Autore: 
Heidi Barbara Heilegger, avvocato

Non è raro che i media parlino di affido, quasi sempre in un'accezione negativa col rischio di offuscare le potenzialità insite in questo istituto. Preoccupa soprattutto il fatto che si alimenti l'idea che i minori vengono allontanati dalle famiglie senza una reale necessità di tutela, dando corpo alla tesi secondo cui la sotterranea finalità di questi provvedimenti sarebbe quella di consentire a Comunità e case-famiglia di lucrare sulla pelle dei minori.

Si tratta di una tesi suggestiva, ma inconsistente. A smentirla sono in primo luogo i numeri.

L'affido in Italia

I dati ufficiali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con riferimento all'anno 2012, indicano infatti come in Italia siano stati allontanati dalle famiglie molti meno bambini che in altri Paesi europei (2,8 per mille contro i 9 per mille della Francia e gli 8 per mille della Germania). E' vero che questo dato negli ultimi anni è verosimilmente cresciuto ed è destinato a crescere ancora in ragione dell'incremento del numero di minori stranieri non accompagnati sul territorio, ma si tratta comunque di numeri ben lontani dal giustificare l'allarmismo che serpeggia nell'opinione pubblica.

Inoltre, non si considera come gli operatori delle Comunità e della case-famiglia difficilmente potrebbero influire sulle decisioni del Tribunale per i Minorenni per il semplice fatto che la decisione relativa a dove collocare il minore è di solito successiva al provvedimento di allontanamento.

Quest'ultimo, infatti, da un punto di vista formale, ha luogo attraverso un decreto di affidamento del minore al Servizio Sociale con mandato di collocarlo in idoneo ambiente eterofamiliare: potrà trattarsi di una struttura o di una famiglia affidataria. In quest'ultimo caso si realizzerà il c.d. affidamento familiare giudiziale che si contrappone all'affidamento familiare con il consenso dei genitori (art. 4 Legge n. 184/1983).

La procedura

Occorre poi tenere presente che, sebbene la legge lasci ampia discrezionalità al giudice quanto alla scelta dei provvedimenti da adottare a tutela di un minore, la giurisprudenza è orientata nel senso di adottare dapprima quelli meno invasivi – ad esempio la prescrizione ai genitori di sottoporsi a terapie psicologiche o di intraprendere percorsi di recupero dalla dipendenza da alcol o stupefacenti o l'incarico ai Servizi di svolgere determinate attività a sostegno del minore – e quelli, invece, via via sempre più limitativi della responsabilità genitoriale solo in caso di insuccesso delle misure più blande sperimentate in precedenza. Ma vi è di più: anche quando interviene una limitazione della responsabilità sarà possibile affidare il minore all'Ente competente per territorio mantenendo comunque il collocamento presso il genitore se l'ambiente domestico è idoneo ad ospitarlo e la qualità del legame affettivo è tale da sconsigliare l'allontanamento.

In altre parole l'allontanamento è certamente possibile, ma verrà disposto in via di urgenza solamente nei casi più gravi, quando procrastinare l'intervento potrebbe risolversi in un maggior danno per il minore – un esempio per tutti quando vi sia il sospetto di abusi sessuali o maltrattamenti– oppure se i precedenti tentativi di intervento si siano dimostrati fallimentari.

Le motivazioni

Non ci si deve mai dimenticare che i provvedimenti adottati dal Tribunale per i Minorenni hanno una funzione protettiva nei confronti dei minori e non punitiva dei genitori: l'unica, vera ratio che li legittima è quella di evitare che in futuro si ripetano atti dannosi oppure che si protraggano nel tempo le conseguenze negative di comportamenti pregressi. Ciò che rileva è da un lato la condotta obiettiva del genitore, dall'altro il pregiudizio per la prole.

Coerentemente con la funzione descritta non avrà, invece, alcun rilievo il carattere doloso del comportamento. In parole semplici l'atteggiamento pregiudizievole del genitore potrebbe non essere intenzionale ed anzi addirittura inconsapevole: è questo, ad esempio, il caso della malattia mentale. D'altra parte bisogna evitare deduzioni semplicistiche ricavandone la conclusione che il disagio psichico del genitore comporti sempre e necessariamente un intervento del Tribunale per i Minorenni: ciò infatti avverrà solamente se il disagio psichico che lo affligge arreca oggettivamente danno al figlio o lo pone in pericolo.

