Autore: 
Anna Guerrieri

 In questa intervista si parla di adozione, di Etiopia, di ricordi, di segreti e soprattutto di cose non dette, non sapute, non indagate. Non è semplice avere informazioni sulle storie dei bambini che vanno in adozione, talvolta anche chi fa gli abbinamenti ne ha pochissime. Questo però è uno dei nodi cruciali a garanzia della trasparenza di tutto il sistema adottivo internazionale. E' garanzia per i bambini soprattutto, perché la loro storia venga riconosciuta, avvalorata ed accolta. Accettare di non sapere, accettare di ignorare o non guardare è un danno ulteriore a chi ha già subito tanto. Tutti ci dovremmo interrogare quando la confusione regna, quando il non sapere diventa prassi. Non è una questione di "fiducia" o "sfiducia", è una trasparenza che dobbiamo ai bambini.

 

Perché in Etiopia? 

Io e mio marito abbiamo sempre pensato che nell'adozione non si scegliesse. Quando abbiamo adottato nostra figlia non abbiamo scelto noi dove andare. La seconda volta abbiamo deciso di fare la stessa cosa. Ci siamo rivolti allo stesso ente con cui avevamo incontrato la nostra bambina, ente con cui si era sviluppato un rapporto di solida fiducia, e ci siamo nuovamente affidati a loro. È stato l'ente a proporci di andare verso una direzione per loro nuova: l'Etiopia.

 

Cosa vi è stato detto dell'Etiopia?

 Abbiamo fatto un incontro di un'ora sul paese. Ci è stato detto che al momento dell'abbinamento avremmo ricevuto il nome e cognome del bambino, l'età e poco più. È stato specificato che le informazioni sanitarie sarebbero state pressoché nulle. Per quel che ci riguardava non eravamo preoccupati dal vuoto di informazioni che ci veniva prospettato ma fummo molto chiari nel sottolineare che l'unica persona da tutelare era la nostra prima figlia che all'epoca aveva 7 anni. Non volevamo che fosse esposta a situazioni troppo più enormi di lei. Il decreto del Tribunale per i minorenni parlava di due anni di differenza da rispettare nella primogenitura. Tenendo conto che avremmo adottato dopo due anni circa, questo lasciava margine per l'adozione di un secondo figlio che avesse compiuto 7 anni anche lui.

 

Cosa altro vi venne detto nel tempo del paese in cui stavate per adottare?

 A parte quel primo scarno incontro non ci venne detto più nulla. Neanche come venivano fatti gli abbinamenti. Io credo di essere stata un po' stupida. Non ho chiesto nulla, la fiducia che provavo verso le persone del nostro ente era molto forte. Non sapevo neanche che gli abbinamenti, a differenza di quel che succede in Sud America, venivano fatti in Italia.

 

Cosa intendi?

 Quello che io ho constatato - sono cose che ho visto io, non dico siano assolute - è che gli istituti propongono i bambini direttamente agli enti tramite i propri referenti. Questo non viola affatto il loro iter con il Tribunale locale e il Ministero perché queste entità si occupano di attestare la veridicità sullo stato di abbandono del bambino, non si occupano di collegare un dossier di un minore ad un dossier di una coppia. In Etiopia non esiste l'anagrafe, per cui è proprio nella fase dell'attestazione dello stato di abbandono che viene costruita l'identità del bambino: nome, età, dati sui genitori, ecc.

 

Chi stabilisce queste cose, questi dati anagrafici?

 Chi abbandona o chi ha recuperato il bambino, quindi per esempio i direttori degli istituti. Bada bene, questo accade nella regione di provenienza dei minori, prima che vengano dichiarati adottabili a meno che non si tratti di bimbi minuscoli lasciati per strada.

 

Come fanno ad essere i direttori degli istituti?

Adesso ti spiego. Gli istituti hanno delle persone che vanno nelle regioni a cercare bambini in stato di grave indigenza. Mio figlio è stato cercato. Questo lui ci ha raccontato.

 

Perdonami, questa è una cosa che va capita con calma. Torniamo agli abbinamenti. Spiega meglio cosa è successo a voi.

