Autore: 
Dott. Marco Liotta

Il sentimento dell’attesa

“L'attesa del piacere è essa stessa piacere”

(Gotthold Ephraim Lessing)

“C'è spesso più angoscia nell'aspettare un piacere che nel subire una pena”

(Sidonie Gabrielle Colette)

Credo che la maggior parte delle persone non avrà difficoltà a riconoscere come veritiere queste due affermazioni, ancorché apparentemente antitetiche. Questo perché quello dell’attesa è sentimento denso e complesso, difficilmente riducibile a un’interpretazione univoca. Nella sua polisemia gli opposti possono coesistere arricchendola di molteplici sfumature.

L’attesa è come un vaso che può essere riempito con emozioni diverse che a volte si escludono, a volte convivono e a volte si alternano, mutandone radicalmente il significato. Ecco che l’attesa può essere amore struggente, rabbia feroce o attanagliante angoscia, solo per citare qualche emblematico, ma non certo esaustivo, esempio.

Ma l’attesa si intreccia, soprattutto, con il desiderio poiché entrambi nascono da qualcosa che, nel momento in cui si attende e/o si desidera, non c’è. Questo si evidenzia già alla radice del loro significato: desiderio viene da “de sidus, essere “lontano dalle stelle”. Si determina, cioè, da una mancanza e dalla conseguente tensione che porta ad una ricerca volta a colmarla. Proprio a questa tensione si lega il concetto di attesa, dal latino “ad tendere”, tendere/volgersi verso qualcosa.

Per potere porre fine alla tensione bisogna che trascorra un lasso di tempo: ecco che l’attesa non può ridursi al semplice atto di attendere, ma contiene anche il tempo che trascorre in questo modo e, soprattutto, i sentimenti provati in questa attesa. Contiene cioè il nostro rivolgerci emotivamente a quel tempo, un tempo su cui non abbiamo un vero e completo controllo anche quando è definito. Spesso, anzi, l’attesa non ha un inizio e una conclusione determinata, ma rientra in dei limiti vaghi che possono accentuare o talvolta, diminuire, il contorno emotivo ad essa legato. Ecco che l’attesa può dilatarsi al punto che questo tempo indefinito rischia di essere, o di essere percepito, come “infinito”. Lo vediamo nel capolavoro di Buzzati, Il Deserto dei Tartari, in cui la vita dei soldati si consuma nell’attesa di un nemico e di una gloria che non arriveranno mai.

Attesa e desiderio nella genitorialità adottiva

“Se si costruisse la casa della felicità, la stanza più grande sarebbe la sala d'attesa”

(Jules Renard)

L’anno scorso ho avuto la possibilità di condurre un gruppo formato da coppie “in attesa” di adozione. È evidente come in questo caso desiderio e attesa siano più che mai intrecciati e interdipendenti. È stato subito chiaro che il tempo dell’attesa (e del desiderio) sarebbe stato probabilmente lungo e, soprattutto, indefinito. Ciò è dovuto ad un grande numero di variabili legate alle diverse procedure, e di conseguenza ai diversi tempi, dei vari paesi e, nel caso dell’Italia, persino dei diversi tribunali. Nei primi incontri gli aspetti pratici dell’adozione venivano trattati spesso e la presenza nel gruppo di volontari del’associazione, a loro volta genitori adottivi, è risultata preziosa nel fornire le opportune indicazioni.

Il soffermarsi su elementi concreti (tecnici, legislativi, burocratici etc.) era un modo di gestire l’attesa, di sentire di stare facendo tutto il possibile, almeno da questo punto di vista. Col proseguire degli incontri questo livello è diminuito, ma non è mai scomparso completamente: c’èra sempre un momento in cui il gruppo tornava a chiedere informazioni o rassicurazioni su un ente, un tribunale, una procedura etc.