Non esiste – né alla luce di quanto sin qui detto potrebbe essere altrimenti – un elenco tassativo di comportamenti tipici che giustifichino l'allontanamento del minore ed in generale l'intervento del Tribunale dei Minorenni nella vita familiare: bisognerà valutare per ogni singolo caso sottoposto all'attenzione del giudice prima se un intervento è necessario e, poi, quale, escludendo le misure più drastiche se la tutela del minore è altrimenti conseguibile.

D'altra parte, nei suoi ripetuti interventi, la giurisprudenza ha spesso avuto modo di mettere in guardia contro i rischi legati alla c.d. violenza indiretta o assistita che si realizza quando quest'ultima – sia essa fisica o psicologica – viene perpetrata da un genitore nei confronti dell'altro e non direttamente nei confronti del figlio. Si tratta, infatti, di comportamenti che alterano l'atmosfera familiare e possono comunque pregiudicare la crescita equilibrata di un minore, in particolare il modo di vivere e percepire le relazioni di coppia anche nella propria vita futura. Quest'ultima parrebbe una considerazione piuttosto ovvia, eppure non è raro che l'autore della violenza legga nell'intervento del Tribunale per i Minorenni una indebita ingerenza, argomentando come lo stesso si lasci coinvolgere in dinamiche di coppia che non riguardano i figli.

All'opposto, come accennato poco sopra, la patologia psichica del genitore o, per citare un altro tra i diversi, possibili esempi, l'esercizio della prostituzione da parte della madre, escluderanno la legittimità dell'intervento del giudice qualora di per sé non comportino alcun pregiudizio per il minore. La circostanza descritta è meno singolare di quello che si potrebbe pensare: il supporto di una valida rete di parenti o amici o l'aiuto di professionisti competenti possono rappresentare importanti risorse e fattori di protezione del minore rispetto a comportamenti o scelte del genitore che potrebbero altrimenti arrecargli disagio. Per liberare poi il campo da un equivoco spesso alimentato dai media è doveroso sottolineare come a giustificare l'intervento del Tribunale non potranno mai essere semplici difficoltà economiche. Quando, infatti, in un provvedimento si parla di povertà familiare non si fa solo riferimento alla povertà economica, ma si allude ad un contesto degradato anche sul piano morale ed affettivo, e comunque la condizione finanziaria non può essere l'unico elemento a determinare un allontanamento.

La grave inadeguatezza dei genitori potrà tranquillamente non avere relazione alcuna con la limitatezza dei mezzi economici identificandosi, invece, con atteggiamenti di trascuratezza e con l'incapacità di riconoscere i bisogni, anche emotivi, dei propri figli.

Certamente nel concreto saranno sempre possibili errori di valutazione così come in ogni altra vicenda umana: proprio per questa ragione i provvedimenti dei Tribunale per i Minorenni sono sempre reclamabili se definitivi (mentre quelli provvisori sono comunque modificabili o revocabili in corso di causa). Se dunque per ipotesi un Tribunale allontanasse un minore solo perché la famiglia ha delle difficoltà economiche ci troveremmo di fronte ad una decisione sbagliata, un abuso rispetto al quale si potrà agire per ottenere la rettifica della decisione.

Con la sola eccezione del provvedimento che dichiara lo stato di adottabilità del minore – che ne presuppone lo stato di abbandono morale e materiale – tutti gli altri provvedimenti, anche i più gravi, ipotizzano una situazione compromessa, ma non irreversibile: il genitore dichiarato decaduto potrà essere reintegrato nella responsabilità, il minore allontanato far ritorno in famiglia una volta che siano state rimosse le ragioni che ne determinarono il collocamento in ambito eterofamiliare.

Affido verso l'adozione o riaffido alla famiglia biologica

Una volta compresa natura e finalità dei provvedimenti del Tribunale per i Minorenni – che, come visto, non implicano necessariamente il collocamento del minore in ambito eterofamiliare, ispirandosi ad un principio di gradualità – si comprende anche come il problema del numero degli allontanamenti sia in realtà mal posto e fuorviante. Non si tratta, infatti, di verificare se gli affidamenti disposti dai Tribunali per i Minorenni in Italia siano tanti o pochi quanto, invece, di capire se poi vengano realizzati dei progetti individuali per ciascun minore, idonei a consentirne il reingresso in famiglia, nonché se e come questo numero, quale esso sia, possa in futuro venire ridotto con interventi preventivi a supporto delle famiglie potenzialmente in difficoltà.