 Il responsabile italiano delle adozioni in Etiopia del nostro ente ci disse subito prima dell'abbinamento: "Sappiamo che arriveranno delle schede. Potrebbe esserci il caso di un bambino adatto a voi". Quel giorno ho dedotto con chiarezza - le parole erano inequivocabili- che loro ricevevano i dossier dei bambini e loro decidevano quale bambino assegnare a quale coppia. Non credo si tratti di una cosa riguardante solo il nostro ente. Da come ho capito io, parlando con tante coppie, avviene così, sia per gli enti italiani che per quelli stranieri.

 

Raccontami dell'abbinamento.

 

Ero in ufficio ed arriva una telefonata. Lo ricordo come oggi. La gioia, l'emozione, era un bambino di 6 anni. Non mi dicono il nome e non mi danno alcuna informazione. Mi dicono solo: "Pensateci su 3 giorni prima di dare l'ok". Ricordo che non capivo più nulla. Ricordo solo che mi preoccupai di avere certezze sull'età, mia figlia a quel punto aveva 8 anni e c'era il discorso della primogenitura, del decreto insomma. Io avevo iniziato a leggere sui forum di famiglie adottive (per esempio Mammeonline) che l'età in Etiopia era assolutamente incerta, con divari di circa due anni per cui chiesi subito cosa si sapeva dell'età. Mi risposero di aver parlato col referente etiope, se non si trattava di 6 anni erano al più 6 e mezzo.

Io debbo chiarire una cosa: noi non abbiamo mai temuto l'età dei figli. Nella nostra prima adozione avevamo trent'anni circa e demmo disponibilità sino ai 10 anni. Ora eravamo solo preoccupati di avere un po' di sicurezze esclusivamente per nostra figlia.

 

E poi?

 

Noi col nostro ente avevamo un rapporto di grande fiducia. Chiedemmo di parlare con la psicologa che ci rassicurò molto. Era un abbinamento adatto alla nostra famiglia. Un fratello, di età non troppo vicina e non troppo lontana. Demmo l'ok. Solo dopo avemmo il colloquio in cui ci venne fatta vedere la scheda di nostro figlio. Questa è un'altra differenza: prima accetti e firmi poi vedi la scheda e la foto di tuo figlio. In realtà, schede non ce ne erano proprio. Si trattava di un foglio faxato con nome, cognome, data di nascita, città e certificazione di assenza HIV. Non c'era nulla. La foto era faxata.

 

Cos'hai provato davanti alla foto?

 

Nulla. Lo ammetto. Sai avevo aspettato tanto lui, molto più di quanto avessi aspettato nostra figlia. Lui lo avevo atteso un'anno e mezzo. Eppure davanti alla sua foto non sentii reazioni. Era bello, molto bello, ma mi fermai lì. Mio marito invece era emozionato. Le emozioni a me sono tornate dopo. Sono emerse nei lunghissimi dieci mesi di attesa per andarlo a prendere.

 

Perché tanta attesa?

 

Per la documentazione, perché ci furono documenti da rifare e perché finimmo in mezzo ad un cambio di procedure. Iniziavano ad emergere irregolarità nelle adozioni e l'Etiopia cambiò delle prassi, delle leggi. Ora le persone che abbandonano debbono testimoniare direttamente davanti al giudice e questo rallenta tutto perché spesso i bambini vengono da zone remote.

 

L'attesa?

 

Pesantissima. Sapevo che mio figlio era in istituto. Guardavo la sua foto. Vedevo... che l'età non poteva essere quella che ci era stata detta. Entravo in ansia. Mi arrabbiavo con me stessa per l'ansia che provavo. Sapevo anche (me l'avevano detto) che l'istituto dove stava era ‘brutto' e io me lo immaginavo là, solo. Ho passato tantissime sere da sola con la sua foto in mano, pensandolo. In quelle sere ho scoperto la voglia di andarlo a prendere sul serio, a tutti i costi. Ho vissuto male quei dieci  mesi. Dall'ente non mi arrivava nulla, nessuna chiamata, nessun conforto. Io telefonavo. Dopo due, tre mesi ho iniziato a chiamare. Ma non riuscivo a sapere nulla, nulla, nulla. Chiedevo spiegazioni per telefono ed anche per mail. Come al solito avevo saputo via Forum che in Etiopia erano cambiate le leggi. A quel punto telefonai chiedendo chiarezza al proposito e mi risposero. Fu solo allora che scoprii che il nostro abbinamento era a Rischio Giuridico. Che poteva essere revocato. Per fortuna non avevamo ancora detto nulla a nostra figlia. Dovemmo firmare un foglio che diceva che eravamo informati che la nostra adozione diventava a rischio giuridico.

