Autore: 
Duccio Demetrio

 

Uno sguardo filosofico

In adozione, sia per chi è adottato, sia per chi accoglie, è quasi superfluo che si evochi la nozione di “transizione”.

Da tempo ormai, nelle scienze umane, questo è un tema oggetto di molteplici ricerche, relative ai passaggi iniziatici dell’esistenza e ai rituali ad esse connessi di carattere sociale. Ma, soprattutto, l’esperienza adottiva, prima e durante il suo adempiersi, non può essere compresa qualora si presti scarsa attenzione alle modalità di elaborazione psicologica, le più private ed intime, che l’evento e i cambiamenti concomitanti inevitabilmente ingenerano nelle storie dei diversi protagonisti. Risvegliando aspetti profondi, spesso inattesi, tanto in chi accoglie quanto negli “accolti” tanto attesi e desiderati. Forse più in chi accoglie, dal momento che è risaputo che sono gli adulti ad essere meno permeabili ai cambiamenti seppur perseguiti scientemente.

In questo scritto, la declinazione con la quale parleremo di adozione sfiorerà soltanto, per incompetenza dell’autore, tali aspetti di carattere psicodinamico. Il nostro sguardo sarà infatti filosofico, dove - con questa precisazione dovuta - si vuol intendere quel punto di vista che indaga la condizione umana e che, proprio per questa ragione, non può certo essere insensibile ai perché e ai percome gli individui riflettano su quanto accade loro di sperimentare in prima persona.

La filosofia, oggi, dopo essersi a lungo occupata - certo non sempre anche in passato- di svelare verità ultime e assolute, di disegnare sistemi concettuali e spiegazioni circa la natura delle cose o delle virtù per raggiungere qualche verità, si è data finalmente obiettivi meno ambiziosi. Vuole riavvicinarsi alle vite umane, nella loro inesauribile differenza e molteplicità; al fine di riscoprire in ciascuna come le persone interpretano la loro esistenza e vi attribuiscono un senso biografico.

I filosofi odierni, pertanto, non indagano più soltanto a “tavolino”; non traggono dalle opere di chi li ha preceduti le loro teorie. Piuttosto, come i loro più antichi maestri, interpellano le donne e gli uomini, li sollecitano a porsi domande e a darsi risposte sensate, a mettere in dubbio alcune certezze, a intraprendere quel viaggio senza mai approdi definitivi che è la conoscenza di se stessi: in quanto individui e in quanto cittadini del mondo.

Li invitano a cercare nella loro coscienza quali condotte razionali e morali siano più in grado di condurli verso un maggior benessere interiore e a quella “inquieta serenità” necessaria e sufficiente ad affrontare i temi vitali che ogni esistenza si trova ad affrontare. Dando ad essi una spiegazione, pur sempre provvisoria, che ci richieda risposte consapevoli e responsabili: per diventare più profondamente umani dinanzi all’ amore, alla legittima e universale ricerca della giustizia, della felicità, del bene comune; dinanzi alla sofferenza nostra e altrui, alla inevitabilità della morte, a come ci rapportiamo al tempo, alla memoria, al presente o al futuro.

Sono queste dunque, e innumerevoli altre, questioni tangibili, affatto astratte, che la filosofia contemporanea definisce “esistenziali”.

Esse sono ineludibili e tali da costituire per ognuno di noi altrettanti appuntamenti per imparare a vivere meglio e più pensosamente.

Perché è questo l’obiettivo principale che la filosofia non manca di sottolineare, in funzione educativa: per una più profonda conoscenza di che cosa significhi esistere come soggetti e non secondo principi di ordine generale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non possiamo ignorare che l’analisi filosofica si sofferma su aspetti del processo adottivo, della catena - non proprio sequenziale e preordinabile – di episodi che fanno di tale scelta:

  • un gesto epifanico (un inizio);
  • un gesto di speranza (una rinascita possibile);
  • un gesto di rescissione col passato (una crisi );
  • e naturalmente un gesto etico (riconducibile ad un comportamento morale virtuoso e di solidarietà).

