Autore: 
Massimo Maini e Daria Vettori

"Io non posso mai essere sicuro di comprendere il mio passato meglio di quanto esso comprendesse se stesso quando l'ho vissuto, né far tacere la sua protesta"

M. Merleau-Ponty  

Nonostante la questione delle origini nell'ambito delle adozioni sia stata molto dibattuta sia in ambito giuridico che clinico, ugualmente ancora oggi pare non aver esaurito la carica d'interesse e complessità. Come è oramai risaputo la regolamentazione in materia di informazioni sulle origini adottive inserita nella legge 4 maggio 1983 n. 184 (e successive modifiche legge 28 marzo 2001 n. 149), negli articoli 28 e 37/7, prevede che "il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni."

Se da un lato tale regolamentazione ha permesso di rendere chiaro che sapere di essere stato adottato è un diritto, rimane aperto il dibattito sia sul fronte giurisprudenziale (come ad esempio la recente approvazione alla Camera del disegno di legge che prevede anche per i figli non riconosciuti alla nascita dalla madre che ha scelto di restare anonima, la possibilità di fare richiesta al Tribunale per i Minorenni, di poter entrare in possesso di informazioni sui propri genitori biologici) che dal punto di vista clinico ed esistenziale. In particolare rimane aperta proprio la questione che riguarda l'importanza di conoscere le proprie origini (quindi non solo l'informazione di essere adottati) e l'opportunità o meno di entrare in contatto con esse.

Tralasciando per motivi di spazio il dibattito giuridico che riguarda le informazioni e le modalità di comunicarle, proveremo a concentrarci sugli aspetti legati al "senso esistenziale" e ai bisogni che tale ricerca comporta. Sentirsi raccontare la propria storia e continuare a raccontarla, non è solo un diritto, ma risponde piuttosto al bisogno che ciascuno di noi ha di "sentirsi interi", unici e originali, nonostante tutto.

Origine o Origini?

È capitato spesso nel corso degli incontri con i genitori e soprattutto con i ragazzi, di avere dedicato grande spazio al tema delle origini. In particolare, nel corso di queste lunghe e appassionate riflessioni abbiamo sentito l'esigenza di approfondire di quali origini si stesse parlando. In diverse occasioni è emerso che il bisogno della "ricerca delle origini" non è unicamente legato ad avere accesso alle informazioni, quindi venire a conoscenza di quanto è avvenuto, ma prevalentemente legato ai bisogni che ogni persona vive nel presente e che interpellano contemporaneamente il passato ma anche il futuro. Non mettiamo in dubbio la necessità e l'importanza della ricerca delle informazioni che riguardano le proprie origini. Così come non intendiamo addentrarci sulla complessità delle diverse notizie di cui un figlio può andare alla ricerca, come ad esempio quelle riguardanti gli aspetti sanitari o relative ad eventi traumatici accaduti nella sua vita. Quello su sui vorremmo portare la nostra attenzione è sul concetto stesso di ricerca dell'origine o delle origini, come necessità di recuperare pezzi "dispersi" della propria storia, nella ricerca di una armonia tra radici e appartenenza.

Una delle riflessioni che vorremmo proporre riguarda la necessità esistenziale di continuare a ricercare le proprie origini, come un inesausto bisogno di raccontare e di raccontarsi la propria storia.  Nel periodo adolescenziale questa spinta, questo desiderio si fa pressante, proprio perché i ragazzi hanno bisogno con urgenza di iniziare a lavorare sulla propria identità. Essi cominciano a farsi domande diverse da quando erano piccoli:

"Se capisco di chi sono capisco chi sono".