Per i futuri genitori è importante potersi approcciare al mondo dell’adozione a partire dalle sue componenti concrete che a ben vedere costituiscono il punto di contatto tra il desiderio della coppia e la realtà esterna. Tali componenti in qualche modo tracciano dei “confini”, sia pure indefiniti, per la futura attesa. Per quanto tentare di dare un contenimento concreto sia importante, è la qualità emotiva dell’attesa che ne costituisce il nucleo e che ne è, quindi, la componente determinante. Dato che un’attesa inevitabilmente c’è, la questione non riguarda solo la sua durata, ma la sua natura. L’attesa delle coppie adottive nasce da un desiderio e, come detto, ogni desiderio nasce da una mancanza. In questo caso riguarda la capacità generativa, una mancanza che costituisce una ferita profonda e che porta con sé un’intensa sofferenza interiore che la coppia deve affrontare prima di potere approdare alla scelta dell’adozione. Se tale scelta viene fatta significa che il desiderio di genitorialità è prevalso, un desiderio che porta con sé la trasformazione della coppia in famiglia e, ad un livello inconscio, la volontà di trascendere sé stessi in un figlio, che pur essendo altro da sé è contemporaneamente parte di sé.

La potenza di questo desiderio può apparire di per sé sufficiente, ma è essenziale che la coppia abbia superato gli interrogativi legati alla mancanza prima di potervisi abbandonare, poiché altrimenti essa ricomparirà ad ogni difficoltà, interna o esterna, già durante la fase di attesa. Nel nostro gruppo diverse coppie hanno visto il proprio desiderio messo alla prova da numerose problematiche che mentre allungavano o, peggio, cristallizzavano il tempo dell’attesa, ne alteravano la qualità riempendola di rabbia, frustrazione, delusione, sconforto e senso di impotenza.

Gli elementi concreti, i “confini dell’attesa”, cessano qui di avere il loro effetto rassicurante poiché si rilevano illusori: non c’è nulla che si possa fare nella realtà se non contattare i propri riferimenti istituzionali che però si mostrano vaghi e inconcludenti, incapaci di fornire risposte. Ne consegue un senso di profondo smarrimento che mette in discussione anche il proprio desiderio. Di fronte all’indefinitezza dell’attesa il senso di mancanza aumenta e il timore di non sapere “quando” e “se” si potrà soddisfare il proprio desiderio può diventare insopportabile al punto di pensare di rinunciare. Pur di non restare sospesi nell’ignoto, impotenti, può essere preferibile prendere una decisione in qualche modo “attiva”: mettere da parte il proprio desiderio e andare avanti nella propria vita.

In questi momenti la coppia si sente sola, inascoltata, in balia di eventi su cui non ha alcun controllo. Il gruppo può fornire allora il contenimento emotivo di cui ha bisogno: vi è adesso uno spazio in cui i sentimenti possono essere espressi, sostare ed essere elaborati. Trovarsi insieme a persone che vivono, o hanno vissuto, la stessa situazione, le stesse difficoltà, le stesse paure innesca un rispecchiamento empatico, un mutuo riconoscimento che non solo diminuisce il senso di solitudine, ma rinforza il desiderio. Anche in questo caso il ruolo dei genitori adottivi può essere determinante: ascoltare il racconto delle numerose difficoltà di chi, comunque, alla fine ce l’ha fatta e adesso è felicemente genitore adottivo rinnova la speranza e la determinazione.

In un incontro in cui, per varie problematiche, era emersa con forza l’estrema incertezza che riguardava quasi tutte le possibilità di adozione del gruppo, tanto che aleggiava in maniera sempre più esplicito il timore che il giorno tanto atteso non sarebbe mai arrivato, una delle volontarie ha affermato semplicemente: “L’unica cosa sicura è che diventerete tutti genitori”. (In realtà oggi come oggi questo non è sempre vero. N.d.R.)

In questo modo ha cancellato il senso di impotenza: nonostante tutte le difficoltà che la realtà ci possa mettere contro, diventare genitori dipende comunque dalle capacità e dalle scelte della coppia.

Il ruolo del gruppo nella gestione dell’attesa

“Attendere non significa affatto che, nel frattempo, noi differiamo il pensare. Attesa significa qui: tendere gli occhi aperti cercando (…) Con un tale attendere, noi siamo già pensanti, in moto sul cammino verso ciò che è da pensare”

(Martin Heidegger)

Se l’elemento essenziale dell’attesa riguarda ciò di cui essa è costituita è facile capire come nei momenti in cui prevale l’incertezza, l’ignoto, il vuoto, essa divenga insostenibile. In questi momenti il gruppo può svolgere un ruolo fondamentale per dare ad essa una forma e un contenuto, permettendone l’elaborazione. Ci sono dei momenti in cui il gruppo, come detto, aiuta a mantenere e rinverdire il potente desiderio della genitorialità. Ma il gruppo aiuta anche a comprendere che esso dovrà infine incontrarsi con un altro desiderio e che la riuscita di questo incontro non può essere data per scontata.