Mi pesò tanto questa non trasparenza. Perché mi lasciarono scoprire tutto questo da un forum?

 

E poi?

 

Passarono altri tre mesi di silenzio. Io però avevo rotto gli argini. Chiamavo ogni due settimane. Trovavo un muro di gomma. Finalmente arrivò la sentenza e tutto iniziò ad andare veloce. Dicemmo a nostra figlia che aveva un fratellino. La partenza era programmata in autunno.

 

Prima di partire vi vennero date altre informazioni?

 

No. Io e mio marito ci siamo informati da soli. Abbiamo letto quel che potevamo. Abbiamo chiesto ad altre coppie. Una settimana prima della partenza ci è stato fatto un colloquio di gruppo sul paese. Ci è stata detta la situazione del posto e degli istituti. Poi sono stati dedicati quindici minuti di colloquio individuale sulla storia dei bambini. Lì ho saputo che nostro figlio era orfano.

 

Che impatto hai avuto con Addis Abeba?

 

Sconvolgente. Sai noi siamo gente che ha viaggiato molto. Zaino in spalla per intenderci. Siamo stati anche in Africa. Ma Addis è altro. Addis è anche disperazione. Atterrammo di sera, era buio, non c'era luce elettrica. Era triste. Una sensazione di alienazione. La mattina dopo ci ritrovammo in quest'albergo a cinque stelle avvolto da catapecchie di latta. Ricordo con precisione, c'era un morto dall'altro lato della strada. La sensazione era che non ci fosse un punto salvo. Trovavi l'Hilton e 100 metri più giù la bidonville più povera del mondo. Vedevi bambini che vanno a scuola e passano accanto ad un bambino seduto per terra, lo sguardo fisso, senza un perché. Vedevi bambini che muoiono davvero. Muoiono per le malattie, non per la fame. Le malattie. Ho un'immagine: una madre presa a bastonate e gettata fuori da un negozio, lei coi suoi figli laceri. Ricordo le piaghe aperte, le ferite. La gente con la lebbra. I cartelli pubblicitari sulla lebbra. Ricordo una crudezza che mi ha fatto male. Un'altra immagine: Un ragazzo sfigurato dal fuoco. Senza pelle. Senza orecchie. Senza naso. Uno shock. Chiedeva la carità. E tu non puoi fare nulla.

 

Vostra figlia?

 

L'impatto per lei era pesante. Non piangeva ma era nervosa. Stringeva a sé suo fratello. Siamo stati ad Addis per 20 giorni, ma usavamo i taxi, non stavamo tanto a piedi per strada. Sai, noi eravamo soli, non c'erano altre coppie. Quelli che vedevamo erano anche gli effetti della guerra durata tanti anni. C'erano tanti soldati in giro. Una cosa però devo dire: non ho mai avuto la sensazione di un pericolo fisico per noi. Ho solo percepito tanta disperazione.

 

E l'istituto?

 

Immagina un posto piccolissimo e tantissimi bambini ammassati. Niente scuola, niente verde. Un posto chiuso. Un piazzale di cemento, un portico, bambini seduti a terra. Qualche stanzetta e 2 o 3 bambini in ogni letto.

 

L'incontro?

 

L'emozione che posso descrivere è quella dello spiazzamento. In quell'istante ero congelata, mi guardavo dall'esterno, sai. Lì, guardandolo ho capito la verità. Aveva 10 anni, almeno. L'età di nostra figlia sicuramente, forse, forse più. Ricordo il cancello, il muro, il filo spinato, l'assalto dei bambini. Io non lo vedevo ancora. Mi chiedevo se l'avrei riconosciuto. Lui non c'era, era nascosto sotto ad un letto. Arrivò la direttrice e lo mandò a cercare. Lui viene spinto fuori davanti a tutti. Arriva, impalato, nervosissimo. Ecco, allora, mia figlia corre da lui, lo abbraccia e gli dice: "Sei mio fratello". Lì è arrivato il nostro pianto. Lui invece era rigido. Non era stato preparato.

 

Racconta ancora.

