Autore: 
Andrea Redaelli - psicologo, psicoterapeuta sistemico-familiare e formatore freelance

Bambini grandi

Io lo sapevo che mio figlio sarebbe stato grande, avrebbe avuto 10 anni. Noi avevamo detto di si quando l'Ente ce lo aveva chiesto. Ma ora è casa con noi e mi sembra tanto grande”.

La scelta di adottare un bambino grande, o meglio in età scolare, a volte può essere frutto di un percorso della coppia, di una proposta dell'Ente o di una scelta che nasce dal desiderio di non vedere allungarsi a dismisura il tempo dell'Attesa. E sottolineo allungarsi a dismisura, perché a parte alcune scelte che potremo definire forti, passare da un 'età di 6 ad una età 8, seppur nelle differenze tra i paesi, non rende l'iter adottivo più veloce. Diversamente potrebbe esserlo se passano da un'età di 4 anni ad una di 8 anni.

A parte questi dettagli tecnici, che sempre meglio che ognuno discuta apertamente con il proprio Ente, l'arrivo di un figlio grande comporta talvolta alcune difficoltà di adattamento/inserimento. Suscita preoccupazioni e ansie.

Come sempre la motivazione che ci ha spinto a fare questa scelta, seppur dentro le stesse fatiche, ci permette di affrontare queste difficoltà con maggiore consapevolezza e serenità. Questa è fondamentale per trovare la strada della soluzione più rapidamente. Siamo anche più propensi a consultare esperti (coppie od operatori dell'adozione) in quanto ci sentiamo meno messi in discussione come genitori e meno ci critichiamo per la scelta fatta. Siamo più consapevoli che le difficoltà ci sono e che solo sono quelle che stanno creando tanta fatica.

Tralasciando ovviamente il caso in cui questa scelta sia stata fatta senza una reale consapevolezza o sia frutto di altre problematiche, adottare un bambino già grande comporta indubbiamente alcune peculiarità.

Non che un bambino grande sia maggiormente segnato dalla ferita dell'abbandono (quella è sempre una ferita che solo soggettivamente può essere accolta e vissuta), ma perché nostro figlio ha già una sua storia.

Queste storie sono spesso cariche di bassa autostima, di sfiducia nell'adulto e talvolta anche di nuovi abbandoni a seguito di tentativi di affido e/o adozione falliti.

In questi casi il già difficile percorso verso un “attaccamento” sano e positivo non è stato solo interrotto, ma può essere stato ulteriormente messo in discussione da esperienze dolorose, o anche solo da una impossibilità da parte di questi bambini di darsi una spiegazione positiva, reale, di quanto a loro accaduto.

Comunque, in generale i “bambini grandi” si sentono in colpa, non trovano nell'adulto una persona di cui potersi fidare nuovamente o non lo riconoscono come una persona pronta ad accoglierli e ascoltarli individualmente, anche perché spesso chi vive a lungo in un istituto ha vissuto un'infanzia “collettivizzata”.

Tutte esperienze che nostro figlio ha bisogno di poter raccontare, di poter comprendere nuovamente, ma che spesso mettono in luce, primariamente, una difficoltà ad affezionarsi. Quasi una paura. A volte inscenata attraverso un percorso di “messa alla prova” della tenuta dei genitori attraverso un campionario di atteggiamenti, di eventi e comportamenti che potrebbero spaventare o angosciare chiunque.

Sono le grida di aiuto. Sono comportamenti che oggi potremmo definire devianti o problematici. Sono la manifestazione corporale di quanto verbalmente non può essere espresso.

La possibilità che i nostri figli dopo l'abbandono abbiano vissuto anche esperienze di attaccamento positive non è da escludere, ma la paura di essere nuovamente abbandonati, di lasciare che il proprio amore venga affidato a qualcuno di incapace e impreparato ad accoglierlo è veramente tanta. Per lui in questi casi è meglio mettere da subito in chiaro quanto potrebbe accadere. Forzando eventuali tappe. Quindi meglio fin da subito, piangere, gridare, picchiare, minacciare, cercare di scappare, lanciare, mordere, etc.

Meglio mettere sotto sforzo da subito i miei genitori per comprendere quale sia la loro resistenza e il loro limite. Per vedere se ne vale veramente la pena. Un po' come all'Ikea dove, per invogliarti a comprare un cassetto, dei braccetti automatici ti mostrano che può resistere a migliaia di aperture e chiusure. Per rassicurarti nella scelta.

