Autore: 
Joyce Manieri

Psicologa e psicoterapeuta. Lavora da anni nelle adozioni ed è membro dell'Associazione di psicoterapia dell'adolescenza e dell'età giovanile ad indirizzo psicodinamico.

La specificità dei bambini adottati internazionalmente

Perché è importante parlare alla scuola della specificità dei bambini adottati da altri paesi?

Innanzitutto perché quando si parla del diritto allo studio ed all'istruzione si parla di un diritto pubblico soggettivo. Cioè di un diritto che, per  poter essere esercitato ha bisogno che le formazioni sociali, in questo caso la scuola, riconoscano l'unicità e le caratteristiche precipue dell'individuo sulla base delle quali devono saper adeguare le loro risposte. La Dichiarazione dei Diritti Universali dell'Uomo e la Convenzione Universale sui Diritti del Fanciullo affermano che ogni individuo ha diritto a ricevere un'istruzione e che questa deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana, cioè allo sviluppo delle sue capacità, delle sue attitudini mentali e fisiche in tutta la loro potenzialità. Il diritto all'istruzione è presente anche nella nostra Carta Costituzionale, che nel convincimento di fondo che essa rappresenti il motore del progresso e della civiltà, ne afferma la forte funzione sociale nel momento in cui stabilisce che la scuola è aperta a tutti ed è obbligatoria e gratuita. L'altra faccia del diritto all'istruzione è, dunque, il dovere ad avere un istruzione, come obbligo di ciascuno cittadino per poter adempiere ai propri compiti sociali. Il diritto all'istruzione, dunque, non va considerato solo come il diritto ad avere accesso ad un istruzione, ma come il diritto/dovere a raggiungere il successo formativo e la conquista del più elevato livello di competenza possibile. Parlare, allora, della specificità dei ragazzi adottati da altri paesi significa capire come rimuovere quegli ostacoli che non permettono di mettere veramente a frutto le potenzialità di questi ragazzi. 

I bambini adottati da altri paesi

Sappiamo che, ancora oggi, sussiste un vuoto normativo, ovvero che la scuola italiana trova forme di flessibilità educative e didattiche solamente all'interno delle politiche per l'intercultura e la disabilità. Tuttavia il bambino adottato da altri paesi non può essere assimilato al bambino straniero, così come può manifestare forme di disagio non per forza accumunabili a quelle dei bambini portatori di handicap. Rispetto ad un bambino che arriva a scuola attraverso un processo migratorio accompagnato dalla sua famiglia di origine, sicuramente il bambino adottato da altri paesi ha delle specificità che non possono non essere prese in considerazione: di fatti, egli si inserisce in un contesto linguistico e sociale totalmente nuovo ed è impegnato nella costruzione dell'appartenenza alla nuova famiglia ed alla costruzione dei nuovi legami di attaccamento.

La scuola come spazio di accoglienza

Dal 2000 al 2013 hanno fatto ingresso in Italia per adozione internazionale circa 34.000 bambini, che sono entrati nelle nostre scuole.  Questi bambini hanno diritto ad una scuola che comprenda ed affronti anche le loro specificità, utilizzando il patrimonio di cui sono portatori e li accolga con disponibilità per venire incontro ai loro bisogni. Si può senza dubbio affermare che l'istituto dell'adozione internazionale rappresenta sempre di più una delle modalità dell'essere famiglia oggi e la scuola, per poter assolvere pienamente alla sua funzione sociale, ha la necessità di imparare a dialogare con questa realtà. Tanto più che negli anni si è assistito ad una crescita costante dell'età media di ingresso di questi ragazzi che si attesta ormai da tempo sui 5,5/ 6 anni. Questo vuol dire, in primo luogo, che per molti di questi ragazzi la scuola rappresenta anche il luogo in cui viene sperimentato l'incontro con la nuova società. In secondo luogo, ciò indica che per molti di questi ragazzi al viaggio adottivo si sovrappone quello all'interno della scuola. Questi ragazzi, le cui energie psichiche sono impegnate in compiti di sviluppo importanti come il recupero delle esperienze traumatiche infantili, il superamento dell'esperienza di perdita legata all'adozione e la creazione di nuovi legami di attaccamento, presto[1] dovranno affrontare anche le richieste della scuola (cognitive, attentive, sociali e relazionali,  con propri ritmi di apprendimento, ecc.) andando a sovraccaricare il bambino. La scuola riveste, dunque, un ruolo molto importante tanto da arrivare spesso a poter determinare, per questi ragazzi, la qualità dell'intero processo di integrazione.   

