Autore: 
Silvia Piaggi

Del dottore, del buio, del cane seppur minuscolo, degli ambienti nuovi...: l’ombra delle paure di mio figlio, quattro anni compiuti da qualche mese, sembra allungarsi di giorno in giorno.
E io che di paure me ne intendo, avendone collezionate nella vita tante (una di queste è il panico che a volte mi sorprende in volo, terrore che spero di debellare definitivamente quando andrò a prendere il mio secondo figlio da una parte per il momento ancora sconosciuta del mondo…) cerco di non drammatizzare.

E mi ostino a trascinarlo, nell’improbabile speranza di sbloccarlo, da una festa di compleanno all’altra dei suoi compagnetti di scuola, paga anche del fatto che risulta uno dei bambini più invitati della classe, ma anche tormentata da un dubbio insidioso: è forse a la page avere tra gli amici un bimbo adottato?

Una volta nella mischia, tra bambini urlanti che scorrazzano in luoghi improbabili, la frase più ricorrente che affiora alle mie labbra è la classica quanto inutile: “Non aver paura!”, rivolta a lui o forse più a quella parte di me che teme di avere un figlio eccessivamente fifone.

Fare i conti con le proprie paure è un esercizio a cui i genitori adottivi devono applicarsi forse più degli altri, fin da subito. Preparate e volonterose psicologhe e assistenti sociali non ti risparmiano –ahimé - pensieri ed esperienze su cui riflettere per guardare in faccia la realtà dell’adozione, soprattutto quella più... paurosa. Rischio giuridico, rischio sanitario, adozioni problematiche di bambini grandicelli o di più fratelli, fallimenti adottivi, crisi dell’adolescenza: i fantasmi che popolano i sonni delle coppie aspiranti scoraggiano i sogni di incontri fiabeschi con un figlio bisognoso solo del nostro amore. E il rodaggio per la coppia imberbe, che crede che per avere un bambino basti desiderarlo intensamente e che i buoni sentimenti possano aggiustare tutto, si scontra con un mondo all’apparenza ostile, che mostra il suo lato più dolente, un mondo che a volte ha la faccia di un giudice burbero, persino duro, ma sincero, che ti sa guardare dritto negli occhi: E affrontate le paure, inizia l’avventura più bella.
 

Paure degli adulti e paure dei bambini
 

Alla scuola materna di mio figlio le maestre hanno proposto un lavoro lungo e articolato sulle emozioni.Diligenti hanno poi trascritto e diffuso nel quaderno consegnato a tutte le famiglie a fine anno le gioie e le paure più diffuse tra i bambini, così come loro stessi le hanno raccontate. In questo modo tutti abbiamo potuto leggere – di fianco alla classica paura del lupo- quella… dei marocchini (!!!), denunciata da una bimbetta particolarmente “spontanea”.

Con la paura (sempre di paure sto parlando in fondo…) di essere giudicata la solita madre rompiscatole, ma con il terrore ben più forte e motivato che la cosa passasse inosservata nella distrazione (leggi indifferenza) generale, ho chiesto alle educatrici spiegazioni, nella debole speranza che quella paura dello straniero fosse stato un efficace spunto per un lavoro educativo di apertura interculturale.

La doccia fredda non ha tardato ad arrivare: “Ma nella classe non ci sono bambini marocchini! Quella frase non poteva ferire nessuno. Lei signora è troppo sensibile…”. Il colpo al momento mi ha stordito, ma mi sono subito rialzata: evviva la “mia sensibilità” se mi aiuta a rimanere sveglia e attenta in una società in cui - parlo del mio quartiere di Milano, ma verificate anche voi nei vostri paesi e città – ci sono classi nelle quali 6 studenti su 10 provengono dai più variegati e colorati paesi del mondo.

Per fortuna l’adozione ci ha regalato occhiali più potenti per guardarci intorno e leggere in profondità. La mia lotta personale (ma assicuro metodi non violenti) contro le paure più meschine e contro l’ignoranza sarà ancora più determinata. Nel frattempo, una lezione magistrale di come si superano le paure, quelle piccole, ma anche quelle grandi mi è stata impartita recentemente proprio dal più timoroso della famiglia: mio figlio.

E’ ormai quasi mezzanotte e mamma e papà non sono ancora rientrati da una di quelle rare uscite serali che si concedono insieme. Lui si è addormentato tranquillo con la sua baby-sitter, ma all’improvviso, si sveglia: ha mal d’orecchi e vuole subito la mamma. E lei non c’è. “Perché non è ancora qui?”.

La tragedia sembra consumarsi: il bambino piange, si sente solo e triste (diciamolo pure: abbandonato! ), poi all’improvviso si asciuga le lacrime con le manine e chiede deciso – testuali parole - di essere consolato. “Cosa vuoi?” domanda la buona tata, pronta a dispensare qualsiasi cosa pur di non vedergli quel panico negli occhi. Il piccolo si alza da solo dal letto e si dirige sicuro verso la libreria e sceglie la sua storia preferita, proprio quella che la mamma ha trovato in promozione comprando un quotidiano, ma che poi, un po’ pentita, ha avuto la meschina tentazione di riporre nel cassetto più nascosto della casa. 

Si tratta - udite udite – di Pollicino, la fiaba più paurosa che io conosca. Nelle pagine magnificamente illustrate, Pollicino è piccolissimo e all’apparenza veramente indifeso e i suoi genitori sono poverissimi (la povertà è l’unica causa dell’abbandono solo nelle favole!), ma anche cinici e recidivi tanto da lasciarlo per ben due volte insieme ai suoi fratellini piangenti, in un bosco nero nero, popolato da un orco così orchesco da far tremar le vene e i polsi perfino ai lettori più coraggiosi. Stoltamente ho temuto che una storia tanto cruda potesse turbare e sconvolgere il mio cucciolo, che risvegliasse in lui le sensazioni dell’abbandono vissuto sulla sua pelle e non solo nella fiaba. La smentita è arrivata puntuale: le paure si superano, senza spintoni, con i propri tempi. Per scioglierle è necessario chiamarle per nome, raccontarle per condividerle con qualcuno, al limite esorcizzarle.

Ma affrontarle è l’unica via d’uscita: parola di mio figlio

Data di pubblicazione: 
Lunedì, Gennaio 21, 2008

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