Autore: 
Silvia Ardigò

Arriva di corsa, una cascata di splendidi e selvaggi riccioli neri, un sorriso che ti abbraccia e due grandi occhioni dolci, che seppure di donna hanno ancora una luce di bimba.
"Ciao, scusa, sono in ritardo": eccola è Karin, nata a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) e adottata in Italia all'età di quattro anni.

Chi è Karin oggi?
Sono una ragazza di 28 anni con tantissimi sogni ancora da realizzare che nel frattempo lavora, sono insegnante di sostegno; un'occasione capitata per caso perché mai avrei pensato di fare questo lavoro. Al momento in una scuola Primaria. Sono anche Responsabile dell'handicap e coordino tutte le insegnanti di sostegno all'interno della scuola. Sono laureata in Scienze dell'educazione e successivamente ho dato l'esame per diventare pedagogista. Ho poi vinto una borsa di studio per un Master, appena terminato, in "Progettazione pedagogica nel settore della giustizia civile e penale", ed ho svolto lo stage presso il Tribunale per Minorenni di Milano nella Cancelleria civile e adozioni. L'esame è andato benissimo. Ora l'Università mi sta proponendo un dottorato – cosa che avevo peraltro già pensato di fare – relativo all'educazione degli adulti, ma non essendo un tema di mio interesse sto valutando ora la possibilità di andare a Roma per studiare "Psicologia e pedagogia nei Servizi sociali nel campo dell'adozione internazionale". In questo momento sono molto felice, ho come la sensazione che il mio obiettivo stia finalmente arrivando.

Qual è il tuo obiettivo?
Quello di lavorare nel campo dell'adozione. Cosa farò di preciso non lo so ancora; una volta volevo fare il Giudice onorario - ma la strada è molto lunga - l'idea però è sempre lì, sono sicura che prima o poi ce la farò, perché, anche se con sacrifici, nello studio sono sempre arrivata dove mi ero prefissata. Comunque già aver avuto questa opportunità di dottorato, indipendentemente dal fatto se lo farò o meno lavorare nel campo della ricerca sull'adozione, è una cosa che mi fa sentire alle stelle.

E poi?
Ho in mente un progetto, ben valutato dall'Università Cattolica, di fondare una Associazione di figli adottivi. L'idea è nata un po' dal mio vissuto e un po' dai tanti libri che ho letto; non di meno dal fatto che lavorando in una scuola dove sono molti i bambini adottati, mi sono resa conto che non sempre il bambino con questa storia viene "ascoltato" per quello che è. Ed è proprio da questa esperienza vissuta all'interno dell'ambito scolastico che ho deciso di aiutare i bambini adottati sia come supporto interno alla scuola che esterno, soprattutto nell'età adolescenziale. Questa associazione sarà fondata da figli adottivi adulti con lo scopo di creare momenti di confronto, che ritengo importanti.

L'idea di fondare questa associazione da dove nasce?
Io penso una cosa: essere figli adottivi è una cosa bellissima, l'ho sempre detto e l'ho sempre scritto. Sono però sempre stata consapevole di questa mia storia e in qualche modo io l'ho vissuta anche come una responsabilità.

Verso chi?
Mah, verso tutti quei bambini che non hanno avuto quello che ho avuto io.

E' come, perdonami il paragone, chi è sopravvissuto ad un "disastro" e sente che ha qualcosa da dover "restituire" ?
Si, esattamente. All'inizio lo vivevo come un senso di gratitudine nei confronti dei miei genitori, un fortissimo senso di gratitudine, talmente forte che mi opprimeva. Tutto quello che facevo doveva essere sempre perfetto per non deluderli; doveva essere fatto per loro. Perché sentivo di avere avuto molto. 24 anni fa non si parlava di adozione come se ne parla oggi, non si parlava delle problematiche che potevano insorgere dopo, neanche di cosa si portava dietro un figlio adottivo: non si sapeva. I miei genitori avevano già altri due figli, perciò con il mio arrivo hanno continuato quello che avevano già costruito con i miei fratelli, dimenticandosi però la storia che c'era dietro la terza figlia.
Loro mi hanno sempre detto che mi considerano figlia tanto quanto gli altri fratelli, ed è vero anzi, a volte, anche di più perché verso di me hanno un'attenzione particolare. Però, nello stesso tempo, spesso si sono dimenticati che comunque ero figlia adottiva o, meglio, non hanno mai voluto sentire dire da me queste parole. Sentirmi dire: "Sono figlia adottiva" (e io lo dico, e lo dico anche spesso) per loro questa affermazione è vissuta come: "Oddio, non si considera figlia".