Esattamente di questo ha bisogno nostro figlio: di essere rassicurato, di essere accolto, di potersi fidare.

Non ha bisogno che non gli sia detto di no o  che non gli si dica che sta sbagliando. Ma ha bisogno di sapere che non è cattivo, che non è stato abbandonato perché è cattivo. Ha bisogno di riuscire a nominare quel gran groviglio che sta dentro di lui, dove pensieri ed emozioni si mescolano rendendo entrambe inservibili. Come noi buttiamo il filo da pesca quando si ingarbuglia, lui preferisce buttarsi via piuttosto che stare li meticolosamente a districare la matassa.

Ha fretta. Ha fretta di sapere cosa accade. Ha fretta di poter tornare a sognare e a sognare senza che ogni suo sogno venga infranto dagli adulti.

Ha bisogno che qualcuno lo fermi. Lo rimproveri, ma non lo sgridi. Gli sappia indicare il confine tra il bene e il male. Qualcuno che sappia capirlo.

Ha bisogno di sapere che può sbagliare. E che non sarà per questo che qualcuno lo rifiuterà.

Scuola e socializzazione

“Ma mio figlio è già grande e deve andare a scuola, altrimenti rimane indietro”.

Anche questo è vero ma solo parzialmente. Andava a scuola nel suo paese ed è normale che vada a scuola anche qui che è a casa. Ma questo può essere rischioso se fatto con troppa fretta e poca cautela.

Andare a scuola richiede delle competenze che nostro figlio deve acquisire nuovamente. Richiede un senso di quotidianità e di continuità tra i momenti in cui è a casa e i tempi in cui è scuola. Una capacità di assumere un ruolo di alunno e di saper entrare in relazione con il gruppo dei pari e con l'istituzione scolastica. Al suo arrivo non è pronto ad affrontare tutto questo.

La socializzazione non è un bisogno primario, ma secondario. Quello che il bambino deve recuperare è il bisogno di protezione, di accudimento, di sicurezza. Solo il poter stare con i propri genitori, recuperando quel rapporto simbiotico che il neonato vive, lo accompagna verso la fase del distacco e riavvicinamento che tutti i bambini vivono nel corso del loro sviluppo.

Appare naturale che nostro figlio voglia stare in casa. Sia incuriosito dall'esterno, ma che spesso sia desideroso di tornare a casa e che solo lì, da solo con la sua famiglia, si senta sereno e protetto.

La fase dell'angoscia del distacco, a qualunque età arrivi nostro figlio, dovrà sempre riviverla e superarla. E di norma accade intorno all'ottavo mese. Per superarla dovrà sviluppare prima un forma di attaccamento sano che gli permetta di separarsi senza angoscia e con la sicurezza che potrà tornare a casa.

Anche se quando era in Istituto era autonomo, stava sempre in mezzo agli altri e non cercava nessuno. Quei tipi di comportamento sono spesso il sintomo di una socializzazione forzata. Un “modus operandi” dettato dalla sopravvivenza piuttosto che uno pattern comportamentale interiorizzato. Più una incapacità di differenziare le relazioni piuttosto che un sintomo di un bambino sicuro di sé, sereno. Una forma di adattamento ad un contesto che lo ha costretto a saltare alcune fasi naturali dello sviluppo.

Le sue autonomie tanto sbandierate e le sua capacità di saper gestire sé e i proprio spazi vengono a mancare in breve tempo. Da una parte c'è un disimparare abitudini forzate, dall'altra, di nuovo, un mettere alla prova. Ma soprattutto vive quella naturale regressione della sua fase evolutiva che gli permetterà di recuperare quanto nel suo percorso di crescita non ha potuto interiorizzare apprendere o manifestare in quanto nessuno poteva accoglierlo o in quanto la sua situazione non glielo permetteva. Per cui, magari se era molto bravo in matematica, oggi ha bisogno di riscoprire come si fa ad abbracciare ed essere abbracciati, giusto per semplificare con una immagine. E la matematica oggi potrebbe essere la sua odiata materia. Quella in cui ha maggiori difficoltà, perché ormai non rappresenta più l'unico strumento per essere apprezzato. L'unico mezzo per sentire un po' di affetto.

