Autore: 
Francesca Boracchi

Ad un certo punto della strada, quasi tutte le coppie iniziano a sentire il desiderio di entrare in una nuova fase, quella di diventare genitori. Inizia così la ricerca di una gravidanza, sostenuta dal forte desiderio, dalla convinzione che ‘’è la cosa più naturale del mondo'' e che ‘’se ci impegniamo prima o poi arriverà''.

Ma cosa succede se il tempo passa e la gravidanza non arriva? O se le gravidanze iniziano ma finiscono troppo presto?

La coppia dopo un iniziale e fisiologico momento di smarrimento che porta con sé uno tsunami di emozioni che vanno dallo shock, all’incredulità, alla rabbia, al senso di impotenza, inizia a valutare delle alternative possibili. Compaiono così due strade: la procreazione medicalmente assistita (PMA) e l’adozione. Due strade molto diverse, ma che non si escludono a vicenda, tanto è che la maggior parte delle coppie si rivolge inizialmente alla PMA e solo in un secondo momento, quando i vari tentativi falliscono, volge lo sguardo al mondo dell’adozione. Sono infatti una minoranza le coppie che non accolgono la PMA, per motivazioni prettamente intime, ideologiche o religiose oppure perché la diagnosi di sterilità non consente l'accesso alle tecniche omologhe. In quest’ultimo caso il ricorso alla PMA eterologa, che sia ovodonazione, o donazione del seme o embrioadozione, implica infatti una serie di processi decisionali molto diversi e che non soddisfano l'aspettativa della coppia di avere un ‘’figlio loro''.

Di fronte ad una diagnosi di difficoltà procreative, la strada della PMA, pur introducendo una medicalizzazione importante, rappresenta una sorta di continuità emotiva e cognitiva rispetto alla ricerca naturale. Il futuro figlio sarà generato dall'unione dei gameti della coppia, crescerà nel ventre materno, sarà partorito dalla madre e inizierà la propria vita con la sua mamma e il suo papà. La fantasia iniziale di “fare un figlio'' può trovare qui il suo coronamento.

Non possiamo dire lo stesso per l’adozione, che comporta un passaggio emotivo e cognitivo dal bisogno di fare un figlio al desiderio di diventare genitori di un bambino generato, e spesso per un certo tempo cresciuto, da altri. È evidente la rottura rispetto al progetto iniziale della coppia, ma il concetto di rottura è qualcosa che appartiene al mondo dell'adozione e i futuri genitori per primi devono imparare a farci i conti.

Vorrei provare a mettere in luce le varie differenze tra la PMA e l’adozione, partendo dalle leggi che regolamentano i due percorsi e analizzandole attraverso una serie di criteri che possano farci capire meglio, nella pratica, di cosa stiamo parlando.

La legge che regolamenta la PMA è la n.40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, e ha come finalità “la risoluzione dei problemi riproduttivi della coppia”. Al suo interno il requisito per poter accedere alle tecniche di PMA: essere una coppia composta da due individui di sesso diverso in età potenzialmente fertile. Di fatto quindi a chiunque è potenzialmente consentito l’accesso alle tecniche di PMA e non vengono prese in considerazione eventuali caratteristiche sociali, come la stabilità di coppia, o psicologiche individuali e/o di coppia, che non paiono essere importanti ai fini dei tentativi procreativi assistiti: sono gli aspetti di ordine medico-sanitario ad essere gli unici validi ai fini della possibilità o meno di accedere alla PMA. Il nascituro non compare se non nella misura in cui si legifera che egli sarà dichiarato figlio naturale della coppia. Se questa coppia sia o meno pronta a mettere al mondo ed accudire un bambino poco importa: ciò che conta è permettere ad un uomo e ad una donna, che si presentano dichiarando di essere una coppia, di mettere al mondo un bambino. Quante volte nei miei anni di lavoro come psicologa presso un Centro di PMA ho osservato disturbi psichiatrici del futuro padre o della futura madre o di entrambi, disturbi che avrebbero potuto mettere a rischio il sano sviluppo psicofisico di un bambino; quante volte ho assistito alla dichiarazione di volere un figlio come “cemento della coppia” che stava andando alla deriva; quante volte dietro alla diagnosi di sterilità inspiegata si celavano storie pluritraumatiche irrisolte che stavano bloccando l’emergere di un ruolo genitoriale interno sicuro. E tutte queste volte ho portato alla coppia le mie riflessioni, personificando il futuro figlio e le sue esigenze, poche volte però sono riuscita a far comprendere ai partner che mettere al mondo un figlio non è un diritto ma è un impegno e una responsabilità.

