Autore: 
Emanuela Tomè

La scuola è una straordinaria occasione per imparare a stare con gli altri: ci si trova a vivere per anni, giorno dopo giorno, con dei pari che hanno in comune con noi solo l’età, ma che per il resto provengono dalle famiglie più diverse, sono portatori di stili di vita, di pensiero, di comportamento più vari. I compagni di scuola non si scelgono: ti capitano, e tu pian piano impari a conoscerli, familiarizzi, ti accorgi che con alcuni il rapporto è più facile, con altri più difficile. Scopri che esistono tanti modi di stare al mondo, che esistono gusti diversi, modi di giocare diversi, diversi modi di reagire alle situazioni. Alcuni ti sono immediatamente simpatici, altri li scopri magari dopo anni; con alcuni litighi spesso, altri rimangono sempre un po’ distanti, quasi indifferenti. Ma con ciascuno sei costretto, più o meno intensamente, a misurarti. Il rapporto con ciascuno di loro ti insegna qualcosa su te stesso. E quasi sempre, a scuola, finisci con lo scoprire la bellezza dell’amicizia, scopri dei legami affettivi con persone che non sono quelle della tua famiglia.

A scuola, là dove comincia il viaggio nel mondo

Ed inizia così il tuo viaggio nel mondo, nel mondo grande, quello che sta oltre le pareti conosciute di casa tua. E’ uno straordinario laboratorio sociale, la scuola, in cui si viene a contatto con la vasta gamma dei sentimenti umani; si incontrano la complicità, la generosità, la solidarietà, il desiderio di amicizia; ma anche l’invidia, l’aggressività, il rifiuto...
Tutto questo avviene in situazione tutelata e protetta, in cui c’è un adulto che fa da regista, da mediatore, da facilitatore. C’è un adulto competente che agevola la buona riuscita dei rapporti, che insegna ad affrontare e superare i conflitti, che impedisce i fallimenti, i giochi a somma zero, che garantisce a ciascuno uno spazio vitale.

Quando nasce un disagio

Sempre più spesso però avvertiamo, sia come genitori che come insegnanti, che un malessere serpeggia a scuola, proprio nell’ambito delle relazioni all’interno del gruppo classe. Un malessere che viene percepito solo da alcuni, ma che in realtà riguarda tutti i soggetti del gruppo. E’ un fenomeno così ben connotato che è stato coniato un termine per nominarlo: bullismo.

Non è semplice da identificare, né per i genitori né per gli insegnanti, perché non è riconducibile semplicemente a comportamenti aggressivi, che spesso fanno parte del normale modo di porsi dei bambini più piccoli.

Cosa è il bullismo?

E’ una dinamica di sopraffazione o di esclusione, sistematica, ai danni di qualcuno, che può esprimersi in varie forme, a volte anche molto sottili, che sfuggono allo sguardo degli adulti.
Succede che un ‘leader’, quasi sempre spalleggiato da alcuni fedelissimi, decide di misurare la propria potenza ai danni di un compagno percepito come più debole.
La ‘debolezza’ può derivare dal fatto di essere arrivato da poco nella classe, o dal fatto di essere più insicuro, di avere un fisico più gracile, oppure di avere delle caratteristiche fisiche o sociali ritenute disprezzabili. La vittima viene presa di mira e perseguitata con prese in giro, svalutazioni plateali, aggressioni fisiche e verbali, esclusione dai giochi e dai momenti di complicità.
Il successo facile del bulletto, lo porta a guadagnare credito agli occhi dei fedelissimi e a perpetuare il gioco perverso. La vittima si trova spesso sola, perché coloro che ‘stanno a guardare’ temono, prendendo posizione, di subire le ritorsioni dei bulli.

La sofferenza della vittima

E il bambino che è vittima di una dinamica di sopraffazione/esclusione spesso ha difficoltà a cercare aiuto: si sente in colpa, ha vergogna di sé, perde fiducia nel proprio valore, teme di deludere i genitori rivelando ciò che gli accade. Inoltre spesso viene esplicitamente minacciato di non rivelare ciò che accade agli adulti; e finisce col sentirsi sempre più inerme, più solo, più sconfitto; e vive sempre più nella paura. Tutte le parti in causa vivono una relazione malata, ma evidentemente la sofferenza della vittima è di gran lunga maggiore. I nostri figli, specie quelli giunti in famiglia per adozione internazionale, possono essere a rischio di divenire vittime di bullismo, perché assommano molte di quelle che vengono ritenute ‘debolezze’: hanno tratti somatici diversi, spesso hanno poca sicurezza di sè, e si trovano a volte nella situazione di essere gli ultimi arrivati in una classe che ha già una storia.