 

Siamo andati in una stanzetta con i bambini che ci guardavano da fuori. Mia figlia ha tirato fuori delle bolle di sapone e ha iniziato a soffiarle dentro e fuori dalla stanza. Le bolle uscivano dalla finestra e tutti giocavano. È come se si fosse spezzato del ghiaccio. Dopo mezz'ora ci hanno mandato via con nostro figlio. Mezz'ora soltanto.

 

In albergo?

 

Si vedeva che gli veniva da piangere, ma si tratteneva. Era serio, si controllava. Si vedeva chiaramente quanto era grande, tutti i suoi 10 anni. La cosa non mi spaventava più. Era un dato di fatto. Era molto ‘uomo' nel muoversi, nel trattenersi. Era mio figlio. In albergo restammo soli, la referente se ne andò.

 

Quando ha iniziato tuo figlio a parlarvi?

 

Passarono quattro giorni di silenzio. Lui era triste. Si sentiva che stava montando una crisi. È iniziato all'improvviso, un pianto triste, sotto ad un tavolo, la testa tra le mani. Era disperazione pura. Mia figlia non c'era. Mi sono inginocchiata accanto a lui. L'ho stretto, ma lui era rigido. Solo. Siamo stati un'ora così. La situazione era cristallizzata. All'improvviso entrò mia figlia. Ci guardò e scoppiò a piangere fuggendo dalla camera. Io le sono andata dietro. Sono rimasti mio figlio e mio marito soli. Per fortuna, perché lui poteva parlare solo con un altro uomo. È stato un bene.

 

Cosa è successo?

 

Sono rientrata con nostra figlia due ore dopo. Lui dormiva. Mio marito mi prende da parte e mi racconta. Lui si era avvicinato e aveva cercato di parlare con nostro figlio grazie ad un vocabolarietto amarico-inglese. Nostro figlio sapeva leggere e scrivere l'amarico. Indicava le parole e mio marito leggeva l'inglese. Così si erano parlati.

 

"Io non ho sette anni. Io ho dieci anni. Voi?" Intendeva se lo accettavamo lo stesso. Mio marito disse "Ok". "Io ho nonno, nonna, due fratelli, zii, cugini..."

 

Lì ha cominciato a raccontare. Ha tirato fuori un piccolo taccuino di pelle nera. Piccolissimo, col bottoncino per chiudere. Lì c'erano numeri di telefono e parole. Lui disse a mio marito quali erano i numeri dei famigliari e quali no.

 

"Io telefono".

 

Ecco cosa disse quel giorno.

 

Diceste tutto alla referente, immagino.

 

Si, ovviamente. Disse che non si trattava di parenti. Erano numeri delle persone dell'istituto. Parenti non ce n'erano. Decidemmo di non dire più nulla. Noi eravamo con nostro figlio. Avremmo detto in Italia.

 

Lui ha continuato a raccontare?

 

Si, ed io ho filmato quello che raccontava. Capivamo che era molto importante. Ha detto i nomi di cinque generazioni della sua famiglia. Ce li ha detti tutti. Lui ha raccontato... Ha detto il nome del signore che ha portato nella ‘macchina grande' tanti bambini dal villaggio all'istituto. Erano sette bambini.

Si, lui ha raccontato. Poteva farlo grazie al vocabolarietto che leggeva e che usavamo come mezzo per comunicare. Lui leggeva e scriveva in amarico. Era andato a scuola.

 

Andava a scuola nel suo villaggio?

 

Aveva fatto due anni di scuola. Ce lo disse lui, ma era chiaro, e tornava anche con la sua età reale. Pensa che già in Etiopia guardava i compiti della sorella e capiva tante cose, sapeva di che si trattava. Aveva già allora velocità a far di conto.

 

"Tu vai". Così gli hanno detto in famiglia. "Tu vai. Quando hai 18 anni torni e aiuti la famiglia. In America (per loro chi viene per i bambini viene dall'America) le famiglie non hanno bambini e prendono anche quelli degli altri. Tu vai, studi e torni." Vai e torna. L'hanno detto a tutti i bambini. È una frase che altre famiglie hanno sentito raccontare dai loro bambini, bambini arrivati come mio figlio.

 

"A 18 anni torno?"

