della CAI è di 42,7 anni per i padri e di 40,9 per le madri. Ma la classe di età che raggiunge la maggiore frequenza è quella tra 40-44 anni in cui possono essere inseriti il 37,5% dei mariti e il 38,2% delle mogli. Poi quella tra i 45-49 anni a cui appartengono il 20,3% dei mariti e il 14,9 delle mogli. Solo il 6,5% dei mariti e il 12.1% delle mogli ha una età inferiore ai 35 anni. Oggi sicuramente le coppie in Italia hanno progetti di genitorialità e familiari in una età più avanzata rispetto a 30 anni fa, quando i nostri genitori a 30 anni avevano già uno o due figli. Attualmente l'età media per il matrimonio è per i mariti di 32-34 anni e per le mogli di 30-32. La crisi economica che dura da anni, la precarietà lavorativa degli ultimi 20 anni, un senso diverso della famiglia? Quali siano i motivi saranno i sociologi a potercelo spiegare.

Sta di fatto che una coppia che vuole diventare padre e madre inizia a porsi questa domanda molto più avanti con gli anni. Da lì inizia un viaggio che passa dalla scoperta dell'infertilità, al valutare, o sottoporsi, a cure e processi di inseminazione alternativi, con spesso dolorosi, e ripetuti fallimenti. E poi? Lo sconforto, il dolore, il senso di fallimento, la rielaborazione, il considerare la propria genitorialità attraverso il nuovo percorso dell'adozione, la condivisone di questo nella coppia, la ricerca, gli approfondimenti, la domanda di adozione, il percorso con i Servizi Sociali, il Decreto di Idoneità, la scelta dell'Ente.

Bene, in quanto tempo si può pensare che una coppia possa fare tutta questa strada? Un mese o anni? Talvolta ce ne vogliono parecchi di anni. In media si parla di almeno 8/9 anni dall'inizio del matrimonio. E quando un Ente autorizzato incontra la coppia la vede come colei che sta muovendo i primi passi nel mondo dell'adozione. Ed è vero, per certi versi. Ma il percorso arriva da lontano e ha richiesto diversi anni, diverse fatiche, lacrime, pianti, sorrisi, speranze e delusioni.

E se fermassimo l'età della coppia adottiva al giorno in cui hanno desiderato accogliere un bambino tra loro? Non è quella la loro età genitoriale? Tecnicamente sarebbe ovviamente impossibile, ma sicuramente capiremo meglio perché tante coppie arrivano all'adozione sognando un bambino piccolo, se non addirittura neonato. E non certo un bambino di 5a elementare.

Se guardiamo i criteri previsti dall'art. 6 della legge 184/83 (come modificata dalla legge 149/2001) che riguardano la differenza di età tra adottanti e adottati, questa legge non è certo la spiegazione della realtà che stiamo vivendo. Infatti, la differenza minima tra adottato e adottante è di 18 anni mentre quella massima è di 45 per uno dei due coniugi e di 55 per l'altro. Cioè a 48 anni potrei adottare un bimbo di 3 anni sempre che l'altro coniuge non ne abbia più di 58. Ma questa non è mai la realtà che ci viene presentata. Ma allora cosa sta succedendo? Perché veniamo spesso accolti con frasi che ci richiamano alla necessaria riflessione sull'età del bambino? La realtà legislativa non è così restrittiva, anche se la coppia ha passato i 40 anni, ma la "realtà reale" si.

Perché la questione dell'età rimane una variabile da valutare attentamente nel percorso adottivo? L'età più avanzata della coppia non può, da sola, spiegare l'innalzamento dell'età dei bambini adottati.

Una spiegazione, forse semplicistica e sicuramente riduzionista di una realtà internazionale difforme e variegata, è sicuramente il principio di sussidiarietà dell'adozione. Principio forse a lungo sbandierato, ma che in molti stati d'origine, un tempo in primo piano nell'adozione internazionale, inizia oggi a diventare una realtà. L'adozione, e l'adozione internazionale soprattutto, diviene "l'ultima strada da percorrere per realizzare l'interesse del bambino quando non è stato possibile aiutarlo all'interno della propria famiglia di origine e del proprio paese di origine". Questo è quanto scrive la CAI e corrisponde al principio per cui oggi molti stati stanno valutando forme di affido extra familiare finalizzato al rientro in famiglia d'origine, se possibile, o l'adozione nazionale come prime strade per la soluzione dell'abbandono dei minori.

