Autore: 
Antonella Avanzini

Molte volte mi sono chiesta come e quanto fosse stato efficace il mio ruolo di genitore. Un ruolo dai connotati particolari, essendo diventata madre, e con mio marito e i miei figli famiglia, per adozione.

Quando leggo o ascolto esperienze o saggi che mi dicono quanto la famiglia adottiva, nel suo insieme, possa svolgere un ruolo – positivo, curante, accogliente, altro? - per figli che arrivano in famiglia non partendo da un punto zero ma da un punto X sulla linea del tempo della loro vita, mi chiedo se la nostra famiglia, questo ruolo “rigenerante” lo ha svolto e lo saprà svolgere in futuro per i miei figli.

Pensieri vaghi. Che non facilmente si riescono a confrontare e coordinare con la realtà del quotidiano e del vissuto.

Che i figli che arrivano per adozione, arrivino con un vissuto traumatico, è un assunto difficilmente negabile. Traumi enormi o meno enormi; ma per tutti rimane, come minimo, la difficoltà di trasformarsi, il segno forte di una cesura, di una separazione tra un prima e un dopo che per essere ben collegato e “agganciato”, non sempre trova una bella cerniera che con un “tric” attacca i lembi con facilità e perfetta coesione.

 

Molto mi hanno fatto riflettere, su questo, le parole ascoltate oggi in uno dei tanti incontri virtuali, che in “periodo covid” affollano il web e le piattaforme dedicate alla condivisione online. Il titolo: “La famiglia nella crisi adottiva: fallimenti o transiti evolutivi”, 26 febbraio 2021, incontro di presentazione del numero 2/2020 della rivista “MinoriGiustizia”.

Le chiare parole di chi è intervenuto, hanno messo in me pensieri importanti, che voglio condividere, da semplice genitore; pensieri che ritengo debbano essere fondamenta solidissime a cui appoggiarsi per crescere i figli e crescere noi stessi insieme a loro. Soprattutto quando le cose non sono, come si dice, rose e fiori.

Punto primo: i bambini hanno avuto esperienza di eventi traumatici.

Il trauma vissuto è un dato definito, vero e unico nella sua realtà di vita. Accaduto prima dell'ingresso nella famiglia adottiva. Un fatto, come dire, oggettivo. Ma: come i bambini convivono e gestiscono il loro trauma e come esso viene da loro elaborato, è un processo che appartiene a tutto il tempo trascorso successivamente e a tutte le persone con le quali i bambini e poi ragazzi, hanno interagito da quel momento in poi. Massimamente, ovviamente, con i propri famigliari. Quindi ciò che “agita” i nostri figli, non è il fatto traumatico in sé, ma come il fatto è stato rielaborato dal bambino e poi ragazzo insieme alle persone che avevano il compito di ricostruire insieme a lui un attaccamento e una “inclusione” familiare. Insomma, quello che si realizza è un lavoro di gruppo e come i nostri figli reagiscono e affrontano il loro trauma, dipende sì da loro, ma, insieme, anche da noi. Se qualcosa non funziona non dipende unicamente da quel fatto traumatico vissuto quando noi non c’eravamo, e i traumi vissuti non vanno immaginati come un peccato originale “incistato” nei nostri figli.

Punto secondo: distinguiamo.

I bravi psicologi ci dicono che non ha senso “dare la colpa” (<<Vedi, il buono e cattivo non servono. E' uno sguardo giusto. Ma limitato. Rassicurante ma non veritiero. A chi serve la condanna? Ci fa sentire meno male? Fa sentire i nostri figli meno feriti? Certo dobbiamo scaricarli dalla responsabilità di quello che è accaduto. Non è colpa loro. Ma qualcuno ha la colpa? Serve a qualcuno la colpa? >> Redaelli, 2021) . E se non ha senso giudicare e dar colpe alla famiglia d'origine, ancor meno darle alla famiglia adottiva.

Ma, riconoscere il danno che un fatto oggettivo e le persone del passato hanno creato, non esime le persone che ci sono oggi ad assumersi la responsabilità di come insieme a loro quel bambino ha affrontato e affronta il suo vissuto e quel che c’è di traumatico. Come è scritto nel titolo dell'incontro, nella famiglia adottiva avviene un “transito evolutivo” e protagonisti di quel transito lo sono tutti, figli e genitori, in un continuo “creare e disfare” insieme. Barbara Ongari spiega: “L'esito della crisi dipende non dall'evento stesso, ma da ciò che avviene nel tempo e in base alle azioni che vengono messe in atto dai vari attori che intervengono. … La crisi può essere considerata come parte integrante dei percorsi adottivi”.

La potente forza della famiglia e del genitore adottivo è ben espressa nelle parole di Leonardo Luzzatto: “il trauma non è un evento concreto, ma è il vissuto psicologico dell'evento concreto che giace nel presente, è qualcosa di attivo e questo si può trasformare … il vissuto psicologico si allarga a macchia d'olio fino a che qualcuno non trattiene e trasforma in qualcosa d'altro la macchia d'olio”. Ancora: “… è l'incontro tra esperienze che fa scaturire la crisi”.

Non solo: ragionare in questo modo porta a fare altre considerazioni. Può essere la stessa famiglia a volte promotrice e veicolo di nuovi traumi, amplificando la macchia d'olio invece di arginarla, anche inconsapevolmente?

Punto terzo: possiamo andare nel panico, ma non possiamo perdere il ruolo di genitore.

Se all'interno della famiglia adottiva i bambini possono ricostruire una condizione di funzionale attaccamento e corretta costruzione di se stessi (lo psicologo direbbe “del sè”), sono il padre e la madre adottivi che “devono farlo”. Nessun altro al posto loro. Non saranno il terapista, l'operatore di incontri di mutuo aiuto, il neuropsichiatra o il logopedista, e chi più ne ha più ne metta a fare la differenza: dentro alla relazione familiare che trasforma e che costruisce legami, deve starci soprattutto il genitore. Deve esserci il genitore. Perché tra i tanti modi di essere utile, l'unico sempre e unicamente valido è quello di esserci. Si può sbagliare altro, ma non l'esserci, l'esserci accanto.

Punto quarto: cosa vuol dire “esserci”? Va bene ci sono, ma cosa faccio?

In questo “transito evolutivo”, insieme a mio figlio, insieme a mia figlia, quali passi io devo/posso fare? La risposta data è: soprattutto ascoltare. Ascoltare è già tanto, se non il tutto. Ascoltare quel figlio, il tuo figlio, perché è insieme a lui che devi creare la giusta relazione, ed è esclusivamente lui che può comunicare a te, non altri al suo posto, ciò che deve realmente e unicamente importare per te, per il tuo percorso, per il percorso della tua famiglia. Perché è attraverso il tuo di ascolto, di padre, di madre, che riceve accoglienza. Ed è attraverso questa accoglienza che può costruire la sua identità di figlio, di figlia.

Potete vedere l'intero incontro organizzato dall'"Associazione italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia" con la Presentazione del n.2/2020 della rivista MinoriGiustizia, nel video a questo link.


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Data di pubblicazione: 
Lunedì, Marzo 8, 2021

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