Autore: 
Egidio Freddi, Valeria Deriu

Credo nel valore trasformativo della parola, nella sua capacità di creare infinite reti di relazioni in quanto strumento privilegiato della persona per esprimere ed esprimersi; il linguaggio è dotato di un potere trasformativo come strumento di confronto con l’altro da sé e come base dell’intersoggettività.

Egidio Freddi, Acquisizione della lingua italiana e adozione internazionale, Edizioni Ca’ Foscari 2015

Egidio Freddi, nel suo lavoro di ricerca in Scienze del Linguaggio all’Università Ca’ Foscari di Venezia, analizza il processo di acquisizione della lingua italiana da parte di bambini che sono stati adottati, offrendo anche suggerimenti utili a rendere questo percorso il più naturale, spontaneo e gratificante possibile.

Recentemente, insegnanti e genitori, hanno avuto modo di parlare di tutto questo direttamente con lui stesso grazie a due incontri della Sezione di Roma di Genitori si Diventa. Quello che segue è un estratto, una trascrizione, di quanto emerso ed è scritto a due mani, da Valeria Deriu che ha ricostruito il materiale e lo ha integrato ed Egidio Freddi che ha rivisto quanto detto e lo ha rielaborato. Le frasi riportate in corsivo sono trascrizione delle parole, dette in prima persona, da Egidio Freddi durante l'incontro.
 


Un ruolo fondamentale nell’assimilazione della nuova lingua - ma anche nell’eventuale abbandono di quella originaria - viene giocato dai dati psico-affettivi ed emozionali del protagonista di questo passaggio. A ciò si lega la provenienza e il grado di competenza relativo alla lingua biologica. Bisogna, insomma, porsi delle domande: Sono bambini che vengono da un’esperienza con i genitori biologici o da strutture istituzionali? Che tipo di rapporto hanno avuto con la loro L1, la cosiddetta lingua materna primaria?

Prendiamo l’esempio di Igor, nome di fantasia, bambino proveniente da un paese dell’Est Europa. Nasce in una famiglia con i suoi fratellini in un contesto privo di stimoli, con una situazione economica complicata e un’attenzione alla salute marginale. Igor parla poco e presenta problemi comportamentali sin dalla prima infanzia. Non si esprime, è un parlatore tardivo e queste caratteristiche mettono in crisi la convivenza con gli altri fratellini. I genitori, loro malgrado, decidono di portarlo in una struttura specifica che nel suo paese prende il nome di Internat, che dovrebbe essere una struttura dedicata ad aspetti riabilitativo terapeutici.

In realtà si tratta di una via di mezzo tra un “istituto”, un asilo e una residenza per anziani.

La lingua di questo istituto è di tipo direttivo, molto basica, legata a poche informazioni unilaterali e non dialogiche,non connotata da aspetti affettivi, di conferma o di gratificazione. Igor ha due anni e mezzo quando viene portato li, ma poi qualcosa accade e viene messo in lista di adozione. Dopo un lungo e faticoso percorso - e voi sapete di cosa sto parlando - viene affidato a una famiglia italiana. Ha sei anni, finalmente conosce i suoi genitori con i quali però non riesce ancora a comunicare. Loro fanno una cosa in cui molti di voi si riconosceranno: imparano qualche parola nella lingua del paese. Igor si rende conto che la lingua che usava prima non gli serve più e che non ha scelta, deve imparare l’italiano perché è quello che sostanzialmente si aspettano da lui, ma allo stesso tempo si rende conto che questa nuova lingua è ricca e intrisa di aspetti affettivi e relazionali; le lingue si parlano attraverso le emozioni, attraverso gli affetti: “Meglio imparare questa” - dice lui - “Questi mi vogliono bene.”

Si parte da questo esempio per comprendere meglio, e da questo esempio ci faremo accompagnare anche nel resto. Teniamo dunque a mente Igor, un ipotetico bambino che a sei anni, con una concrezione psicolinguistica e affettiva estremamente particolare, viene adottato da una famiglia italiana. Arriva in Italia con una precisa biografia linguistica e precise competenze comunicative, si trova davanti a lingua, usi e costumi che gli suonano estranei e il rovescio della medaglia è un’urgenza comunicativa di tipo normalizzatrice che lo spinge ad appropriarsi della sua nuova vita.