Quindi se ti chiedo, ma tu oggi come ti senti: figlia o figlia adottiva?
Figlia adottiva. Quando ero più piccola avrei detto figlia, ora dico figlia adottiva. E non la vivo male. Penso sia una conquista, significa che ho accettato la mia storia, e se ne parlo è perché ne vado fiera, e non ho nulla da nascondere. Sono una figlia, ma con una storia diversa dai miei fratelli, una storia che mi rende figlia adottiva, ma pur sempre figlia, no?!! Sembra un gioco di parole, ma è la mia realtà.

Ma allora cosa fa scattare la differenza tra i due modi di sentirsi? E' un discorso di appartenenza?
No, non è quello. Io sento di appartenere alla mia famiglia al cento per cento, ma come figlia adottiva.

Ma, giustamente, rivendichi le tue origini. E' questo che intendi? Sono figlia, ma figlia adottiva perché comunque c'è quel pezzo di storia mia che nessuno mi può levare?
Si, è così.

Quindi è fondamentale quel pezzo di storia che c'è stato prima, che siano due mesi o cinque anni?
E' più che fondamentale, sì. Credo che incida nel vissuto di un figlio adottivo. Nel mio caso, prima avevo questo senso di gratitudine, perché ero consapevole di essere nata nella povertà, senza tutte le attenzione e l'amore di cui ha bisogno un bambino, per poi ritrovarmi qui, in una famiglia in cui un bambino cresce sereno. Quel pezzo di storia ha in qualche modo condizionato la mia vita. Io ho rimosso: non ho ricordi dell'Africa, è come se la mia vita fosse incominciata a quattro anni, ma so che non è così.

L'adolescenza, come l'hai passata?
Bene. Come tutti gli altri anch'io dicevo le mie bugie, facevo magari cose che non dovevo fare, però non ho dato grossi problemi.

Ma tu pensi di esserti autolimitata perché pensavi di dover essere grata?
Si, penso di essermi autolimitata.

Secondo te, dal punto di vista dei figli, che cosa occorre, cosa è necessario perché possano raggiungere un equilibrio?
Occorre non vergognarsi, per me è un orgoglio essere figlia adottiva, è una cosa che tengo sul palmo della mano. Però avrei dovuto parlare di più: chi sono, chi erano i miei genitori. Cosa che io invece ho sempre evitato.

Parlare di più all'esterno o in famiglia?
In famiglia, perché all'esterno io parlavo, ma in famiglia non ho mai detto niente.

Questo equilibrio che dici, come l'hai raggiunto? Da sola?
Io dico sempre grazie agli studi che ho fatto, tanta pedagogia e psicologia. Ho scelto sempre certi tipi di esami, che mi hanno permesso di comprendere meglio il mondo dell'adozione. Ho fatto anche la tesi di Laurea sull'adozione internazionale ottenendo i complimenti del relatore. Quella tesi mi era costata personalmente molto fatica, proprio perché più studiavo, più facevo un lavoro di analisi su di me. Dopo aver passato mesi immersa nei libri, ho rielaborato il tutto. ed è lì che mi sono detta "cavoli, ma qui ci sono io". Poi per caso ho incontrato un'associazione che si occupava di adozione e da lì ho iniziato io a cercarle, e andare a conferenze. Quando sento parlare psicologhe e pedagogiste mi ritrovo appieno in quello che dicono, e mi fa bene perché mi dico che allora sono normale: determinate reazioni che possono sembrare strane fanno invece parte del normale percorso di un figlio adottivo. Io le ho vissute più o meno tutte, anche se tardi.