Tutto questo ci porta a capire che la domanda sull'età del bambino sia una domanda con cui diviene necessario e doveroso confrontarsi. Talvolta arrivano anche loro all'adozione internazionale dopo un percorso più o meno lungo.

Parlare di bambini grandi o, come preferisco, bambini in età scolare, per differenziarli da quelli in età prescolare, significa riferirci ad un range di età che va dai 7 anni a 13 anni. Sicuramente una differenza di età tra gli estremi che parla di universi lontani tra loro: l'inizio della scuola elementare, la fine della scuola media. Ma in realtà questi universi vivono nella stessa galassia. Una galassia lontana da quella che mi vedeva madre e padre alle prese con le prime pedalate incerte sulla prima bici senza rotelle, i primi bagni in mare senza braccioli o le festicciole con pupazzetti e principesse.

Ma se guardo questa galassia in questo modo forse sto cadendo nella trappola di molti pregiudizi che riguardano il bambino.

Nei pochi paesi del mondo che ho incontrato nella mia esperienza nella cooperazione internazionale l'idea che il bambino fosse un adulto non ancora sviluppato o che una famiglia avesse bisogno di una casa per poter superare i problemi relativi al maltrattamento, l'abbandono e la discuria dei minori, si riflettevano in interventi a tutela dell'infanzia che risultavano molto spesso fallimentari e sicuramente non tutelanti dello sviluppo del bambino. Ma queste idee non sono lontane dal pensare che più un bambino è piccolo meno soffre per l'abbandono subito, Oppure che se il bambino è piccolo si adatterà più facilmente alla sua nuova famiglia, o mi riconoscerà più facilmente come genitore. O che sarà più facile confrontarsi con le sue origini, imparare una lingua nuova o inserirsi nel gruppo dei pari.

In primo luogo la ferita dell'abbandono è emotiva e psicologica non cognitiva. Quindi non dipende dall'età del bambino. Il distacco dalla madre e dal padre biologico anche in fasce, o subito dopo il parto, rimane una perdita che giace nel profondo dell'animo del bimbo che perde il suo rifugio nel grembo della madre e il suo riferimento sensoriale, il suo sostentamento e il suo universo psicologico. Quel legame di attaccamento che poi si riflette nelle modalità comportamentali da adulto nasce proprio dai primi respiri del bambino, dalle sue prime esperienza di vita, se non addirittura nei sentimenti della madre durante la gravidanza.

Certamente il variare dell'età, il crescere del bambino, la consapevolezza dell'esperienza angosciosa dell'abbandono, rende questa esperienza differente. Ma nell'elaborazione, che non è mai un eliminare la ferita subita, i fattori che intervengono sono anche e soprattutto le modalità dell'abbandono o le esperienze successive. Il rifiuto del bambino durante la gravidanza e il suo abbandono dopo la nascita instaurano già dalla vita intrauterina un senso di fragilità e inadeguatezza scaturiti dall'impossibilità di comprensione di quanto accaduto e la naturale conseguenza di attribuirsene la responsabilità: io sono stato rifiutato quindi io sono sbagliato. Maggiore è la possibilità di comprensione di quanto sta accadendo quando l'abbandono avviene in età più consapevole: in questi casi si vive, più o meno lentamente, la realtà del distacco/abbandono, e il rifiuto può trasformarsi in una sostanziale sfiducia verso gli adulti.

Certo queste sono generalizzazioni che poi vanno calate dentro la realtà di ogni singola storia e persona. Ma sono già elementi che ci devono far riflettere sui nostri pregiudizi.