Per la psicologia infantile, come per la psicanalisi, la qualità della vita del bambino così come lo sviluppo linguistico e l’espressione di sé, nei primi anni di vita fondano le basi per la costruzione di una identità. Ciò che risulta fondamentale è capire se questi bambini, nella fascia temporale della prima infanzia, sviluppano un’attrezzatura linguistica e affettiva sufficiente. Se ciò non avviene questo sviluppo disarmonico può essere considerato come un indice predittivo di eventuali perturbazioni del linguaggio.

Il linguaggio abilita a vedere nel mondo se stessi con gli altri, attraverso gli altri. Nel momento in cui ho una limitazione della capacità di potermi esprimere a livello linguistico, automaticamente ho una limitazione della mia capacità di interagire, di poter essere “al mondo” con gli altri.

Erosione della lingua materna primaria

La perdita della L1 avviene in modo estremamente rapido e drastico con l’emergere della nuova lingua adottiva. In molti casi, ma non in tutti, causa di questo repentino adombramento della L1 sono i traumi latenti per i quali i bambini preferiscono “mettere in frigorifero” una forma di linguaggio che per loro rappresenta simbolicamente un vissuto emotivo negativo e destabilizzante. Non si tratta di uno scollamento di tipo linguistico, ma piuttosto di tipo esistenziale e correlato all’identità della persona che lo vive. Siamo di fronte ad una inibizione selettiva del lessico della L1, spinti dalla necessità di elaborare termini nella L2. Laddove le abilità linguistiche non siano state stabilmente sedimentate - come nel caso del nostro Igor - aumenta il rischio di rapida perdita delle funzioni nella madrelingua.

L’interferenza linguistica è un fenomeno che si manifesta quando due lingue entrano in contatto fra di loro e tendono a trasferire idiomi da una all’altra: la lingua più forte tende a sovrastare quella più debole.

Quando si manifestano i problemi per davvero?

Finché il bambino o la bambina rimangono in ambito familiare, tutto concorre in modo meraviglioso. Il problema si manifesta nell’approccio alla scuola:

Negli studi che sto facendo nell’ ambito della scuola primaria, ciò che manca, ciò che è mancato, è la scuola dell’infanzia: terra di passaggio fra la famiglia e la scuola primaria. La maestra della scuola dell’infanzia assomiglia ad una mamma che fa svolgere una serie di attività propedeutiche ad affrontare quelli che saranno i prerequisiti per la scuola elementare.

Il nostro Igor, arrivato in Italia a sei anni, non ha vissuto questo “periodo cuscinetto” ed è stato inserito nella scuola elementare senza aver avuto il tempo tecnico e gli strumenti necessari per sviluppare quelle competenze meta-strategiche che per un ragazzo italofono sono date per acquisite. In questa fase è scoperto, sia da un punto di vista emotivo che linguistico.

Portare a termine un compito, ad esempio, non significa solo o soprattutto entrare nelle dinamiche del contenuto, significa anche – quando si ha difficoltà - entrare nelle dinamiche contestuali del “non capisco cosa vogliono da me, non capisco cosa mi chiede questo esercizio.

Ci sono degli esercizi che possono essere di difficile comprensione. Nella consegna si dice: “ci sono dieci frasi e in queste dieci frasi dovete trovare l’errore, l’errore è possibile in due su tre, cancellate la parte sbagliata”.  Per capire una consegna di questo genere, ci vuole tempo, soprattutto se hai cominciato da poco ad approcciarti alla lingua. Il discorso che sto facendo non si riferisce solo a bambini con adozione internazionale, sono problematiche spesso comuni a tutti i bambini, il bambino di origine straniera reagisce in un modo, quello che è stato adottato in un altro, l’italofono in un altro ancora.

Le richieste della scuola sono sovradimensionate, non tanto perché il bambino non è in grado di rispondere, ma semplicemente perché non gli viene fornita l’accessibilità didattica che gli permette di rispondere.

Da un lato il problema è raffigurato dal bambino che si relaziona alla richiesta culturale e didattica. Dall’altro vi è la necessità che la scuola cominci a dotarsi di strumenti glottodidattici più raffinati, più evolutivi e soprattutto psico-linguisticamente vicini al mondo dei bambini. Ha il dovere morale di operare con una didattica più accessibile e inclusiva, più centrata sullo studente.