A che età hai cominciato a pensare ai quattro anni vissuti in Repubblica Democratica del Congo?
Saranno due anni e mezzo. Infatti due anni fa sono stata in Madagascar perché nel mio Paese non si poteva tornare a causa della guerra. Però adesso vorrei proprio tornare.

Quindi, ad oggi, non hai ancora fatto il viaggio di ritorno
No. La scorsa estate ho ricevuto una telefonata dall'Africa che mi diceva che mio padre stava male e voleva vedermi, insistevano che mandassi anche una foto. Ed io che ho sempre detto "li capisco, avranno avuto le loro motivazioni", ho risposto malissimo: "poteva pensarci prima, sono passati 24 anni". Sono rimasta male della mia stessa reazione, ma dopotutto alla fine sono normale anch'io. Poi però, un po' sempre per paura di deludere i miei che mi hanno subito detto: "informati, prima devi capire se è veramente malato, non è che magari voglia..." , ed io alla fine non sono partita. Alla fine è arrivata la telefonata di mio zio che mi ha detto che era morto.

Rimpianti?
Io mi sono detta che sarei dovuta andare perché dopotutto era un uomo che stava morendo e avrai potuto esaudire il suo ultimo desiderio. Non ho pensato "è mio padre che sta morendo". Poi però, non riuscendo a contattare mio zio, non sono più partita.

Ma la tua famiglia d'origine sapeva allora dov'eri?
Si. Sapevano tutto. Mi hanno rintracciata tramite una mia zia materna che aveva sposato un italiano e che si era messa in contatto con i missionari che mi avevano fatto adottare.

Quindi tua madre biologica è ancora in vita e potresti rintracciarla. Cosa ti trattiene?
Dovrei mollare tutto per almeno un mese. Mentre te ne parlo mi verrebbe veramente voglia di tornare a casa e dire: "a giugno parto". E' una cosa che dovrei fare. Poi però, pensando che in Zaire c'è la guerra, penso sia un viaggio da organizzare nei minimi particolari.

Ok, allora diciamo che quando ti sentirai veramente pronta affronterai il viaggio di ritorno. Ma a parte gli aspetti logistici qual’ è la cosa peggiore che non riusciresti a sopportare?
Non tanto la reazione che avrebbe lei o io, ma il doverla vedere nella miseria. Quando ero in Madagascar pregavo di avere la forza di ritornare,avevo promesso ai bambini che sarei tornata ma non ne ho più avuto la forza perché ho visto quella miseria, e so che dove sono nata io, la situazione è peggiore.

Potresti però forse fare qualcosa.
Quello sì, sicuramente.

Pensi che sia a causa della miseria che sei stata data in adozione?
No, non è per questo. Mi hanno dato in adozione perché volevano farlo. Sì, in Africa c'è povertà ma con tutti i figli che avevano, solo me hanno dato in adozione. Il missionario mi ha raccontato che mi vedeva spesso in giro da sola e aveva paura per il mio futuro e allora andò dalla mia famiglia a chiedere se erano disponibili a darmi in adozione. E loro hanno detto di sì. Tornando chiederei "Perché? Perché io?"

Ma se le radici sono importanti non è anche vero che quello che più conta è ciò che costruisci dopo?
Sicuramente, però quando ho saputo che mio padre era morto io non ho pianto, perché non c'era un legame. A livello di emozioni non ho provato niente ma a livello fisico mi sono sentita male, era come se una parte di me non ci fosse più e non ci sarà più. Voglio andare in Africa anche per vedere a chi assomiglio.

Quindi non un senso di appartenenza ma di riconoscimento fisico?
Si, ed un po' mi sento in colpa perché da una parte non ho esaudito il suo desiderio e dall'altra non avrò più modo di vederlo e riconoscermi in lui. Tieni conto che avendo due fratelli biologici ho sentito spesso dire "assomiglia alla mamma", "assomiglia al papà"; vedi le foto di quando erano piccoli "è tutto il papà", queste cose a meì mancano. Mi piace quindi l'idea di rivederli in questo senso, per vedere a chi assomiglio.