 

L’ adozione come transizione autobiografica: la narrazione

Se pertanto, da un lato, il nostro sguardo si soffermerà sull’ analisi di simili questioni, che l’ esperienza adottiva solleva – e che ci svelano parti di noi che non sapevamo di abitare, dall’ altro lato, esso si occuperà di evidenziare come la rappresentazione dell’ evento adottivo possa meglio definirsi grazie ad attenzioni di carattere narrativo o meglio narratologico.

Dal momento che, e non solo l’ adozione, è una vicenda generatrice di storie di vita da incontrare, ridiscutere, riorganizzare, dimenticare anche.

Il non sapere e volere raccontare la propria storia o il non sapere sollecitare adeguatamente i racconti ad essa inerenti, avvalendosi di quello che è un metodo di interazione naturale e spontaneo in assenza di problemi, traumi, disagi connessi ai passaggi vissuti dagli uni e dagli altri, dagli adulti quanto dai minori, ostacola l’enucleazione dei temi esistenziali cui si è accennato. L’ approccio filosofico e le pratiche innovative che lo corroborano a che altro possono attingere se non alle storie narrate dai loro protagonisti in prima persona?

La dimensione soggettiva che ogni narrazione dell’io enfatizza ed esalta, (imponendosi all’attenzione degli ascoltatori), diventa perciò essa stessa una questione filosofica: quando ci chiediamo quali siano le circostanze, i condizionamenti, i vincoli che impediscono ad un individuo di dire di sé, di accedere ad una migliore consapevolezza di quanto significhi per lui o per lei.

Non solo introspettiva, quanto semmai relazionale: l’esercizio di autocoscienza vale quanto più si dimostri generatore di considerazioni e cure da parte degli altri.

Tanto più quando il racconto esiga, per rendersi più esaustivo o per facilitare incontri nuovi e l’avvio di una convivenza, una peculiare modalità discorsiva che denominiamo autobiografica.

Presente laddove i narratori non si limitino a parlare di sé, ma utilizzino il medium della scrittura per raccontarsi le reciproche storie precedenti l’adozione o da questa originate. Per condividerle, man mano che le scritture prendono forma, o viceversa, per serbarle gelosamente rinviando discrezionalmente ad altri momenti il loro contenuto.

Come non essere d’ accordo dunque con Gabriel Garcia Marquez che la vita vale la pena viverla (anche) “per raccontarla” e scriverla?

Appunto non soltanto ricorrendo all’ oralità,  piuttosto - attraverso un’ attività letteraria, anche la più modesta e senza pretese – che può trasformare l’apparentemente banale in esemplare; il quotidiano in resoconto avvincente o introspettivo; gli istanti descritti in una lettera, in un diario, in una biografia, in occasioni di poesia.

L’ adozione, certo come molti altri avvenimenti, è generatrice di racconti autobiografici plurimi, riconducibili agli episodi “transizionali” vissuti: la cui irreversibilità, come avviene nella filiazione naturale, cambia il corso delle storie, le segna e ne prefigura il disegno.

Al contempo, l’ adozione si presenta per tutti i suoi protagonisti come uno spazio intersoggettivo, di natura concreta (innumerevoli sono gli aspetti pratici che implica) e affettiva (innumerevoli sono le implicazioni emotive, desideriali, fantasmatiche che mette in gioco), dove si adempiono momenti in successione e in simultanea connotati dalla reversibilità di abitudini, di atteggiamenti, di scelte, di orientamenti ideali, di pregiudizi, ecc. Le storie di vita in versione scritta, che assumono così la più corretta denominazione di auto-bio-grafie ( lett: le scritture della propria vita redatte da sé medesimi), possono essere le più elementari, essenziali, o le più complesse e complicate quando danno origine a veri e propri romanzi ad intrigo. Per parafrasare Italo Calvino, quando assumano per chi se ne occupi, o soltanto possa accedere alla loro lettura, una funzione di natura esistenziale.

Ciò che si consegna alla pagina è l’esito di un maggior filtro cognitivo, sia essa stata ponderata o redatta di getto. C’è sempre qualcosa di più in uno scritto, si trattasse soltanto di poche righe, della persona che si sia affidata alla penna.