Al desiderio della coppia di adottare corrisponde quello del bambino (o dei bambini) di avere dei genitori: apparentemente una perfetta complementarietà. Ecco che il desiderio può estrinsecarsi in fantasie di bambini bisognosi di amore che, venendo perfettamente corrisposti, generano un idillio familiare. Spesso l’attesa si riempie di fantasie che, se costituiscono una spinta nei momenti di difficoltà, rischiano di generare un’aspettativa illusoria. Si “sopporta” di attendere purché infine si venga ricompensati e mentre quest’attesa diviene sempre più fremente e spasmodica in effetti ci si allontana dall’incontro con il bambino reale. Credo che uno dei più importanti obiettivi del gruppo sia proprio quello di permettere di utilizzare l’attesa per prepararsi alla genitorialità, per interrogarsi sul futuro essere madre e padre di un bambino che, certamente, avrà esigenze particolari.

Si è visto come uno dei più grandi problemi dell’adozione sia l’impossibilità di avere certezze sui tempi, ma spesso quando il momento tanto atteso giunge i genitori non sono realmente pronti. Se è vero che le coppie non hanno controllo sui tempi dell’attesa, è vero pure che possono averlo su come impiegare questo tempo, ed è essenziale che lo impieghino per prepararsi ad affrontare le numerose sfide della genitorialità adottiva.

Tutte le coppie hanno bisogno di tempo per prepararsi ai cambiamenti che un figlio porterà nella loro vita e il tempo della gestazione è necessario non solo allo sviluppo del feto ma anche dei futuri genitori. Allo stesso modo tutte le coppie si troveranno a doversi confrontare con un bambino che è, inevitabilmente, diverso da quello immaginato. Le coppie adottive, però, devono confrontarsi con una genitorialità diversa poiché porta con sé la mancanza originaria della generatività e perché si realizza nell’incontro con un bambino che è, sempre, traumatizzato, se non altro perché è stato abbandonato dai propri genitori biologici. Senza questa consapevolezza l’adozione rischia di fallire. Bisogna sapere che il bambino metterà alla prova i nuovi genitori per capire se si può fidare di loro e che il loro compito sarà di resistere a queste prove, di fargli capire che, comunque, non lo abbandoneranno. Bisogna sapere che bambini che appaiono adulti e indipendenti sono in effetti estremamente fragili e bisognosi e che una loro regressione è allora un segno positivo, poiché significa che cercano di riprendersi la loro infanzia negata. Bisogna sapere che celeranno sempre una ferita che da soli non potranno chiudere del tutto e, rispettando i loro tempi e la loro volontà, fargli sapere che se vogliono condividerla i suoi genitori sono lì per lui. Bisogna sapere che anche una coppia solida e collaudata potrà andare in crisi ma anche che solo rimanendo uniti, sostenendosi a vicenda e colmando le rispettive mancanze si potranno superare gli inevitabili momenti di difficoltà.

Più degli altri, i genitori adottivi devono essere genitori “consapevoli”, più degli altri devono lavorare su sé stessi e sul loro funzionamento come coppia, più degli altri devono interrogarsi sulle proprie capacità genitoriali, più degli altri devono essere pronti a rispondere alle esigenze del bambino che accoglieranno. Di tutto questo “più” di cui gradualmente si rendono conto, il mondo esterno sembra non curarsi: non solo le istituzioni, ma anche gli amici e i familiari da cui ci si attenderebbe supporto e comprensione. Non perché se ne disinteressino volontariamente, ma semplicemente perché non li riguarda direttamente e non riescono a coglierne le molteplici sfumature, non solo concrete ma anche affettive. “È come se chi non fosse dentro a questo mondo non potesse comprendere” dice uno dei membri del gruppo. Che aggiunge che, se all’inizio cercavano di coinvolgere attivamente i familiari in tutti i passaggi dell’adozione, in seguito, non riscontrando l’entusiasmo sperato, hanno via via limitato le comunicazioni fino al punto di non condividerle più.