La testimonianza

Io sono mamma di una bambina che ha fatto 4 anni di scuola elementare, che da sempre è una delle vittime designate di un gruppo di compagni, e nonostante le diverse strategie tentate, posso dire con amarezza di non essere riuscita a risolvere il problema. All’inizio c’era il mio dubbio che lei ingigantisse, che fosse ipersensibile, che la sua insicurezza le impedisse di dare una lettura corretta ai comportamenti altrui. Però di fronte all’evidenza delle aggressioni fisiche e degli insulti a sfondo razzista sono intervenuta presso le insegnanti.
Sono cessati i comportamenti più macroscopici, ma sono arrivati i dispetti sistematici, le provocazioni sfibranti; su cosette da poco, magari, come prenderle la matita e gettarla nel cestino; ma ripetuto ogni giorno, più volte al giorno, per più di un mese. Al culmine dell’esasperazione di mia figlia, parlo ancora con le insegnanti, e avverto in alcune di loro la convinzione che mia figlia sia un po’ troppo ‘suscettibile’.
Ho tentato il faccia a faccia col bulletto: risultato, lui è andato a casa a lamentarsi dalla mamma che lo avevo ingiustamente sgridato e la madre mi ha diffidato dal permettermi di sgridare ancora suo figlio. Continuavano anche le prese in giro a sfondo razzista, perciò ho tentato di coinvolgere gli altri genitori della classe, ma nessuno ha ritenuto che questo fosse un problema.

Come sono intervenute le insegnanti?

Le insegnanti, pur consapevoli del clima negativo esistente nella classe, non sono riuscite a dare una svolta, a modificare nella sostanza la dinamica malata che si è instaurata: hanno sempre punito in modo esemplare i bulli, ma credo che non abbiano saputo utilizzare strategie diverse, oltre a quella sanzionatoria.
E poi, quando i genitori degli aggressori proteggono i loro figli, quando i genitori di ‘chi sta a guardare’ non avvertono il problema come qualcosa che li riguarda, anche il lavoro dell’insegnante più difficilmente risulta efficace. Cambiare classe era forse la soluzione da mettere in atto subito: ma questo lo dico ora, col senno di poi. Perché abbiamo sempre sperato nel modificarsi delle cose, nella maturazione dei bambini, ci siamo fidati delle insegnanti, con cui abbiamo sempre avuto un dialogo sull’argomento.

Genitori: in ascolto e in supporto

Quello che abbiamo ottenuto come piccolo successo, frutto del nostro esserle vicini, del nostro indurla a parlare e raccontare, è stato il rinforzarsi di nostra figlia, ora molto più capace di non cadere nelle provocazioni, sempre più in grado di prendere le distanze psicologiche dagli aggressori:

Non sei tu che rifiuti me, sono io che rifiuto te perché sei un prepotente.

Insomma, il lavoro lo abbiamo dovuto fare da soli, noi e lei; per sostenerla, per insegnarle a difendersi senza utilizzare le stesse strategie violente, per farle capire che non è lei quella sbagliata, per accettare il fatto che non si deve piacere a tutti, per insegnarle a distinguere e a riconoscere i comportamenti di sopraffazione dai normali dispettucci tra bambini, per renderla capace di distinguere la situazione in cui si può lasciar correre da quella che invece si deve rifiutare, per insegnarle a non farsi intimorire dalle minacce e a denunciare all’insegnante quando le cose si fanno insostenibili; per farle prendere consapevolezza del fatto che la prepotenza non è una vera forza, ma la viltà di chi nasconde la propria debolezza nel branco.
E che nel branco non c’è amicizia vera. E’ stato un percorso molto sofferto, in cui noi genitori abbiamo vissuto il senso d’impotenza di non poterla proteggere come avremmo voluto; ma lei sapeva di averci al suo fianco, e da questo ha senz’altro tratto la forza per sottrarsi, almeno psicologicamente, al ruolo di vittima.
Non credo esista ‘la’ soluzione per uscire da queste situazioni, spesso molto difficili da risolvere; ho raccontato solamente la mia esperienza.

 

Data di pubblicazione: 
Giovedì, Giugno 15, 2006

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