Qualcosa che, in primo luogo, dovrebbe essere l’autore a considerare come una preziosa opportunità per ritrovarsi, in quanto ha voluto narrare tra consapevolezza e impliciti dettati dall’inconscio. In secondo luogo, chi ha responsabilità di guida, educative, neogenitoriali, terapeutiche, è in questi documenti, oltre che nei consueti protocolli narrativi orali ( colloqui, sedute cliniche, conversazioni …) che può individuare ulteriori indizi utili a diagnosticare lo stato di benessere o di malessere del narratore o della narratrice. Ben oltre i contenuti testuali esplicitati.

Scrivere o non scrivere

E’ quasi ovvio, del resto, richiamarsi al ruolo proiettivo della scrittura, al di là delle dichiarazioni, delle affermazioni, dei racconti “nero su bianco”. E’ lo studio delle motivazioni o viceversa delle fughe dalla scrittura che ci consente di comprendere - possedendo questa un valore simbolico esemplare – quali siano, ad esempio, i livelli di autostima o viceversa i modi dispregiativi del narratore verso se stesso e il proprio passato.

Chi accetta di buon grado di scrivere di sé, possiede una opinione sufficientemente positiva della propria persona (e della propria vicenda); infatti, accade di notare che vi si dedichi con disponibilità e passione pur potendo giovarsi di strumenti linguistici assai modesti. Viceversa, il rifiuto di scrivere- spesso connesso al fastidio per la lettura, fatte salve le ragioni che inducono ad auto proteggersi quando non sussistano condizioni rassicuranti, favorevoli all’ uso di tale esercizio, - testimonia il disprezzo verso quanto possa indurre immagini e rappresentazioni di sé ritenute sgradite o intollerabili.

La storia umana che riesca a diventare scrittura, a trovare il proprio sosia, ad accettarlo con benevolenza, a farne il proprio “compagno segreto” - è un’ altra versione della propria esistenza che aggiunge valore, informazioni, congetture al racconto. In tal modo, anche poche righe, quando vengano sollecitate da chi professionalmente o come genitore adottivo si occupi di storie di adozione, hanno il vantaggio, rispetto alla oralità, di alimentare il desiderio di continuare a farlo. Dove non importa tanto la veridicità del racconto, quanto che quel racconto si sia disposti a scriverlo: in quanto messaggio di benvenuto, di accettazione, di accoglienza. Il fatto stesso che lo scrivere chieda a chiunque almeno un poco di concentrazione, di solitudine, di raccoglimento, ci consente di comprendere quali rapporti lo scrivente riesca a intrattenere con la importanza psicologica di tollerare momenti, pur brevi, in cui accade di star soli con se stessi e con una penna che è in grado di riempire il vuoto. Con un’ attività non passiva, non dipendente, bensì quanto mai generativa e capace, come altre, di placare l’ ansia che vivono sia il bambino e l’adulto che non sanno comprendere quanto la solitudine sia una risorsa.

 

Il biografo interno e lo stratagemma della scrittura

Le autobiografie dell’adozione (ancora una volta di chi compie il passaggio e di chi accoglie il “passatore”), nella loro gamma, possono dirci, ancora in un’attenzione filosofica, come si dispiegano i grandi temi esistenziali e topici che ritroviamo da millenni nelle storie individuali o collettive della transizione.

La letteratura mondiale ha isolato alcune figure dotate di epicità ed esemplarità mitica. E’ solo il caso di accennarle, poiché sono note. Ogni individuo le reinterpreta a modo suo con le sue storie di passaggio, ritrovando in esse il personaggio che non sa di essere: laddove si racconti di distacchi, di attese, di destino, di coincidenze, di spaesamenti, di esilio, di radici perdute, di incontro col mondo nuovo prima ostile. La sensibilità filosofica - e letteraria insieme, quando sia attenta anche alle culture psicoanalitiche di merito – senza troppa difficoltà riesce a stabilire un nesso tra questi motivi archetipici e le singole storie.