Quindi prima di rientrare nel circuito della normalità della scuola appare necessario recuperare una normalità dell'esistere, emotiva e psicologica, e una normalità dell'essere figlio.

Quale età?

Mi avevano detto che mio figlio aveva 9 anni. Nelle carte c'è scritto così. Invece appare più grande”

Talvolta le carte che accompagnano nostro figlio sono imprecise. O apparentemente non corrispondono alla realtà osservabile.

La cosa più normale che possiamo sicuramente vivere è il disorientamento. Talvolta accompagnato da un senso di sfiducia nei confronti del Paese d'Origine e talvolta anche dell'Ente Autorizzato.

Tutto questo è normale. Anche perché a quell'età la differenza di uno o due anni appare evidente. Abbiamo paura che possa avere difficoltà ad inserirsi nel gruppo dei pari. O che, se decisamente più grande, stia vivendo delle fasi dello sviluppo corporeo totalmente dissimili da quelle dei suoi apparenti coetanei.

L'adozione va sempre incontro ad un certo grado di incertezza legato al Paese. Non necessariamente la responsabilità è dell'ente Autorizzato o del Paese d'origine. Talvolta può anche essere solo legato a singoli funzionari.

Il fatto che l'età ufficiale non corrisponda alla sua età anagrafica non è sempre causa di un dolo perpetrato contro noi poveri ingenui novelli genitori. Alcune discrepanze possono essere legate all'incertezza dell'origine a seguito di un ritrovamento di nostro figlio senza alcun documento e una datazione sommaria iniziale, etc.

Questo sicuramente porrebbe ulteriori ombre nella conoscenza della sua storia. Molto probabilmente non conosceremo nulla dei suoi primi anni e forse le notizie recuperate avranno omissioni che riguardano diversi mesi o anni della sua vita. E che forse mai riusciremo a recuperare.

Ma chi in realtà avrebbe bisogno di recuperarle? Noi genitori o i nostri figli? Forse sarebbe più importante per i nostri figli. Forse non è un caso che da grandi ci chiedano “ma io com'ero quando ero piccolo? Com'ero quando sono arrivato?” Sono domande che gli rassicurano che gli permettono di recuperare una immagine di se che non ricordano. Gli aiuta a darsi una coerenza con l'immagine che loro hanno di loro stessi ora. Ma se alla domanda sul loro arrivo sapremo dare una risposta ci saranno quelle relative alla sua origine a cui potremo dare solo una risposta parziale, fatta delle carte che ci sono state date dall'Istituto o dalla famiglia affidataria: frammentarie informazioni.

Talvolta saranno loro stessi, in uno slancio inaspettato di fiducia e condivisone, a raccontarci qualcosa di loro. Questo, a volte, invece che riempirci il cuore ci potrà imbarazzare perché non sappiamo cosa dire, cosa rispondere, come accoglierlo.

La non conoscenza della propria storia, in chi ha vissuto l'esperienza dell'abbandono, diviene una ulteriore ferita che non permette la ricostruzione di una linearità del proprio percorso, dei propri perché, con una conseguente maggiore fragilità nella costruzione del proprio sé. Ed è proprio lì che noi dobbiamo accompagnare nostro figlio. Nel portare insieme a lui il peso del vuoto e il desiderio della conoscenza inappagabile.

Quando andrà a scuola certamente i suoi compagni appariranno più piccoli di lui. Questo potrà sottolineare una differenza tra lui e gli altri. Un'altra differenza che si aggiunge a quella della lingua, della cultura, dei giochi, dei metodi di apprendimento, della storia personale, del vissuto, della la sua situazione familiare, etc. Tutte cose che, indipendentemente dal fattore età dovrà comunque affrontare.

Anche questa, come le altre, potrà vivere a nostro figlio un senso di confusione e spaesamento che necessità una ulteriore cura e accoglienza.

Tutto parte da li, da quanto potrà sentirsi al sicuro con noi. Solo quello gli potrà permettere di affrontare le sue nuove esperienze, il suo essere differente. Il suo essere unico.

Certo che se il divario di età è tra gli 8 o i 10 anni sono tante le differenze da dover affrontare. Ma se la differenza è tra 11 e 13 queste sono maggiori. Soprattutto se nostro figlio è nostra figlia e mentre affronta i nuovi giochi con le bambole deve anche affrontare lo sviluppo fisico che la proietta già nel suo essere donna e nel nostro immaginario più autonomo nel suo essere figlia.