Considerazioni sull'età e sul sistema scolastico di provenienza

A  questo si aggiunga che, come afferma il rapporto Unicef del 2012, nel mondo solo il 60% dei bambini vengono registrati all'anagrafe subito dopo la nascita. Può capitare che la loro situazione venga regolarizzata solo successivamente attribuendo ai bambini un'età presunta, magari al momento dell'ingresso in Istituto od all'atto dell'adozione.  Di conseguenza può capitare, soprattutto per bambini provenienti da determinate aree geografiche (es. Etiopia),  di rilevare ex post una discrepanza di 1 o 2 anni tra l'età anagrafica e l'età reale dei ragazzi.

Allo stesso modo bisogna considerare che nella maggior parte dei paesi di maggior provenienza dei bambini adottati internazionalmente, la scuola inizia a 7 anni. Questi bambini, sovente, arrivano da paesi in cui i sistemi scolastici differiscono dal nostro, a volte non solo negli aspetti organizzativi e curriculari, ma finanche nell'approccio e nella filosofia dell'educazione.  Non si può, infatti, capire il sistema scolastico di un paese diverso dal nostro senza interrogarsi sulla cultura ed i sistemi valoriali della società che è chiamata ad educare: istruzione, scuola ed educazione possono assumere forme, ma anche significati diversi!

Inoltre, perché la scuola possa svolgere a pieno la sua funzione sociale, è necessario  che  comprenda la specificità dell'adozione ed i bisogni che portano con loro questi ragazzi.

Comprendere l'adozione

L'adozione si connota, innanzitutto come un'esperienza di perdita... essere stato adottato significa, innanzitutto, essere stato abbandonato.

Un esperienza di perdita che rispetto ad altre esperienze similari, quali il divorzio dei genitori o l'essere orfani, è caratterizzata, secondo Brodzinsky[2], da alcune caratteristiche: ovvero è un esperienza inconsueta, che comporta vissuti di isolamenti ed estraneità; è più estesa delle altre in quanto comporta la perdita non solo dei genitori o dei legami precedenti, ma la perdita  dell'intera ereditarietà genealogica e culturale (è l'intero ambiente di origine ad essere perduto) ed è anche la meno supportata socialmente poiché tutta l'attenzione sembra focalizzarsi sulla costruzione dei nuovi legami piuttosto che sull'elaborazione della perdita dei vecchi.

A tal proposito è importante sottolineare che il vissuto di perdita legato all'adozione emerge gradualmente e viene compreso dai ragazzi in maniera differente a seconda dello sviluppo cognitivo raggiunto. Normalmente è proprio verso i 6-8 anni, l'età della prima scolarizzazione, che i bambini pervengono alla maturazione cognitiva necessaria a stabilire legami di causa ed effetto tra gli eventi, arrivando a comprendere che l'essere stato adottato significa innanzitutto l'essere stato abbandonato, con ripercussioni più o meno violente sul proprio assetto identitario e sul senso di sé.

L'adozione, di fatto, deve essere considerato un long life process, ovvero un processo che pur rappresentando un indubbio vantaggio per i bambini, ai quali garantisce la permanenza in una famiglia e l'opportunità di una sana crescita e di un miglior sviluppo rispetto a quello che avrebbero avuto altrimenti, lungo tutto l'arco della vita, pone ai genitori ed ai loro ragazzi delle sfide che possono influenzare l'autostima, l'identità, le relazioni familiari e l'adattamento psicologico (dovremmo chiederci, allora, quanto è importante mantenere un'attenzione specifica alle dimensioni affettive lungo tutto l'arco della vita scolastica di questi ragazzi e quanto realmente ciò viene fatto o  meno).

La dimensione affettiva dell'apprendimento

La Femmie Juffer[3] ha condotto una meta analisi su 270 studi sull'adozione pubblicati dal 1950 al 2005 dimostrando che l'adozione costituisce un fattore protettivo per lo sviluppo dei bambini.

Da quando entrano in famiglia i bambini adottivi hanno un recupero fenomenale in molte aree dello sviluppo (sviluppo fisico, problemi emotivo-comportamentali). Nonostante ciò, numerose ricerche indicano chiaramente come la media dei bambini adottati abbia una riuscita scolastica inferiore rispetto ai coetanei non adottati. Si evidenzia, cioè, un'adoption decalage (squilibrio) tra le loro potenzialità (un Q.I. nella norma) e la riuscita scolastica (Van Ijzendoorn, Juffer, 2010, cfr. Fig 1)

E' come se, nonostante gli sforzi profusi, fosse faticoso cogliere in questi bambini/ragazzi le loro potenzialità. Non è raro che questi bambini abbiano una buona dotazione cognitiva, ma la loro capacità di riflettere, essere incuriositi e voler capire risulti, invece, gravemente compromessa.

Andare oltre la sindrome del bambino adottato

Spesso, in questi ragazzi, non si evidenziano tanto difficoltà cognitive, ma problematiche affettive che possono inficiare le loro capacità autoregolative, andando ad interferire nello sviluppo delle componenti attentive e metacognitive. E' ormai risaputo che l'apprendimento non è da intendersi come un processo esclusivamente intellettuale, ma risulta legato anche alle vicissitudini emotive ed affettive che hanno costituito le peculiari modalità attraverso le quali ci si rapporta al mondo esterno.