Oltre a questi aspetti, tutti evocatori di memorie vissute che si proiettano verso il futuro con i loro “pesi”, che ostacolano il nascere di “sanità” quali l’esercizio dell’oblio, la riconciliazione, il perdono, occorre sottolineare che, sintetizzando:

  • non si dà narrazione vera, senza memoria
  • non si dà memoria narrata senza attività consapevole, senza un ritorno, oltre che emotivo, riflessivo rispetto a quanto ritrovato.
  • non si dà attività di coscienza durevole senza una scrittura di se stessi che possa, in sede clinica o autoanalitica, accendere possibilità di riconciliazione con il dolore patito o subito, in una apertura a nuovi passaggi esistenziali.

Lo scrittore e studioso di autobiografie Philippe Forest, ha affermato che “non si possono risolvere molti enigmi della vita “ (così presenti nelle relazioni affidatarie) “ si possono soltanto raccontare le prove cui essi ci obbligano”.1

Ogni storia narrata oralmente può dirci molto di come un individuo la stia rivivendo attraverso il corpo, le pause, le emozioni, ma se essa riesce a trovare la via della scrittura e qualcuno che invogli a scriverla, tale mezzo potrà dirci molto di più sul piano di come il narratore l’ organizza, sceglie le parole, la commenta, ecc.

I vantaggi della scrittura

Ci occuperemo ora di approfondire quali possono essere i vantaggi della scrittura come momento dialogico tra i protagonisti dell’ incontro adottivo. Nel senso che, fatta salva tutta l’esplicita e palese importanza della dimensione conversazionale, delle attenzioni di ascolto, del dare sempre la parola, di sollecitarla, il ricorso a momenti il più possibile naturalistici (per intenderci non simil-scolastici), la scrittura di sé può dar luogo ad avvicinamenti anamnestici di grande importanza. Purché, questo va senz’ altro ribadito, si comprenda che di per sé il ruolo della scrittura è già un’ esperienza esistenziale rilevante. A patto che la nuova famiglia si attrezzi a farla percepire come tale ai nuovi venuti, come quotidiana e necessaria a capirsi di più, come tramite spesso indispensabile ad avviare la stessa verbalizzazione.

La cultura scritta genera forme di ospitalità aggiuntive: accogliere bene, significa comunicare che nel contesto familiare di approdo, le premure della cura non riguardano soltanto gli aspetti materiali della convivenza e dell’ educazione.2 Se i genitori adottivi sono frequentatori abituali della scrittura, in senso passivo – buoni lettori che raccontano piacevolmente quanto leggono – e attivo – sono cioè avvezzi ad avvalersi di taccuini, di diari, di messaggi scritti usati anche per dirimere a volte incomprensioni, per lasciare segnali di incoraggiamento o di affetto, costoro si dimostreranno doppiamente accoglienti e vicini ai nuovi figli.

La scrittura è un’ opportunità per inaugurare i nuovi legami, per rinsaldarli, per indurre la ricerca di quella solitudine “felice”, in quanto spazio personale per pensare e ripensarsi. Per ricordare e non espellere i ricordi, per vagliare quali tra essi possono essere salvati.

La scrittura come presenza costante (mai assillante), come risorsa sempre a disposizione di tutti, della quale avvalersi è una sorta di genitore adottivo supplementare: dal momento che in considerazione dei luoghi promiscui, a forte concentrazione comunitaria e collettiva, dove il privato non è coltivato, manca una consuetudine a immaginarsi da soli e non sofferenti. La scrittura introduce il senso di appartenersi di più come persone singole, autorizza alla separazione dal gruppo, ad elaborane il distacco e la distanza, a contenere la paura da perdita di dipendenza.