In particolare sentono cose molto diverse dal passato:

"Il mio corpo sente, ciò che io non sono in grado di ricordare"

Iniziano a dare un diverso significato all'abbandono, talvolta identificandosi con quei genitori biologici a cui oggi cominciano a somigliare di più, e di cui sentono gli echi della fragilità e della sofferenza. Talvolta invece osservano i propri genitori adottivi con uno sguardo differente, tra la tenerezza e il fastidio. Genitori che non possono "salvare come loro hanno salvato noi", nei confronti dei quali emerge un senso di estraneità tipico dell'adolescenza. Ricerca delle origini significa quindi ri-narrare una storia che tenga conto di tutto quanto si presenta come nuovo e inaspettato. Ciò che si conosce o che si ri-scopre ora andando a rileggere i documenti o partendo con indagini personali (attraverso internet o tentativo di incontrare persone o visitare luoghi), sono indizi intorno a cui costruire una storia impregnata da ciò che ogni ragazzo sente e pensa in quel preciso momento della sua vita. Quello che intendiamo dire è che ogni informazione che può essere anche faticosamente ricercata e trovata, non esaurisce il bisogno di continuare a raccontare le proprie vicende umane perché "non per scoprire chi sono che devo raccontare le mie storie, ma perché ho bisogno di fondarmi su una storia che io possa sentire ‘mia'." (J. Hillman, Le storie che curano).

Proprio per questo motivo, talvolta le informazioni che i ragazzi raccontano di utilizzare per ri-costruire la propria storia non sono nemmeno "vere", perché raccolte da storie di altri o da esperienze che nulla hanno a che fare con il "noto". Essi hanno raccontato, ad esempio, di essere entrati in un ristorante del paese da cui provenivano, avere sentito l'odore, e sulla base della sensazione sentita avere aggiunto un pezzo della propria storia. Non importa se vi sia stato un riconoscimento o meno di quell'odore, ma la sensazione ha consentito di dar voce ad una parte di una storia possibile. Così come un ragazzino proveniente dal Brasile ha affermato con sicurezza: 

"Io gioco bene a calcio perché' sono brasiliano...".

Le storie non fanno stare bene perché sono vere, ma perché ci fanno sentire uniti, unici ma non soli. Quello che sostanzialmente riportano i ragazzi adottati è che non esiste una sola origine ma molteplici e diversificate origini, ognuna delle quali racconta la sua storia. Così scopriamo, proprio grazie ai ragazzi, che parlare di origini vuole dire affrontare un fenomeno complesso e articolato che coinvolge aspetti diversi e che rispecchiano le fasi evolutive di ognuno di loro e quel sentire che cambia come cambia il corpo. Ri-raccontare le proprie origini passa anche dal semplice atto di rivedere le fotografie che raccontano l'adozione, o i libri che i genitori gli leggevano quando erano piccoli. 

 "Mia mamma mi leggeva sempre ‘Do Re Mi è stato adottato'...a me non piaceva e lei non capiva perché. Io non volevo leggerlo perché c'era quel cucciolo che era così diverso dai suoi genitori...stavo male. Io volevo essere come loro, e lei mi leggeva sempre quello.

Adesso mi piace...mi fa ridere...e poi io ero proprio così, tanto tanto vivace."

"Quando guardo le foto adesso vedo la faccia dei miei...avevano un sorriso tirato e io li guardavo come degli estranei. Forse ho negli occhi anche un po' di terrore... Quando ero piccolo mi sembravano così belle, eravamo tutti sorridenti e felici."

Al tema delle origini si associa inevitabilmente anche quello dell'appartenenza, "di chi sono". 

L'etimologia del termine "origini" rimanda fortemente a chi mi ha generato. Un termine invece che pur avendo la stessa radice, assume un senso differente è la parola "originalità", che richiama ad una appartenenza a se stessi, una unicità che non possiede nessun altro.

"Io sono di me stesso. Mi appartengo"

In questa affermazione, fatta da un ragazzo di un gruppo, troviamo la potenza ed il vero significato della ricerca delle origini e dell'appartenenza come ricerca di sé, come ricerca di una originalità, fatta della propria storia che assume, inevitabilmente, un significato tutto personale:

Io sono 100% indiano e 100% italiano, 

al di là di ciò che è "oggettivamente vero". 

E dentro a questa storia c'è posto per tutto, per il noto e l'ignoto, per il reale e ciò che ho immaginato o sognato.