Le situazioni sono davvero tutte differenti, dipendono dalle persone. La condizione scolastica di Igor è senza dubbio di svantaggio linguistico rispetto ad un italofono. Diversa ancora è la condizione del ragazzo di origine straniera, anche lui ha una lingua pregressa ma continua ad essere parlata all’interno del suo nucleo familiare o nel gruppo dei pari. Può anche capitare che i bambini che stati adottati possano avere la fortuna di avere un genitore che parli fluentemente la loro lingua d’origine e in quel caso è possibile assecondare il bilinguismo consecutivo, qualora sia voluto dai bambini, permettendo loro di parlare le due lingue in ambienti diversi.

Non esiste nessuno studio che possa avvalorare la necessità di ridurre le lingue. Non dobbiamo far vivere a questi bambini il dato linguistico come una grossa limitazione, ma come una grande risorsa da sfruttare.


L’adolescenza

La vera tempesta arriva alle medie. È il grande momento delle modificazioni, pensiamo ai passaggi: quello in prima media, quello fra la terza media e i primi due anni della scuola superiore. Si sviluppano delle modificazioni di carattere evolutivo, neurobiologico, cognitivo, neurolinguistico. Comincia a presentarsi in termini consapevoli il problema identitario.

Più che un problema parlerei di configurazione dell’identità che comincia a rendersi possibile. Ha a che fare con diversi aspetti: l’autostima, l’autorealizzazione, fino ad arrivare all’esplosione della dimensione interpersonale perché nella scuola media si comincia a ragionare in termini di gruppo. Nella scuola elementare il gruppo è tale nel momento in cui ci sono attività extrascolastiche che lo giustifichino.

Assistiamo a un’uscita dal microcosmo familiare per misurarsi con l’esterno. Il ragazzo o la ragazza tendono a riproporre dei formati acquisiti all’interno della famiglia originale. E qui la famiglia originale è molto probabilmente non la famiglia biologica (a meno che non sia stati appena adottati), ma la famiglia adottiva, insieme a tutto ciò che è stato precedentemente acquisito.

Comincia a farsi spazio il pensiero astratto e quindi la percezione della presenza della mente altrui che abilita alla relazione con l’altro nel riconoscimento delle emozioni, diverse o simili dalle proprie, si comincia ad entrare in quella che è la dimensione intersoggettiva, quindi all’espressione: controllo e regolazione degli stati emotivi.

La scuola media prevede l’introduzione di discipline diverse rispetto alla scuola elementare, come la seconda lingua straniera. Alcuni la percepiscono assolutamente affrontabile dal punto di vista cognitivo, ma tanti si trovano in difficoltà. Cosa fa la nostra mente nell’apprendimento di una lingua straniera?

Il cervello in modalità acquisizionale si appoggia sulla L1, la lingua materna primaria. Un italofono che studia Inglese e si appoggia solo sull’Italiano (ed Italiano ed Inglese sono due lingue non proprio compatibili tra di loro), presenterà dei problemi, ma i meccanismi di funzionamento che sono quelli dell’interlingua sono stati già acquisiti. Per un ragazzo adottato internazionalmente, il discorso può essere diverso, perché potendo non appoggiarsi su meccanismi solidamente acquisisti precedentemente è più probabile che si trovi in difficoltà, anche perché magari più debole nei meccanismi di anticipazione.

Le modalità di valutazione scolastiche vengono effettuate ancora su modello tradizionale: a tempo limitato e con delle consegne che devono essere rapidamente risolte.

Ho sempre sostenuto che la valutazione debba essere considerata come un processo, non come una misurazione sincronica di cosa in quel momento sai. Se io faccio un gruppo di lavoro con i ragazzi, nel quale propongo un compito da risolvere, alla fine del lavoro non avrò bisogno di fare una verifica, perché la valutazione si è già delineata durante l’attività.

La scuola deve fornire un’abitudine all’analisi della lingua, ma questo deve essere fatto con passione e con entusiasmo, trasferendo contenuti affettivi con coinvolgimento ed emozione, accompagnando il giovane nell’affermazione della sua identità culturale e linguistica e cercando di ridurre al minimo le difficoltà. Questo approccio didattico prende il nome di glottodidattica umanistica, volta a valutare i reali bisogni dello studente e a tenere conto della sua storia e delle sue potenzialità espressive.

