Nella conversazione con la figlia sul tema del razzismo, che ha pubblicato qualche anno fa, Tahar Ben Jelloun scrive che tra le cose che ci sono al mondo il razzismo è la meglio distribuita tanto da divenire, ahimè, banale.
Il razzismo è tutt’altro che banale ma poiché, al di là delle sue manifestazioni più eclatanti, agisce in maniera silente, ce lo portiamo dentro e ce lo coltiviamo lasciandolo agire inascoltato. La banalità del razzismo è proprio ciò che ci fa illudere di poterne uscire facilmente indenni. E’ la forza del senso comune e del buon senso che pervade, senza che se ne sia coscienti, tutto ciò che quotidianamente incontriamo.
<<La famiglia che adotta è necessariamente portatrice di diversità>>
Vi è un motivo in più che deve mettere in guardia la famiglia adottiva dalla trappola di coltivare quella illusione perché la famiglia che adotta è necessariamente portatrice di diversità. E se non è mai facile fare i conti con la diversità, quando questa diviene una necessità spesso può trasformarsi in una bandiera da sventolare senza che se ne misuri la forza per sostenerla al vento.
Noi genitori adottivi siamo i primi a desiderare di integrare il più rapidamente possibile nostro figlio nel contesto sociale dove viviamo e cerchiamo costantemente di affrettarne il processo di inserimento, talvolta anche a scapito dei tempi di maturazione che guarda caso viaggiano secondo un’andatura imprevedibile, discontinua, con accelerate, brusche frenate e marce indietro.
Per la coppia l’urgenza all’integrazione, la diversità vissuta come un fardello può avere conseguenze dolorose con le quali fare i conti. Può rifugiarsi dietro l’alibi di ritenere che la non accettazione derivi sempre dall’altro: “fosse per me, ma l’altro…”; oppure invischiarsi nell’incapacità a confrontarsi con la delusione nei confronti del proprio bambino: “per gli altri è facile ma io, con lui…”.
<<Per la diversità occorre riconoscimento e rispetto reciproco>>
Continuiamo per lo più a parlare di accoglienza avendo di mira esclusivamente l’accoglienza che la famiglia, la scuola, la società riserva al bambino adottato attraverso l’adozione internazionale. Pensare l’accoglienza in questa maniera unilaterale significa pensarla attraverso le coordinate della tolleranza e dell’integrazione.
Dimentichiamo invece facilmente quel faticoso e duro lavoro che anche il bambino deve fare per accogliere quei genitori estranei, quella lingua sconosciuta, quel sistema di regole e convenzioni inatteso e a volte bizzarro che pretendiamo costituisca il suo orizzonte, il suo futuro e ancor peggio il suo bene.
Vi sono trappole che un’eccessiva fiducia nell’idea di integrazione può tendere. L’ integrazione, porta verso un centro integratore e quindi scivola immediatamente verso il concetto di assimilazione e chi dice assimilazione dice, senza accorgersene, assimilazione a se stesso.
Si nega la propria differenza ritenendoci i portatori di verità e si nega la differenza dell’altro ritenendo che la si debba semplicemente annullare nella nostra verità.
Anche tolleranza è una parola di cui sono già stati spesso evidenziati i limiti in quanto tenderebbe più alla neutralizzazione che al reciproco riconoscimento, alla comprensione. E’ rinuncia alla verità - scrive Salvatori Natoli - per la pace. Si privilegia l’incomprensione, l’indifferenza… fino a che non mi riguarda. Ma quando l’altro irrompe con il peso della sua diversità le cose cambiano, egli diviene insopportabile.
Nel contesto sociale privilegiato della scuola spesso nostro figlio diventa l’altro, il diverso, può talvolta essere avvertito anche dagli altri genitori come una minaccia, un inciampo, un possibile incidente di percorso nel cammino del proprio figlio.
E quello che mi rivela tempo fa candidamente una mamma accanto a me ad una riunione di programmazione del distretto scolastico. A un tratto mi sussurra all'orecchio: "tanto arrabattarsi poi ti mettono in classe 5 o 6 bambini che non sanno bene l'italiano e sei fregato!" Mi guarda, realizza con chi sta parlando e comincia ad arrampicarsi sugli specchi ritenendo di dover rimediare. Io sto zitto e lei allora precisa "uno o due bambini che provengono da altre culture creano una situazione perfetta perché permettono un confronto con la diversità che è molto formativa". Silenzio: "Non mi riferisco al tuo che è italiano al 100%..."
La paura del diverso e la sua demonizzazione sono l’anticamera del razzismo anche se tentano di nascondersi dietro la necessità di tener conto della diversità.
<<Pensiamo il diverso, e il diverso è sempre l’altro>>
Più difficile è pensare la differenza come ciò che attraversa sia noi che l’altro nelle più profonde pieghe della nostra unità e identità.
La nostra cultura ha optato per il neutro. In nome della pace e della riduzione dei conflitti finisce per rendere a-specifiche e secondarie le differenze e perdere in questa maniera la particolarità e la singolarità irriducibile di ciascuno.
E’ solo se accettiamo la nostra differenza che ci rende finiti e parziali che possiamo diventare disponibili al rispetto e al riconoscimento reciproco.
Compito questo ben più arduo del semplice imparare a tollerare, ma il solo che può permettere di smettere di issare muri e palizzate e di mescolarci. Ed è la mescolanza, l’ibrido, il meticciato, le identità multiple ed eterogenee, la vera risorsa che può portare alla costruzione di uno spazio che accolga.
Per rispettare la differenza occorre dedicarcisi nella reciprocità ed è ciò che le nostre famiglie che lo vogliano o no, anche senza saperlo, non possono esimersi dal fare.