Rappresenta un antidoto alla sindrome della resilienza, di cui ora ci occuperemo, che al di là degli aspetti clinici ormai ampiamente studiati, si colloca in quanto esperienza resistenziale alle ferite della vita, pur sempre all’ interno di una categorizzazione filosofica e letteraria. Infatti lo scrivere di noi dà vita, come si è detto, ad una figura d’ appoggio interna, con la quale dialogare in condizioni di solitudine: l’ io debole cerca nel proprio tu un interlocutore, amato o odiato, ma comunque somigliante a se stessi. La desolazione devastante si vive quando questo alter ego taccia, non riesca ad essere partorito. Non tanto per dare risposte ragionevoli, consolatorie, incoraggianti al nostro vuoto emotivo capace di anestetizzare anche il dolore. Quanto piuttosto ad una sorta di biografo interno che ci racconta la nostra esistenza, che crea uno spazio transizionale non affidato a figure esterne sostitutive, ma ad una sorta di istinto di sopravvivenza capace di creare questo doppio facilitante.

Il biografo interno

Il biografo interno è la finzione necessaria che ritroviamo descritta in numerose figure della letteratura mondiale classica e moderna.

Non avendo nessuno al quale rivolgere la parola o da ascoltare, la psiche ha la esigenza primordiale, arcaica, di crearsi un compagno. La nostra specie è una specie sociale, non solitaria. Tuttavia la solitudine, quando iniziò a separare gli individui gli uni dagli altri per necessità di sopravvivenza, scoperta, ricerca del nuovo, produsse nella nostra mente l’ insorgere del bisogno di entità invisibili o visibili, sacre o profane, con le quali poter intrattenersi per sopportare l’angoscia dell’ abbandono, dello sconforto, della perdita di punti di riferimento, di certezze, di ospitalità. Eroi o antieroi celebri (Gilgamesch, Edipo, Giobbe, Odisseo…) furono i capostipiti di vicende di transizione e peregrinazione – di separazione dal sogno di immortalità, dalle radici genealogiche, da Dio, dalla terra patria – dei quali se altri narrarono le avventure, allo stesso tempo, costoro vengono descritti come personaggi maschili 3 dotati di grande vitalità introspettiva. Equivalente ad una capacità di sdoppiamento cognitivo ed emotivo, in grado di produrre un corpo immaginario non solo utile ad assecondare l’ esigenza di comunicare con qualcuno.

Ma dotato come di una prerogativa speculare, capace di riflettere le vicissitudini dell’ uomo reale e di mutarle in una rappresentazione letteraria ante litteram. La tesi è questa: ben prima dell’ invenzione della scrittura come genere narrativo funzionale alla enfatizzazione della propria soggettività, la mente del solitario, accettando questa condizione, poté produrre da sé il proprio conforto in attesa di narrarlo finalmente ad altri. La storia della narrazione umana ci spiega assai bene come tali eventi ebbero modo di generarsi.

Ma fu la scrittura personale ad accrescere, a corroborare, a consolidare questo stratagemma. Poiché generò due effetti: a) la possibilità di sopravvivenza psichica anche in assenza totale di interlocutori, durante o alla fine del viaggio solitario; b) la materializzazione del sosia in un oggetto separato: quale il rotolo di pergamena, il papiro, il manoscritto cartaceo: nelle forme del canto poetico, della cronaca, del memoriale, ecc.

La scrittura come supporto alle fenomenologie della resilienza, e prima ancora il dialogo interiore senza esternalizzazione vocale, costituiscono di conseguenza un antichissimo antidoto a chiunque si trovi a vivere una condizione di passaggio e di separazione.

Resilienza e scrittura: possibilità di riconciliazione

Il termine resilienza può essere compreso alla luce di due diverse interpretazioni: la prima fisica, la seconda più di ordine metaforico.

E’ innanzitutto, questo, un fenomeno studiato da gran tempo in fisica dei materiali (dal latino resilio, resilire) e sta ad indicare il ritorno indietro - il noto fenomeno del rimbalzo - di un corpo scagliato contro una superficie che lo respinge senza deformarsi. 4

Su un piano simbolico è però resiliente (se ne attribuiamo l’appartenenza ad ex-silio) anche ciò che riesce o sa superare, sopportandolo, il momento traumatico generato da uno stato di quiete ad uno stato dinamico, che potrebbe rivelarsi dannoso per l’oggetto (o per la persona, se si tratta di un essere umano: a livello corporeo e psichico) sradicato dalla posizione originaria. 5

Il trauma si sottrae in tal modo ad una sorta di teoria fatalistica della predestinazione (un bambino che ha subito violenza o che è stato in balia di eventi, non necessariamente sarà perciò un adulto abusante a sua volta o compromesso), purché ovviamente – per risorse interne e aiuti adeguati – i colpi ricevuti non siano del tutto devastanti.

