Autore: 
Anna Guerrieri

L’adozione di un figlio può essere come il vibrare di una farfalla, un momento di magico stupore. Arrivano quasi sempre all’improvviso, un nome, una foto e ci si ritrova genitori come dal mattino alla sera. Si ricordano dopo, i momenti convulsi dell’abbinamento e dell’incontro e si dimenticano la paura e l’ansia che accompagnavano la felicità. A distanza di anni, quando la famiglia è consolidata, i primi momenti, i primi mesi sono i momenti dell’amore che nasce, della prima vita assieme. Ma non sempre è così. Non sempre c’è questa polvere d’oro che ti sfiora l’anima.

Talvolta all’inizio sembra di non provare niente, o anche che tutto sia come fuori fase. Ci si sente lontani, assenti, non in sintonia.

Il figlio immaginato da lontano è ora un ragazzino reale e sconosciuto al tempo stesso, scontroso o forse aggressivo, spaventato, portatore di una storia magari che spaventa e che quasi non si vorrebbe condividere. Il contatto fatica a stabilirsi e nei mesi successivi ci si ritrova a rincorrere l’idea di un rapporto che non è come lo si era immaginato o sperato. Le barriere diventano tangibili e la comunicazione sembra non trovare una strada lungo cui fluire. Parole che non vengono, parole sbagliate, che non sivorrebbero sentire o non si dovrebbero dire.

Parole e assenza di parole.

A volte è come una cortina che blocca le emozioni, che impedisce il lasciarsi andare. Non ci si sente riconosciuti dai figli, o meglio non li si riconosce. La quotidianità tradisce gli sforzi che si mettono in atto ed ogni giorno spuntano nuove occasioni di scontro, a scuola, a casa, per i compiti, per alzarsi ad una certa ora, per vestirsi in un certo modo, per venire a tavola all’ora consueta. A volte le barriere si trasformano in fossati e voragini e inizia a venir su un dolore che è difficile fermare. Si sente di non farcela, che qualcosa è davvero andato storto, che le cose non saranno mai come avrebbero dovuto essere. E i bambini,i ragazzini e le ragazzine, non più scontatamente e teneramente figli, riversano all’esterno tutto il loro vuoto e la loro rabbia, come torrenti in piena trascinati da emozioni che non riescono a vivere senza esserne travolti.

Come se una porta si aprisse sul loro universo, quello di dentro, una porta che poi non si riesce a chiudere né accostare. Da essa soffia il vento sconvolgente del rifiuto, della ribellione, il vento di chi ti investe con tutto il suo essere, il suo non esserci stato per nessuno troppo a lungo. Un vento che a volte spazza via chi sta vicino.

Forse è per questo che tutto può diventare terribilmente difficile (a volte impossibile), un conflitto continuo di silenzi reciproci, urla, aggressività, disconoscimento. “Tu non sei parte di me” reciprocamente. “Tu sei altro da me” non genitore, non figlio, non figlia. Le azioni estreme, i gesti che provocano, l’odio e la rabbia reciproche, abitano le case.

E quando gli adulti si tirano indietro, quando non si tratta più di “genitori e figli” (seppur in crisi), quando solo l’estraneità, l’angoscia e magari la paura restano, allora, spesso non ci sono parole che possano restituire quello che è andato perso.

 

Data di pubblicazione: 
Lunedì, Maggio 15, 2006

Condividi questo articolo