Oltre a chiedermi quanti anni ha mio figlio forse è il caso che mi chieda da dove viene, qual è la sua storia. Certo non sempre sappiamo con esattezza le storie dei nostri figli. Non le sappiamo con esattezza o a volte le informazioni che abbiamo sono frammentarie, saltano alcuni anni di vita o sono contraddittorie. Ma sono comunque indicative per noi. Possono darci una linea guida per capire qual è il bisogno a cui io, come genitore, ho deciso di rispondere.

Un bambino adottato già grande sarà in primo luogo maggiormente consapevole, anche se quasi mai preparato, di cosa sia l'adozione. È più facile comprenda quanto sta succedendo, per quanto non conosca la reale bontà e capacità di accoglienza di mamma e papà. Il suo vissuto abbandonico li renderà sicuramente diffidenti, più freddi o distaccati. Molto pronti a prendere e poco a lasciarsi andare. Inoltre purtroppo, a volte, gli affidi o le adozioni nazionali o le strategie di tutela del minore messe in atto dai paesi d'origine non hanno avuto esiti positivi e i bambini hanno rivissuto il dramma originale del loro abbandono o del maltrattamento, della discuria, riaprendo o acuendo l'antica ferita.

In altri casi il vivere tanti anni in istituto li porta presumibilmente ad aver subito privazioni affettive, psicologiche o relazionali tipiche dei processi di istituzionalizzazione: mancanza di legami privilegiati o esclusivi, depersonalizzazione del proprio Sé, insufficienti stimoli affettivi e cognitivi. Tutto questo generalmente può portare un ritardo nello sviluppo psicomotorio, ma anche a difficoltà nell'instaurare legami affettivi significativi. I bambini che hanno passato molto tempo in istituto possono sviluppare problemi comportamentali così come possono essere stati costretti dal contesto a crescere precocemente saltando tappe evolutive dello proprio sviluppo emotivo e del proprio Sé.

Abbiamo paura della malinconia del bambino nei confronti del proprio paese di origine e dei legami affettivi con i compagni di gioco o con gli adulti che di loro si sono occupati. Certo anche questo è un bell'ostacolo da affrontare, una vera e propria sfida alla nostra legittimità genitoriale che tanto a fatica ci siamo costruiti. Ma è anche una gran bella notizia: non solo dimostra che nostro figlio prova emozioni, anche se a volte le manifesta rifiutandosi di mangiare o lanciando il gioco che gli abbiamo regalato, ma dimostra anche che ha avuto la possibilità di avere esperienze positive nella relazione sia con i pari che con gli adulti. Un bagaglio molto più grande dell'esigua valigia con cui è uscito da quell'Istituto o da quella Casa Famiglia.

Le ferite subite molte spesso si mostrano più che attraverso le parole attraverso i comportamenti: più agitati, aggressivi, scontrosi ed anche violenti. È la messa alla prova di cui spesso abbiamo sentito parlare. Non è l'affido preadottivo che riguarda le questioni legali, ma il "Mi posso fidare" di nostro figlio che riguarda il nostro essere genitori. La storia di nostro figlio ci dice molto di lui. Anche quando non la conosciamo con esattezza. Sappiamo se ha potuto fidarsi nuovamente, se qualcuno lo ha tradito nuovamente, se ha dei giochi preferiti, dei cibi preferiti ed insieme a lui potremo ripercorre la sua storia. I nostri figli, quando ormai grandi, spesso ci chiedono di raccontare loro "quella volta in cui...". Hanno bisogno di ricordare. Di essere rassicurati.

Allora narrarla nuovamente con lui sarà un'occasione: non dobbiamo averne paura, perché lui la conosce già, ma forse non l'ha ancora compresa. Non ha compreso ancora quei vuoti, quelle informazioni mancanti. E saremo noi che potremo spiegargli, che potremo accogliere anche quei ricordi faticosi e quei vuoti dolorosi. Sapremo accogliere lui, perché è lui, con la sua storia conosciuta e sconosciuta.

 

Andrea Redaelli - psicologo, psicoterapeuta sistemico-familiare e formatore freelance

 

 

 

 

 

 

Data di pubblicazione: 
Lunedì, Marzo 2, 2015

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