Non è, però, solo la carenza di risorse adeguate e dedicate ad impedire all'istituto dell'affido di esprimere a pieno le proprie potenzialità, ma anche la sfiducia ed i pregiudizi di cui è vittima (testimonianza ne è il ridotto numero di affidamenti disposti con il consenso delle famiglie di origine rispetto a quelli imposti dal Tribunale).

L'affidamento infatti – come è stato giustamente sottolineato - “si dispiega in modo dichiarato nell'area che si costruisce nell'incontro tra due famiglie”[1]. Questa “genitorialità condivisa” per funzionare deve alimentarsi di fiducia e rispetto reciproco: i genitori affidatari non devono mai dimenticare il carattere temporaneo dell'affido, adoperandosi per il reingresso del minore nella famiglia di origine senza cedere alla tentazione di odiosi quanto inopportuni confronti con quest'ultima; la famiglia di origine deve pensare agli affidatari come ad una risorsa ed opportunità di crescita personale e del nucleo familiare nel suo complesso. I Servizi Sociali dal canto loro dovranno facilitare l'interazione e la partecipazione di entrambe le famiglie in un progetto di recupero articolato e flessibile che per essere realizzato dovrà prima di tutto venir condiviso. La condivisione di un progetto sarà ancor più impegnativa in relazione agli affidi eteroculturali (negli ultimi anni la presenza di minori stranieri sul totale dei minori fuori dalla famiglia di origine è cresciuta in modo considerevole): oltre alle difficoltà comuni a tutti gli affidi, la diversa dimensione culturale e religiosa rischia di amplificare le incomprensioni ed alimentare la reciproca diffidenza tra famiglia di origine e famiglia affidataria.

D'altra parte, nonostante le possibili criticità, l'affidamento si propone come uno strumento di tutela estremamente duttile, capace di rispondere alle esigenze di una realtà sempre più articolata, complessa.

Un ulteriore aspetto da non sottovalutare è legato al fatto che, al di là della bontà del progetto proposto, in alcuni casi il recupero delle competenze genitoriali e di conseguenza il reingresso del minore in famiglia, non sarà oggettivamente possibile. Al contempo, l'esistenza di un legame affettivo coi genitori escluderà il configurarsi della condizione di abbandono richiesta dal legislatore ai fine della dichiarazione di adottabilità. L'affido può rappresentare una risposta credibile anche in queste situazioni strutturandosi in forme di accoglienza che rinunciano al carattere della provvisorietà e si avvicinano, invece, all'adozione mite o aperta già attuata in altri Paesi. Certamente sarebbe semplicistico se non illusorio leggere in queste nuove forme di affido, non codificate, ma di fatto già sperimentate, una soluzione ad ogni disagio familiare, ma quantomeno hanno il pregio di ampliare il panorama dei possibili interventi a tutela dell'infanzia, una tutela che predilige la flessibilità delle opzioni alle risposte standardizzate.

Nonostante le molteplici potenzialità evidenziate e sebbene sia tutt'altro che un istituto introdotto di recente nel nostro ordinamento (è stato, infatti, regolamentato, per la prima volta, dalla legge n. 184/1983), l'affido resta, nel migliore dei casi, un istituto poco conosciuto, più spesso, a causa dei pregiudizi di cui è vittima, che fa paura. L'impegno degli operatori pubblici, ma anche delle associazioni familiari e di chiunque, a qualunque titolo, si occupi di disagio familiare, dovrà essere quello di svolgere una massiccia opera di informazione per scardinare i preconcetti e luoghi comuni in cui questo istituto resta ancora imbrigliato ed in generale di promuovere una cultura diversa, aperta alla solidarietà familiare. La sfida non è certo semplice: si tratta di far passare l'idea che la separazione, anche da un figlio, può essere necessaria, e soprattutto che separare non vuol dire necessariamente dividere, ma anzi è a volte un passaggio fondamentale per potersi davvero (ri)trovare.

 

 

 

 

[1]    O. Greco, Terre di mezzo tra affido e adozione in “Allargare lo spazio familiare: adozione e affido”, pag. 242

Data di pubblicazione: 
Lunedì, Gennaio 30, 2017

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