Ma la diversità somatica, nel rapporto con i tuoi genitori e con gli altri, quanto ha inciso?
Sicuramente più con gli altri. I miei hanno letto a volte le mie crisi come un "non si piace" ma non è vero; magari da piccolina, arrivata in un mondo di tutti bianchi, evitavo la gente di colore come a rimuovere tutto ciò che poteva ricordarmi l'Africa, ma non ho mai avuto complessi.
Verso l'esterno invece sì, anche adesso mi accorgo che la gente mi guarda un po' come fossi un alieno "è una ragazza di colore ma guarda come va avanti nello studio, guarda che lavoro, guarda..." Come quando dico che sono una pedagogista e mi sento rispondere "ah si!"

Non corrispondi al loro stereotipo dell'uomo di colore..
Si, infatti. In ogni caso qualche volta l'ho usato anche a mio vantaggio, magari durante gli esami, quando il docente si stupiva dicendo che parlavo bene l'italiano e magari prendevo un voto più alto.

Le persone a conoscenza del fatto che eri stata adottata non hanno mai reagito in modo particolare, non sei mai stata presa in giro, non ti hanno mai detto frasi poco carine?
Non hanno mai reagito, quella è la differenza. Io considero amici quelli che vogliono sapere qualcosa di me e me la chiedono. Però sono poche le persone che ti chiedono, anzi il più delle volte evitano di parlarne come se l'essere adottati sia qualcosa di cui non bisogna parlare.

Come pensi di dare una mano, creando questa nuova associazione, a tutti questi ragazzi e ragazze che, spesso, provengono da storie anche diverse dalla tua ed in una realtà, oggi, differente rispetto al passato?
Il mio obiettivo è quello di fargli capire che essere figli adottivi è comunque un modo di essere figli, di essere comunque ragazzi come tutti gli altri con gli stessi problemi e con un qualcosa in più che emerge dovuto alla storia che ti porti dietro. A volte sembra quasi che l'essere adottivo sia quasi come una patologia: non è così, abbiamo solo un vissuto diverso. Non bisogna rinnegare la propria origine ma partire da subito nell'affrontarla.

Quando sei arrivata in Italia, all'età di quattro anni, sapevi bene di essere stata adottata ma mi hai detto che in qualche modo l'hai rimosso. A che età ne hai preso nuovamente piena coscienza e consapevolezza?
Penso verso i diciotto/diciannove anni; anche se sapevo benissimo ciò che mi era successo – ho chiaro in mente il ricordo del viaggio dall'Africa a qua. L'unica cosa che ancora oggi facciamo è festeggiare la data del mio arrivo in Italia. Ma non si è mai parlato dell'adozione o di cosa significhi essere figlia adottiva.

Quindi hai iniziato a parlarne in casa solo da adulta?
Si. Ne ho parlato nel senso che ho iniziato a dire: "io mi sento così, ho queste reazioni, per questo motivo...", perché io sento questo forte senso di gratitudine, parola tabù che non doveva essere detta ma che mi permetteva di tirare fuori quello che avevo dentro.

Sbagliato è solo il concetto di gratitudine, non il fatto che tu sentissi di doverlo tirare fuori.
Si, però nel momento stesso che lo tiravo fuori facevo capire che c'era un problema, un grosso problema che andava risolto.

Il rapporto con i tuoi fratelli?
Tranquillo. Da quello più grande ho sempre avuto sostegno e aiuto mentre l'altro, un po' più chiuso.

Rimpianto per un altra vita che non hai potuto vivere?
No, assolutamente. Questa è la mia vita e ne sono convinta al cento per cento. L'altra vita è come una ferita; io avevo quattro anni e l'unica cosa che mi ricordo dell'Africa - e lo dico sempre - è quella bambina che piangeva, ero all'aeroporto e piangevo tanto, ed io questa sensazione di pianto ce l'ho ancora addosso, ed infatti piango.

Un'ora e mezza è trascorsa volando, ci salutiamo e la prima cosa che Karin fa, uscite dalla stanza, è chiamare al cellulare la mamma.

Grazie Karin, ti auguro, di cuore, che un giorno, voltandoti, non sentirai più il pianto disperato di quella bimba di quattro anni, ma ne scorgerai finalmente il sorriso sereno.
 

Data di pubblicazione: 
Martedì, Aprile 24, 2007

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