L’esilio, nella gamma delle sue immagini, può anzi rivelarsi anche un’esperienza fertile rispetto alla capacità acquisita di reazione di chi non abbia mai subito alcuna ferita. Il quale sarà più debole ed esposto ai rischi.

Se ritorniamo ora a quanto detto a proposito di narrazione e scrittura, tali tesi ci confortano rispetto all’ importanza di facilitare con ogni mezzo il racconto da parte di chi venga da situazioni in cui l’ “istinto resiliente” abbia permesso loro di resistere. Nella consapevolezza clinica che l’assorbimento di un trauma, degli ematomi simbolici visibili, lascia comunque tracce, seppur all’apparenza non evidenti.

La rescissione di conseguenza dei vecchi legami affettivi precedenti il passaggio adottivo, chiede ai protagonisti che dovranno occuparsene di tessere nuovi legami protettivi fatti di parole. Nonché un’attenzione tutta speciale, affinché l’adottato sia messo in grado di ricucire il racconto della propria storia (deformata dall’ impatto con la superficie) con i frammenti di una nuova storia possibile e in fieri.

Storia che utilizzerà le storie dei genitori adottivi, in primo luogo, per ricomporsi e reintegrarsi. Ma ciò si può compiere non negando, rimuovendo, facendo finta che il passato non esista più e non sia mai esistito.

La storia va riscritta insieme alle figure di accoglienza al fine di favorire, potenziare, sostenere lo sviluppo dell’evento resiliente grazie al sostegno narrativo. Il quale ha lo scopo di attivare una riorganizzazione positiva della rappresentazione della propria storia “lesa”.

Ha detto a tal proposito Serge Tisserot che “ La capacità di resistere a situazioni traumatiche è la capacità di trasformare un trauma per farsene una possibilità di ripresa”. Il nodo cruciale 6 è il restauro di una nuova immagine di sé, dove lo scoprire di saperla narrare man mano che la nuova storia va emergendo e, ancor più il saperne scrivere, costituiscono il focus del trattamento terapeutico, se indispensabile, o educativo neogenitoriale.

La visione complessiva

In queste circostanze favorevoli, inoltre si accentuano le capacità oltre che di adattamento e di integrazione del nuovo, di riattivazione delle proprie risorse. Fra queste, c’è sempre qualcosa che appartiene alla storia che l’individuo ha vissuto e che continua a raccontare al proprio sosia interno. Un’ entità emotivo-cognitiva, che attende secondo le nostre ipotesi la possibilità di palesarsi, diventando racconto scritto o inizialmente una rappresentazione grafico-pittorica. In ogni caso, una manifestazione di esternalizzazione del vissuto.

Ancora Boris Cyrulnik ci rammenta che l’ adozione prima ancora che un trauma di passaggio è un incontro che permette un’evoluzione della resilienza, a patto che non si pretenda, o creda, di cancellare la sofferenza facendo di tutto affinché chi ha sofferto espella da sé i fattori perturbanti. Questi vanno riutilizzati offrendo occasioni che permettano all’offeso di avere una visione complessiva e non frammentaria della propria vicenda. Grazie, affermiamo nuovamente, anche alla nascita di quel biografo interno che si rivela indispensabile alla sanità psichica; che ci permette di andare e venire dall’io al tu senza la presenza di qualcun altro; che contribuisce a ispessire un io-pelle ancora sottile ed esposto a lacerazioni ulteriori, se non riesce a diventare lo “scrivano” al servizio del suo autore, se non riesce a mostrargli che è lui il personaggio importante della vicenda.