 

Eravamo ancora ad Addis Abeba. Così mi ha detto. "Mamma, lì poveri, nulla da mangiare, hanno detto: Meglio che tu vai."

 

Gli mancavano un poco i verbi, allora.

 

Cosa pensa tuo figlio, di questo "tornare"? Ora intendo?

 

Lui ha deciso, ora, di restare. Restare.

Ci ho impiegato mesi, sai, a sentire mio per davvero il mio bambino. Lo sentivo in prestito. Ho dovuto faticare per capire se mio figlio davvero voleva... voleva restare. Ho vissuto la sensazione che mio figlio avesse subito un'ingiustizia. Ora che è passato del tempo, tanti mesi e che mio figlio è riuscito a tirare fuori altri ricordi, tanti ricordi, ho capito che ha davvero subito una grande ingiustizia, che gli adulti attorno a lui hanno davvero preso decisioni sopra la sua testa, che lui è stato parte di una realtà complessa, una parte cui non era concessa la ‘voce'. Si tratta di un'ingiustizia più grande e più complessa di quella che iniziammo a capire ad Addis Abeba in quei primi giorni. Quella era solo una parte della verità, perché lui era comunque tenuto a tenere per sé le realtà della sua famiglia di origine. Col tempo questi ‘segreti' si sono sciolti e noi possiamo solo rassicurarlo che noi saremo con lui per sempre. Per sempre. Qualunque sarà la sua strada e il suo divenire.

 

Potete raccontarci, almeno in parte, cosa avete capito da vostro figlio?

 

Già in Etiopia è venuto fuori che gli istituti mandano persone nelle zone rurali a vedere i bambini. Lui, mio figlio, viveva in un villaggio fatto di tukul. La prima macchina che ha visto è stata quella di chi l'ha portato in istituto. La cosa andò così. Arrivò un famigliare che viveva ad Addis Abeba ed informò la famiglia che c'era questa possibilità: mandar via il bambino. La situazione della sua famiglia non era disperata ma precaria lo era. Ci fu una riunione di famiglia. Mio figlio li sentiva discutere. Il capofamiglia era incerto ma alla fine ha deciso. Mio figlio era fuori a giocare. Aveva sentito ma non capiva bene. Poi il capofamiglia uscì e gli parlò. All'inizio lui parlava di "nonno". Gli disse delle famiglie americane. Mio figlio racconta che era notte e c'era la luna. Gli disse: "Vai e torna. Non ci dimenticare".

Mio figlio ricevette il suo primo paio di scarpe e andò col parente. Fu dopo che andò con la persona dell'istituto e con il parente che gli vennero fatti i documenti, quelli anagrafici, quelli dello stato d'abbandono. Passò due giorni a casa del parente per i documenti. A quel punto sulla carta mio figlio era orfano, viveva con nonni e zii. Dopo venne portato in istituto, assieme agli altri bambini. Il viaggio durò un giorno e mezzo.

 

 "Non so dove sto andando. Non penso niente". Ecco cosa mi ha detto del viaggio.

 

L'istituto era una specie di carcere. Mancava l'erba. Lui che era un pastore stava seduto sul cemento. Tutt'ora io passo con lui tanto tempo in giardino. Ecco lui che ama stare all'aperto, toccare la terra e le piante, ecco... per 10 mesi non è uscito. Riceveva telefonate dei famigliari.

 

Perché ai bambini non veniva mai permesso di andare fuori?

 

C'erano sessanta bambini e tanti adulti. Mio figlio mi ha detto che gli adulti controllavano che nessuno scappasse. Per questo non si usciva. Un suo amico che era di Addis Abeba scappò. Lui sapeva dove tornare. Lo hanno ripreso e portato dentro. Mio figlio non è scappato. "Mamma, non sapevo più la strada".

I bambini piccoli in due o tre giorni venivano adottati, partivano per il Nord America. "Mamma, io sono rimasto quindici mesi". Lui ci disse che ai bambini veniva detto di non dire l'età reale. Questa confusione/segreto sull'età era stato suggerito a mio figlio dall'inizio.

 

Ne avete parlato con l'ente in Italia, di tutto questo?

 

Si. Mi hanno detto che i bambini ingigantiscono i ricordi.

 

 

 

 

 

 

Data di pubblicazione: 
Mercoledì, Dicembre 10, 2008

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