Avevo la possibilità di intervenire per far sì che la coppia non proseguisse nella ricerca del figlio fino a quando non fossero venuti meno i fattori di rischio per il figlio e la famiglia? NO, la legge 40/2004 non lo consente, avendo come focus la coppia e il suo diritto ad essere “curata nella sua sterilità”. Durante i faticosissimi percorsi di PMA l’unico pensiero della coppia, ed in particolare della donna che è al centro di una serie di medicalizzazioni lunghe ed invasive, è l’ottenimento del test di gravidanza positivo. Tutto quello che poi questo inizio comporti non è ancora nella mente della maggior parte delle coppie, le cui risorse sono tutte impegnate nel sopravvivere emotivamente e psicologicamente a quanto richiesto da questi percorsi: esami, visite, pianificazione dei rapporti, monitoraggi dell’ovulazione, iniezioni, sala operatoria. Certo ho incontrato anche persone più critiche ed introspettive che hanno lavorato in parallelo sulla “cura della sterilita” sulla “cura di se’ e della propria coppia”, andando oltre la preoccupazione attuale di ottenere una gravidanza e occupando il tempo dell’attesa per preparare una culla sicura per accogliere il bambino.

Cosa succede invece quando una coppia decide di dare la propria disponibilità per adottare? La legge che regolamenta l’adozione è la n.184/83, “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, successivamente modificata dalla legge n. 149/2001”. Da subito al centro vediamo il bambino, il suo diritto e il suo bisogno di crescere all’interno di una famiglia che lo accudisca, lo protegga e gli consenta un sano sviluppo psicofisico. Fondamentale quindi è la capacità genitoriale della coppia e non quella generativa: la sterilità non assume più il significato di “malattia”, ma diventa una crisi di vita, una ferita che la coppia ha affrontato e che permetterà di entrare maggiormente in empatia con la ferita dell’abbandono subita dal bambino. L’elaborazione del lutto della propria incapacita’ generativa è un passaggio fondamentale nella realizzazione di quell’incastro magico che permette a tutti di sentirsi speciali gli uni per l’altro. Solo grazie all’adozione la coppia diventerà mamma e papà e solo grazie all’adozione il bambino avrà una mamma e un papà.

Nell’adozione tutto gira intorno al bambino, al suo vissuto, alla sua storia traumatica che andrà accolta e raccolta da due genitori che siano “compiuti”, che abbiano elaborato le proprie fragilità e fatiche e che possano dedicarsi a guarire le ferite sanguinanti che il proprio figlio porterà con sé. Si parte dal bambino e diventa quindi più facile comprendere come mai alcune volte alla coppia venga consigliato di attendere prima di presentare la propria disponibilità: c’è un tempo per desiderare il proprio figlio, un tempo per piangerlo ed un tempo per arrivare a desiderare un figlio generato da altri. Non come ripiego o ultima chance, ma come naturale compimento di un percorso di maturazione ed elaborazione, dove i propri bisogni fisiologici sono stati superati per lasciar emergere un nuovo modo di pensarsi genitori. Sicuramente il percorso dell’adozione è più impervio, essere oggetto di una indagine psicosociale è difficile da comprendere e da accettare, l’idea di costruirsi un ruolo genitoriale ancora prima di sapere quando e da dove arriverà il bambino ha quasi dell’impossibile, attendere mesi o anni l’arrivo di quel figlio sconosciuto sembra un ostacolo insormontabile… eppure ogni giorno una coppia sente che è arrivato il momento per mettersi in gioco e far confluire tutte le sofferenze affrontate fino al giorno prima in un progetto di genitorialità più ampio.

La PMA e l'adozione possono dunque convivere? Nello stesso momento no. E non perché esistano dei divieti legislativi, o perché i medici del Cento di PMA o gli operatori del Centro Adozioni abbiano l’autorità per impedire l'una o l’altra scelta. Semplicemente perché ogni bambino è unico e ha il diritto di essere desiderato e pensato per quello che è. Non sono dunque ragioni di ordine pratico ma psicologico, che pertengono al modo in cui si sta pensando al bambino e a se stessi come genitori.

                                                                                                                                                                       

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Data di pubblicazione: 
Martedì, Ottobre 27, 2020

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