Tale approccio consente alla persona adottata di poter fare i conti anche con un aspetto sempre doloroso e difficile da accettare: la mancanza d'informazioni e l'impossibilità di poterle recuperare. Spesso i ragazzi parlano di "buchi", lacune, misteri che non potranno essere svelati da nessuno e da nessuna possibile notizia in possesso da parte di qualcuno. Questa "assenza" ha un impatto estremamente significativo nelle vite di ogni figlio adottato. Molti ragazzi sono consapevoli del fatto che non potranno forse mai sapere nulla delle proprie origini, e che il viaggio di ritorno dovrà "limitarsi" a visitare un luogo o incontrare persone che in qualche modo hanno fatto parte della loro vita, ma non la loro famiglia biologica. Tale mancanza segna indubbiamente un confine reale oltre il quale è impossibile andare. Questo non toglie però che il sentimento di "vuoto" o assenza descritto da molti, non potrà essere comunque riempito dalla realtà, dai fatti o dai volti delle persone reali.  

Questo lo si ritrova spesso nei racconti degli adottati che hanno fatto ritorno al proprio paese natio o che hanno avuto la possibilità di incontrare i propri genitori biologici o parenti. Quello che riportano è l'essere entrati con forza a contatto con la consapevolezza che quello che si è riusciti a trovare non corrisponde alle attese e che, anche in occasioni di un viaggio di ritorno, tanto sognato e immaginato, i misteri e i buchi rimangono. Spesso chi arriva ad incontrare "in carne e ossa" le proprie origini scopre un nuovo mistero, ancora e di nuovo un non detto, un non concluso che trova la sua genesi proprio nel corpo estraneo della propria madre biologica, dei luoghi che hanno visto la nascita e la partenza. 

Come spesso raccontato in letteratura, chi ricerca nel ritorno alle origini, una risposta a questo senso di mancanza, o al bisogno di riconoscimento o appartenenza, rischia di vivere una fortissima delusione, ed un senso di tradimento. Un senso di tradimento che può anche essere legittimo, se al ritorno alle origini corrisponde la scoperta di segreti mai rivelati, ma rischia di essere un grande malinteso, se questo viaggio viene caricato dell'aspettativa di dare pace e di risolvere.

Un ultimo aspetto che riteniamo fondamentale affrontare, è la forte correlazione tra il tema delle origini e dell'identità, i cambiamenti del corpo, i vissuti e le sensazioni tipiche del periodo adolescenziale. Non stiamo naturalmente affermando che solo in questo periodo evolutivo, il corpo ha una influenza profonda sui movimenti che riguardano le domande sulla propria storia, ma certamente l'adolescenza apre e ri-apre tematiche forti, quali la sessualità, la generatività, la passionalità, che nelle storie adottive hanno una valenza potente e profonda. Non a caso la radice della parola "origine" è connessa con il tema della generatività e della nascita.

Nel gruppo si è parlato della generatività, del fatto che alcuni possono di fatto diventare genitori a loro volta.  Ma cosa significa diventare genitori per un figlio adottato? Uno degli aspetti su cui ci si è soffermati è che proprio nella esperienza di generare un figlio è insita la possibilità che le proprie radici possano emergere e ri-nascere con il corpo del proprio figlio. A chi assomiglierà? Avrà i tratti del padre e della madre, ma anche quelli del nonno biologico, della nonna biologica? Nel diventare madre sentirò una connessione con le mie origini?

Aruna racconta di non avere ricordi delle proprie origini e che non ha mai desiderato andarle a incontrare nel corso della sua vita. Una volta divenuta madre "l'abbraccio di mia figlia è stato un'esperienza di memoria inevitabile e non scelta che ha risvegliato dentro di me parti a me sconosciute fino a quel momento".

Le origini ritornano sempre di nuovo, in una forma che rispecchia il momento presente vissuto.

 

Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo, svolge la sua attività presso i Servizi Sociali del Comune di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, E. Husserl, la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi dell'identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito socio-psico-pedagogico. Svolge attualmente l'attività di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Bologna.

 

Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta. Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell'affido e dell'adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell'attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children's Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l'adozione. Insegna Pedagogia dell'Affido e dell'Adozione presso la facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Parma.

Data di pubblicazione: 
Sabato, Ottobre 1, 2016

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