E’ evidente, a questo punto, che tale processo è raro possa adempiersi senza una sapiente attività di cura e di consulenza narratologica e autobiografica. 7 La narrazione e la scrittura, introdotte come in precedenza abbiamo caldeggiato, si rivelano tanto più fattori di protezione poiché prevedono che ci sia qualcuno accanto a presidiare e che narrazioni e scritture possano essere valorizzate in quanto esito del lavorio del biografo interno riconosciuto da un biografo (la figura d’ aiuto) reale ed esterna.

Se è cruciale che ci si possa aprire con qualcuno di cui si ha finalmente fiducia, garante di conferme e affetto, è pure indispensabile che, da soli, ci si avveda di possedere abilità capaci di produrre qualcosa leggibile, udibile, apprezzabile da altri.

In gioco, in un gioco umano, educativo e curativo quale è quello giocato dai diversi protagonisti dell’ esperienza adottiva, vi sono in conclusione (ecco un altro motivo filosofico ed esistenziale cui già si è accennato e per molti versi religioso), alcune attitudini indispensabili di riconciliazione, da mettere in azione e a tema.

Il facilitatore di narrazione

Si tratta di attitudini che in merito alle questioni trattate possono essere spontanee, elettive, addirittura talenti innati, ma, più spesso, devono essere stimolate, favorite e accompagnate. Tra queste, dobbiamo mettere l’ accento sull’ importanza di favorire una riconciliazione con le proprie verità, anche scomode e dolorose; con gli enigmi insolubili, con i fatti di cui non si riesca a sapere antefatti e esiti; con le origini misteriose diverse di una storia di vita. In tutto questo, diventa determinante il ruolo del facilitatore di narrazione (i genitori in primo luogo, che abitano la quotidianità dell’ adottato): con l’ avvertenza che l’ ausilio del racconto di sé e della scrittura vengano usate rispetto al presente affinché in nuovi vissuti diventino una storia migliore degna di essere narrata.

Non è necessario, con i non adulti, anzi può essere controproducente e ostacolare i processi positivi di resilienza, insistere con la esplicita, affannosa, ricerca degli indizi del passato. Il tempo trascorso deve emergere quando sarà giunto il momento giusto. E nessuno può saperlo in anticipo. La memoria è un animale silente, sceglie lei quando emergere dall’ oblio apparente o veridico. Un presente “accogliente e invogliante a vivere” è il miglior garante, tanto più se ricco di stimoli emotivi e cognitivi, di quella riconciliazione con se stessi che è condizione necessaria (tuttavia non sufficiente) ad affrontare una vita altra, pur sempre di figli e figlie.

 

Note:

1) - Ph. Forest, Per una poetica della testimonianza, in Paideutika, n.10, 2009, pag 35

2) - Cfr. D.Demetrio, L’ educazione non è finita. Idee per difenderla, Raffaello Cortina, Milano,2009

3) - D. Demetrio, L’ interiorità maschile. Le solitudini degli uomini. Raffaello Cortina, Milano, 2010

4) - Per i riferimenti alle fragilità e alla resilienza dei minori in condizioni di transizione, un libro di grande importanza sia filosofico esistenziale che clinica è senz’ altro di Boris Cyrulnik, Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare le esperienze traumatiche(2008), Tr.it. Raffaello Cortina, Milano, 2009. Ed anche di M. Chistolini e M. Raymondi, Figli adottivi crescono. Adolescenza ed età adulta: esperienze e proposte per operatori, genitori e figli, Milano, Franco Angeli, 2010

5) - Si veda l’ interessante ricerca di P. Milano, M. Ius, Sotto un cielo di stelle. Educazione, bambini e resilienza, Raffaello Cortina, Milano, 2010

6) - S. Tisserot, La résilience, Puf, Paris, 2007, p.. 34

7) - Per una teoria e una prassi della consulenza in questo ambito si veda D. Demetrio, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Raffaello Cortina, Milano, 2008

 

L'articolo è apparso per la rivista "Adozione e Dintorni" edtita da Genitori si diventa nel marzo 2012.

Data di pubblicazione: 
Venerdì, Luglio 19, 2019

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