Ma questo è solo il nostro immaginario. Lo sviluppo fisico è sicuramente una fase di transizione un cambiamento ormonale che ci costringe ad affrontare argomenti difficili. Oltre ad esigenze, attenzioni e talvolta pulsioni differenti.

Per quanto possa essere complessa la situazione, per quanto non ci aspettassimo di vivere tutto questo, per quanto possa essere un elemento di ulteriore difficoltà per nostra figlia, e di conseguenza per noi, questo è soprattutto un ulteriore elemento di vulnerabilità che abbiamo il compito di proteggere.

Siamo noi che abbiamo la possibilità di vivere al suo fianco questa esperienza. In questi casi viene richiamata ancor più la nostra responsabilità nel rassicurare nostro figlio, nel riuscire a rendere a lui comprensibile ed accettabile quanto gli sta accadendo,

La storia dei nostri figli e il superamento delle loro difficoltà passa sempre attraverso la loro comprensione e il relativo vissuto dei genitori. Non da quanto queste possano essere difficili o inaspettate. L'essere genitori significa essere il punto di riferimento, essere il luogo dove sentirsi di nuovo sicuro, protetti e “spiegati”. 

Siamo la possibilità affinché lui possa ricostruirsi una sua cognizione e una sua narrazione di quanto accaduto. Un modo di rivedere la sua storia che possa avere una connotazione emotiva e psicologica positiva, resiliente.

Possiamo essere quell'abbraccio che possa sentire realizzato il suo desiderio, il suo bisogno e diritto di essere figlio. Che rimane uguale a 8 anni come a 10 o 13 anni.

Cambiamenti

 “Mio figlio cresce in fretta. Non è più quello che ho conosciuto quando è arrivato.”

Il bambino ideale, il bambino sognato, sarà sempre diverso da quello reale. E il bambino incontrato la prima volta sarà sempre diverso da quello che sarà a casa con noi dopo alcuni mesi e di quello che ho letto la prima volta sulla scheda. A qualsiasi età esso arrivi i suoi cambiamenti saranno repentini e inaspettati. Non faremo in tempo ad abituarci ad una trasformazione che già un'altra sta facendo il suo corso. Nel fisico, nel comportamento, nel carattere.

Sicuramente però l'arrivo di un bimbo già grande ci porta ad affrontare lo sviluppo e i cambianti fisici tipici dell'adolescenza e della preadolescenza non molto tempo dopo l'arrivo di nostro figlio.

La consapevolezza di tutto questo non ci può togliere lo sgomento. Questo è legittimo e per alcuni versi sano e doveroso. Sarebbe piuttosto innaturale che non rilevassimo questo passaggio importante. Sarebbe invece poco proficuo rimanere fermi a questo dato. Un immobilismo che ci porta ad essere soffocati in un processo di autoanalisi del nostro essere genitori e del suo essere figlio.

Il superamento e l'affrontare questa difficoltà parte, ancora una volta, da quell'esclusivo rapporto che si instaura tra genitori e figli e, come conseguenza, tra figli e genitori.

Solo la costruzione di quel legame speciale potrà permetterci di essere genitori e a lui di essere figlio. Di poterci riconoscersi attraverso il riconoscere l'altro. Di poter vivere insieme i cambiamenti.

A qualunque età arrivi, qualunque siano i cambiamenti a cui assisteremo, più o meno repentini, solo la capacità di ricostruire una storia comune a partire dalle nostre singole storie di coppia e di bambino, per quanto dolorose siano state, ci permette di riconoscerci genitori e a lui di riconoscersi figlio. Di riconoscersi appartenente alla storia della sua famiglia pur avendo avuto una storia solo sua precedentemente. Di riconoscersi in due culture. In due lingue. A volte in differenti tratti somatici. Sentirsi di “appartenere”, perché accolti, abbracciati, ascoltati. Compresi. Desiderati.

Data di pubblicazione: 
Venerdì, Giugno 23, 2017

Condividi questo articolo

Articoli sull'argomento

Antonella Avanzini
Anna Guerrieri
Andrea Redaelli, psicologo psicoterapeuta
Anna Guerrieri, Fabio Antonelli
Stefania Lorenzini, Ricercatrice e docente Pedagogia Interculturale Università degli Studi di Bologna