In effetti quello dell’adozione sembra essere un mondo a sé stante, con le sue regole e le sue problematiche conosciute solo da chi vi si addentra. Un mondo che, a volte, può apparire ingiusto: “mi sembra che per noi debba essere difficile ciò che per gli altri è naturale”. Al livello della coppia c’è qui il lutto della generatività, ampliato dalla mancanza di un contenitore sociale adeguato che invece esiste per le famiglie biologiche. Ma c’è anche la consapevolezza di dovere affrontare sfide che non sono richieste agli altri genitori. Proprio perché è un mondo “altro” c’è bisogno di nuovi riferimenti, e il gruppo senza dubbio può costituirne uno per tutto il percorso dell’adozione, e in particolare nel momento dell’attesa. Questo perché la genitorialità adottiva in qualche modo inizia prima dell’arrivo del bambino. E allo stesso modo bisogna sapere che quel bambino, pur abbandonato, in qualche modo è stato “figlio” già prima dell’arrivo nella famiglia adottiva.

La coppia dei genitori adottivi accoglie un bambino che è però nato fuori da essa: questo fa della genitorialità adottiva una genitorialità inevitabilmente “altra” rispetto a quella biologica. Il gruppo aiuta ad essere coscienti di questa diversità, ma anche ad essere pronti a trovare il proprio modo di essere genitori. Mentre il mondo esterno appare sordo, nel gruppo si crea lo spazio in cui queste dinamiche possono essere affrontate e superate.

L’attesa e l’emergenza

“Il sole della peste stingeva tutti i colori e fugava ogni gioia”

(Albert Camus)

A Febbraio di quest’anno abbiamo conosciuto il covid-19 e ciò ha impattato profondamente sulle vite di ognuno di noi. Ha impattato, necessariamente, anche sul gruppo. In effetti possiamo dire che ci siano stati due gruppi, uno prima del covid e uno durante il covid. Tutte le dinamiche che ho evidenziato fino a questo momento sono state esasperate dalla situazione legata alla pandemia. In primis il tracciamento di quelli che ho chiamato i “confini” dell’attesa. Se prima si conosceva una strada che, pur avendo numerose incognite, conteneva quantomeno delle procedure note e definite, durante l’epidemia, specie in una prima fase, tutte le regole sembravano essere saltate. Molte pratiche di adozione, specie per l’estero, erano temporaneamente sospese e per alcune si paventava un possibile blocco. Nell’adozione nazionale si registrava una interruzione temporanea dei servizi che per lungo non hanno saputo fornire risposte, ma che in alcuni casi hanno presentato improvvise possibilità adottive, forse perché alcuni istituti non erano adeguatamente attrezzati per gestire il lockdown.

In questi ultimi casi le coppie si sono dovute improvvisamente confrontare con la possibilità di adottare in una situazione molto problematica, senza la possibilità di accedere a spazi esterni o di ricevere supporti dalla famiglia allargata. Gradualmente alcune situazione si sono risolte, mentre altre si sono addirittura complicate lasciando un profondo sconforto nelle coppie. “Ci sentiamo come in una nave che è salpata dal porto e si ritrova in un mare in tempesta, impossibilitata ad andare avanti ma anche a tornare indietro” Quest’immagine, presentata da un genitore il cui percorso adottivo era rimasto bloccato dopo una prima, intensa, conoscenza del bambino, rende particolarmente il senso di smarrimento che i genitori adottivi hanno affrontato, e purtroppo in alcuni casi continuano ad affrontare, in seguito agli eventi della pandemia che, specie nei rapporti con alcuni Stati, hanno complicato le pratiche di adozione fino a paralizzare processi già avviati. Si è creato uno sconvolgimento che ha sovvertito le regole precedenti ma che ancora non ne ha indicato di nuove, così che si è “in attesa” di un nuovo assetto, di nuovi “confini”.

Come in tutti gli ambiti c’è stato ed è ancora in corso un mutamento che non potrà dirsi completo finché non usciremo definitivamente da questa situazione e, anche in questo caso, la nostra attesa appare indefinita. Siamo in attesa di una cura definitiva, di un vaccino efficace, di una normalità che tarda ad arrivare e che è soggetta a continue oscillazione sulla base di fluttuazioni che non siamo in grado di prevedere adeguatamente. La pandemia ha portato con sé una sensazione di diffusa precarietà e ha messo in discussione le nostre certezze e le nostre priorità. Ci ha trovato impreparati, spaventati, disorientati portati a vivere, o sopravvivere, nella quotidianità più che nella progettualità.