La Scuola Glottodidattica Veneziana ha sviluppato un approccio glottodidattico teorico-pratico declinandolo in una dimensione umanistico-affettiva. L’obiettivo, fra gli altri, è stato quello di mettere l’accento sulla centralità dello studente nel processo di apprendimento, tenendo conto delle sue potenzialità, della sua reale condizione educativa, cognitiva, socio-relazionale ed emotiva.

Negli ultimi cinquant’anni l’insegnamento delle lingue straniere si è svolto spesso partendo dalla grammatica per arrivare in seguito alla produzione orale, ma le neuroscienze hanno dimostrato che l’approccio deve essere di tipo olistico, motivazionale globale con la finalità di massimizzare l’efficacia della comunicazione. L’aspetto analitico della riflessione sulla lingua è l’ultimo passo del processo, come dimostrano gli studi sulla bimodalità e direzionalità del funzionamento cerebrale nell’apprendimento linguistico.

Immaginiamo una ragazza che è stata adottata con difficoltà linguistiche a scuola. I problemi di comprensione del linguaggio metaforico o di alcuni termini si riflettono sulla socialità della studentessa. La difficoltà può derivare dal non avere una profonda conoscenza della lingua italiana che comprenda anche i modi di dire o le parole composte (come carta di credito, menare il can per l’aia, mangiare la foglia) che per noi è normale conoscere ma che non sono facili da assimilare. Linguaggi settoriali o espressioni dialettali, possono rappresentare una risorsa se contenuti nel nucleo familiare, ma anche un problema per la coesione sociale dei ragazzi. Cosa possono fare i genitori per favorire la formazione linguistica dei bambini nella preadolescenza?

Il genitore può offrire ai ragazzi una socializzazione il più possibile ricca e creativa; questa è sicuramente una cosa che noi possiamo fare, oltre che naturalmente continuare il nostro lavoro lento e inesorabile di acculturazione linguistica, culturale, di gratificazione e supporto alla ricerca dell’identità. È stata la mia famiglia a portarmi su queste dimensioni: cercare un linguaggio ricco e espressivo, ascoltare della bella musica, imparare a conoscere l’arte e praticare lo sport. Tutte queste esperienze cruciali che possono aiutare, perché potenziano quelle “soft skills” ,le abilità trasversali, che saranno fondamentali per  i nostri figli anche nel mondo del lavoro.

Ma anche guardare e valutare criticamente un telegiornale insieme, vedere un film o qualcosa di piacevole è potenzialmente formativo, mettendo l’accento sugli aspetti metaforici del linguaggio, su ciò che non viene detto, sul sentito dire, su qual è il vero messaggio che si vuole trasmettere. Utilizzare inoltre un approccio ludico, mettere le attività sotto forma di gioco, di sfida, che non vada intesa come confronto, ma come un obiettivo da raggiungere e superare insieme.

Cosa possono fare i genitori per favorire la coesione sociale e la stabilità di un adolescente che ha un vissuto adottivo?

Non è semplice orientare i propri figli in un modo sufficientemente equilibrato a scuola e nei rapporti sociali perché,innanzi tutto, sono degli adolescenti e proprio come tutti gli altri manifestano i comportamenti tipici di quella fase. E’ necessario trovare una sorta di equilibrio, nel quale si trasmette al ragazzo il proprio supporto, uno “scaffolding” cognitivo-emozionale. Analizzare quali strategie sono importanti per arrivare a risolvere il problema è spesso più importante che la risoluzione dello stesso.

Ciò che conta non è essere splendidi insegnanti o splendidi genitori, ma essere supportivi per i ragazzi, analizzare cosa non capiscono, e soprattutto chiedere loro dove si sentono più in difficoltà per attivare strategie di rinforzo e potenziamento meta-strategico. L’identificazione dei bisogni risponde alle prerogative di una glottodidattica accessibile e inclusiva: se non so qual è il problema non posso stabilire delle strategie. 


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Data di pubblicazione: 
Giovedì, Aprile 7, 2022

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