Autore: 
Anna Guerrieri

Noi lo sappiamo da che terra vengono le madri delle nostre figlie e dei nostri figli. Noi lo sappiamo perché siamo donne come loro e sappiamo cosa sia la solitudine, perché la temiamo, la solitudine. Ci spaventa. Le madri dei nostri figli sono state donne, spesso giovani donne, a volte poco più che bambine, sole. Molto spesso non hanno avuto madri accanto, né sorelle né amiche che le difendessero dal mondo o da loro stesse, non una rete solidale in cui ritrovarsi.

Noi lo sappiamo, in cuor nostro, quale debba essere la solitudine che genera l'abbandono. Perché siamo madri come loro.

Da madri noi non possiamo che essere dalla parte dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, non possiamo che stare assieme a loro nel cammino che li porterà a darsi un senso, un significato, una chiave di lettura della propria storia. Da donne, però, non possiamo ignorare il pensiero delle loro madri che hanno vissuto il dolore, la confusione, lo sconforto, la paura. Si tratta di un pensiero che affrontiamo con particolare tenerezza quando guardiamo le nostre figlie e in loro scorgiamo la dolcezza di uno sguardo, la luce di un sorriso, la grazia di un movimento che ci rimandano a un altro sguardo, un altro sorriso, un'altra grazia.

Le nostre figlie ci vengono da un mondo dove, spesso, le donne non godono di rispetto. Un luogo dove le bambine sono sole, le ragazze sono senza difese e dove sono poche le speranze e la tenerezza. È per questo che dobbiamo alle nostre bambine e alle nostre ragazze una cura e un'attenzione speciali. Dobbiamo loro il dono della forza e del rispetto di sé, la consapevolezza della propria beltà interiore e del proprio valore. Un valore che non è fatto di cose materiali, di oggetti che si possono comprare bensì della consapevolezza del poter divenire adulte come si sceglierà di esserlo,  amate, apprezzate per come si è nella propria interezza. Camminando accanto alle nostre figlie e curandole, onorando la loro grazia e la loro sapienza doniamo loro la forza che permetterà loro di affrontare un mondo dove le loro stesse madri non hanno trovato una "casa".

E abbiamo il dovere di farlo partendo da qui, dal nostro presente.

Proprio qui, in Italia, troppo facilmente accettiamo l'idea, il pensiero che si possano usare i corpi delle bambine, delle ragazze, delle donne. Troppo spesso lasciamo che i media si riempiano di immagini femminili stereotipate e sessualizzate. Lasciamo che alle ragazze e alle giovani donne vengano proposti ruoli ben precisi e poi per tali ruoli le critichiamo impietosamente. Una donna che vende il suo corpo è marchiata senza ripensamenti, un uomo che ottiene favori e soldi per clientelismo o nepotismo viene condonato serenamente. Si abbassa la nostra soglia di indignazione e lasciamo che la donna diventi un oggetto, una cosa, un dettaglio corporeo. Facciamo fatica a reagire, a trovare modi per dire che "noi non siamo d'accordo". Eppure questa forza dobbiamo trovarla per rendere onore al valore di tante donne (anche le più deboli), per rendere omaggio a noi stesse come madri, compagne, persone impegnate quotidianamente nella vita sociale e politica del paese. Il rispetto che ci tributiamo e che tributiamo a ogni altra donna sarà il rispetto che le nostre figlie si tributeranno. Insegniamo loro che chi vede nelle donne e nelle ragazze oggetti e cose da usare è qualcuno abitato da una profonda miseria. Non degno di sguardo, pensiero o parole.

Tanti anni fa, avevo sedici anni, sono stata molestata dal preside della mia scuola. Ricordo il gelo mentre accadeva. Ricordo come oggi l'estremo disagio, il terrore, la fuga, l'impotenza. Ne parlai con i miei compagni di classe e assieme decidemmo che nessuna ragazza sarebbe mai andata più da sola davanti a quel miserabile. A ben pensarci non ci fidammo degli adulti (e questo è triste), ma è anche vero che trovammo come neutralizzare il male. E da quel momento lo sbeffeggiammo, lo ridicolizzammo. Passarono gli anni e misi in un angolo il mio ricordo. Non avevo parole per ricordare, per descrivere, per dire, per denunciare. Poi un giorno, in un altro paese mi trovai a un incontro dove venne dato un nome a quel che era successo, harassment (molestia), e scoprii anche che altre ragazze, donne, avevano avuto simili esperienze. Molte altre. E allora anche io raccontai.

Non ero più sola. Avevo parole. Trovai la voce.

Oggi, noi madri, dobbiamo trovare le parole. Ad alta voce possiamo dire che è ora di finirla. Che il corpo delle nostre figlie è un tesoro prezioso, di cui loro soltanto sono padrone. Lo dobbiamo a loro, ma anche alle donne che sono state le loro madri. Lo dobbiamo a noi stesse.

 

Data di pubblicazione: 
Mercoledì, Febbraio 23, 2011

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