Le coppie in attesa hanno vissuto ancora più intensamente questa confusione e questa assenza di riferimenti. La sensazione di un mondo esterno sordo alle proprie richieste si è inesorabilmente intensificata nel momento in cui anche le istituzioni preposte rimanevano silenti. Il lockdown, con il suo improvviso confinamento nelle abitazioni, ha accentuato l’idea di essere da soli nella propria battaglia, impotenti e inascoltati. Anche il gruppo, nel momento in cui gli incontri di persona sono stati interdetti, si è dovuto fermare per un periodo per riorganizzarsi e trovare una nuova modalità di lavoro. La tecnologia ci ha fornito gli strumenti per riprendere ad incontrarci, in un modo diverso e in un mondo diverso. Non ci si vede più nella stanza del gruppo, ma si entra, sia pure virtualmente, l’uno nelle case dell’altro. Una modalità inusuale, altra, anche per me che in effetti nutrivo delle perplessità sulla possibilità di condurre un gruppo per via telematica. Eppure nel momento del primo nuovo incontro si percepiva, insieme ad una forte eccitazione, il bisogno di condividere insieme questo nuovo mondo e ciò che ha portato con sé. Di certo il senso di isolamento è diminuito e si è potuto ricreare uno spazio, sia pure virtuale, in cui condividere tutta l’emotività compressa dall’effetto paralizzante della pandemia.

L’ “emergenza” ha rischiato di occupare tutto lo spazio psichico e affettivo impedendo la possibilità di approcciare adeguatamente la propria realtà e di elaborarne i relativi vissuti. La paura e il disorientamento generati dall’emergenza globale ha prodotto una perdita di senso che ha avuto l’effetto di inibire l’accesso alle proprie “emergenze” intese come possibilità di emergere e, quindi, di essere affrontate e valutate. Ecco che il gruppo, pur con i limiti legati alla modalità telematica, ha aiutato a sbloccare un processo che si era interrotto riattivando il lavoro, psichico ed affettivo, dell’attesa. Ecco che gli incontri, pur con i limiti legati alla modalità telematica, sono stati vivaci, intensi, ricchi di scambi emotivi. Ricchi anche, in un mondo esterno apparentemente immobile, di novità e possibilità che meritavano considerazioni e riflessioni.

In conclusione ritengo importante che le coppie “in attesa” di adottare non si pongano in una posizione passiva, in cui l’attesa coincide con il trascorrere dei tempi burocratici e legislativi che scandiscono le tappe dell’adozione, ma al contrario utilizzino attivamente tale “attesa”, lavorando sui desideri, le aspettative, i timori, i pensieri innescati dalla prossima genitorialità. Il “lavoro” dell’attesa è un lavoro su sé stessi come singoli ma anche, e soprattutto, come coppia, che deve essere solida e unita in questa importante scelta. È anche un lavoro di consapevolezza interiore e di conoscenza di un mondo, quello dell’adozione, che come detto è spesso misconosciuto.

È infine un lavoro di cambiamento, di sé stessi, della coppia e dei propri desideri che si dovranno adattare alla realtà concreta e a quella psichica ed emotiva del bambino che arriverà. Sono convinto che il gruppo possa fornire un aiuto essenziale per questo lavoro, un aiuto che diviene ancora più prezioso nell’emergenza, proprio perché essa, come il sole della peste di Camut, rischia di appiattire la vita psichica e affettiva di ciascuno di noi.

 

Bibliografia

Buzzati Dino (1940), Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano, 1945.

Camus Albert (1947) La Peste, Bompiani, Milano 2017.

Colette Sidonie-Gabrielle (1945), Belles saisons; Flammarion, 1955.

Heidegerr Martin (1954), “Che cosa significa pensare”. In Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976.

Jules Renard (1899) Per non scrivere un romanzo, Diario 1887-1910 Serra e Riva Editori, Milano, 1980.

Lessing Gotthold Ephraim (1763), Minna von Barnhelm ovvero la fortuna del soldato. Commedia in cinque atti, Marsilio, Padova, 2004. .

Data di pubblicazione: 
Giovedì, Dicembre 3, 2020

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