Del resto, imparare vuol dire, innanzitutto, entrare in contatto con gli oggetti del mondo esterno, esplorare qualcosa di esterno da sé per farlo proprio; un processo introiettivo che risulta fortemente influenzato dal mondo interno del soggetto che apprende (l'apprendimento richiede una notevole fiducia in se stesso e la conseguente possibilità di aprirsi all'ignoto). Credo che comprendere le dimensioni affettive dell'apprendimento possa aiutare gli insegnanti a capire le motivazioni ed i comportamenti dei ragazzi a scuola, le loro difficoltà (altrimenti insondabili) ed a raccogliere la sfida che questi ragazzi portano a scuola.

Non è un dato trascurabile quello emerso da un indagine nazionale sull'inserimento scolastico del bambino adottato da altri paesi, condotta nel 2003[4], nella quale risultava come nel momento in cui questi bambini/ragazzi hanno problemi a scuola, generalmente, vengono considerati difficilmente gestibili dalle insegnanti, che attribuiscono le difficoltà soprattutto all'adozione ed alle conseguenti incognite sul passato educativo e culturale del bambino. Sarebbero, dunque, proprio gli elementi che derivano dall'adozione internazionale a rendere questi ragazzi, agli occhi delle insegnanti,  diversi, insondabili nelle motivazioni dei loro comportamenti ed, in un certo senso, "immodificabili". Il risultato è che gli insegnanti hanno scarsa fiducia nelle possibilità di recupero di questi ragazzi e finiscono per  "accontentarsi" del loro apprendimento, del loro comportamento e della loro socializzazione. Tuttavia, una buona e attenta accoglienza a scuola, per questi ragazzi, significa, innanzitutto, superare il mito della "sindrome del bambino adottato", che vorrebbe attribuire le difficoltà del bambino esclusivamente alla condizione adottiva.

E' importante chiarire, infatti, che l'adozione non è un'affezione che presenta caratteristiche costanti in tutte le persone che ne sono colpite («fa così perché è adottato!») e che una larga maggioranza di figli adottivi presenta caratteristiche psicologiche e sociali nella norma e raggiunge un buon livello di  adattamento e di funzionamento globale. Sicuramente una buona accoglienza a scuola sarà possibile solo ponendo una maggiore attenzione agli aspetti emotivi e relazionali rispetto ai temi organizzativi e curriculari così cari alla scuola italiana. Gli insegnanti, prima di tutto, sono adulti significativi che accompagnano la crescita dei ragazzi e che con le loro azioni responsabili, attente e coraggiose possono rappresentare quel buon incontro capace di inaugurare un nuovo cammino resiliente.

Bibliografia

AA.VV. (2003). L'inserimento scolastico dei minori stranieri adottati, Istituto degli Innocenti, Firenze.

AA.VV. (2010). I sistemi scolastici nei Paesi di provenienza dei bambini adottati. Istituto degli Innocenti, Firenze.

Chistolini, M. (2006), Scuola e Adozione. Linee guida e strumenti per operatori insegnanti, genitori. Franco Angeli, Milano.

Cyrulnik, B, Malaguti, E., (2005), Costruire la resilienza, Erikson, Trento

Feritti, M., Guerrieri, A. (2013), Scuola e  adozione: dossier del CARE. Focus sull'inserimento a scuola dei bambini e delle bambine adottati internazionalmente

Juffer F., Van Ijzendoorn M. H. (2005), Behavior problems and mental health referrals of international adoptees. In The journal of  the American medical association, vol. 293, pp. 2501-2515.


 

[1] I dati dell'indagine nazionale sull'inserimento scolastico dei minori stranieri adottati effettuata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali del 2003 evidenziano come nel 63 % dei casi  l'inserimento a scuola avvenga entro i primi 100 giorni dall'ingresso in Italia. I dati sono stati sostanzialmente confermati dall'indagine sul'esperienza della famiglie che avevano concluso l'adozione nel 2012.

[2] David Brodzinsky è professore emerito di psicologia clinica e dello sviluppo. Ha fondato e dirige l'Evan B. Donaldson Adoption Institute che si occupa di ricerca, istruzione e formazione nel campo dell'adozione.

[3] Femmier Juffer è professoressa di psicologia dell'adozione presso l'Istituto di Scienze della Formazione e di Studi sulla famiglia dell'Univertsità di Leiden in Olanda.

[4] L'indagine è pubblicata nel volume L'inserimento scolastico dei minori stranieri adottati, Istituto degli Innocenti, Firenze (2003). 

Data di pubblicazione: 
Lunedì, Novembre 10, 2014

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