Autore: 
Flaviana Coviello, psicologa e psicoterapeuta - Gaia Cipollaro, psicologa

Il primo incontro tra i genitori adottivi e il bambino a loro abbinato è sempre un momento intenso, ricco di emozioni per tutti i protagonisti dell’evento. Per la prima volta si guardano, si osservano, ciascuno con un carico di emozioni molteplici e diverse: nel bambino, la paura per la novità, lo sbigottimento nel trovarsi di fronte adulti sconosciuti dai tratti somatici diversi che spesso parlano una lingua strana, e il timore nell’affrontare un nuovo cambiamento radicale nella sua breve esistenza; nei genitori, la vista di quel bambino fa nascere in loro la dimensione della genitorialità tanto attesa e desiderata, la gioia di considerare terminata una fase del percorso adottivo e l’inizio di un cammino familiare.

E’ un momento in cui nessuno conosce cosa accadrà, ma entrambi, genitori e bambino, sono ansiosi di cominciare un cammino ignoto, ricco di speranza e di aspettative.

L’incontro con il bambino è spesso immaginato dalle coppie, come un momento di grande condivisione affettiva, quasi di “amore a prima vista”. Eppure la visione romantica di questo evento richiede ai genitori di confrontarsi inevitabilmente con la dualità tra bambino ideale e bambino reale, l’uno sognato, desiderato, spesso rappresentato bello e sorridente, l’altro presente davanti a loro; l’uno dovrà svanire, l’altro chiede loro di essere pronti ad accoglierlo con il suo bagaglio di esperienze, di dolore. Occorre, inoltre, tenere ben presente che spesso il bambino non viene adeguatamente preparato o addirittura ignora del tutto l’arrivo dei genitori adottivi, che sono dei perfetti sconosciuti per lui, e che di lì a qualche ora dovrà affrontare, ancora una volta, un nuovo e drastico cambiamento nella propria vita.

Il più delle volte la coppia ha scarse informazioni circa la storia del bambino, degli eventi che lo hanno portato all’attribuzione giuridica di adottato; così, spesso, si tende ad attribuirgli la patente di bambino abbandonato, senza soffermarsi o approfondire cosa si celi dietro tale termine e senza considerare quali sofferenze siano state affrontate dal minore per accettare e convivere con tale segno distintivo.

Proprio su questi due aspetti vogliamo soffermarci per approfondire con la coppia il loro vero significato.

Cosa ha perso un bambino adottato?

La perdita dei genitori biologici, indipendentemente dal fatto che questi lo abbiano abbandonato o non siano stati capaci di accudirlo, comporta la scomparsa di figure significative adulte cui ogni bambino, proprio per l’età e il bisogno di essere protetto e accudito per sopravvivere, si affida e dalle quali si aspetta di essere tutelato. La scomparsa dei genitori costituisce la perdita delle prime figure di riferimento sociali ed affettive necessarie al bambino per la crescita e lo sviluppo. L’allontanamento dai genitori comporta anche la separazione dai parenti biologici: i nonni, gli zii, i cugini.

I nonni testimoniano la storia della costruzione della famiglia del bambino, il legame tra i genitori e la sua nascita come esito della continuità familiare cui i nonni consegnano il testimone. Ancora, i nonni, gli zii e i cugini, costituiscono una rete che sostiene le relazioni affettive all’interno della famiglia e rappresentano il legame tra le generazioni all’interno del quale ogni bambino si nutre di calore e protezione.

Con la scomparsa degli adulti familiari si verifica la scomparsa della propria immagine e status di figlio.

Quando viene a mancare l’abbraccio materno che lo avvolge, e lo sguardo del figlio non può più perdersi nello sguardo materno, che lo rassicura e che costantemente gli comunica e rafforza la sua identità e il suo status di figlio, allora il bambino percepisce che non c’è più posto per lui nello spazio mentale dei genitori né uno spazio fisico reale all’interno della famiglia.

Ogni bambino, inoltre, si sente figlio dei propri genitori perché questi gli hanno attribuito un nome, grazie al quale il bambino si percepisce come se stesso e non un altro. Pertanto si raccomanda di lasciare sempre il nome di battesimo come forma di rispetto per il bambino e per i suoi genitori biologici che lo hanno scelto. Si tratta di una comunicazione che i genitori trasmettono al bambino per rassicurarlo che non c’è alcuna modalità finalizzata a cancellare la sua storia pregressa.

Lontano dalla famiglia di origine

Una volta lontano dalla famiglia di origine, la percezione di sé come figlio perde consistenza fino a sbiadire del tutto e a trasformarsi in una entità vivente, senza alcuna differenziazione dagli altri bambini.

Due aspetti meramente psicologici vengono a determinarsi in seguito alla perdita dei legami familiari: la sfiducia negli adulti e la mancanza di aspettative verso il futuro.

Per quanto attiene alla sfiducia negli adulti, il bambino si mostra disilluso verso di essi perché non tutelanti e non in grado di mantenere le promesse di protezione e accudimento; ad un tratto sono scomparsi, si sono dimenticati di lui.

L’avvicendamento delle figure istituzionali in relazione con lui, non possono sostituire legami fisici, sensoriali ed emotivi già esperiti dal bambino in ambito familiare.

I bambini abbandonati non sognano più. Spesso attendono l’arrivo di un familiare progettando una nuova vita in famiglia, ma, nel momento in cui si rendono conto che ciò non accade, smettono di aspettare e di prepararsi per tornare in famiglia; il futuro non li riguarda, cessa di esistere.

Come può proteggersi un bambino?

Come può sostenere e affrontare una realtà così dolorosa un bambino affettivamente solo ed emotivamente impossibilitato ad esternare sensazioni, paure, incertezze?

E’ necessario diventare autonomi, spazzare via la relazione di dipendenza dall’adulto in quanto questi non si mostra capace di rassicurare e di incoraggiare, e allora il bambino comincia a consolarsi da sé: il contenimento e la protezione derivano principalmente da atteggiamenti confortanti come il dondolarsi, il cullarsi e l’abbracciarsi in solitudine.

I bambini molto piccoli spesso smettono di crescere e restano immobili nella culla, i bambini più grandicelli, imparano molto presto ad accudirsi da soli, e mangiare, vestirsi, lavarsi diventano manifestazioni di adultità. Preferiscono star soli e interagire con un oggetto qualsiasi anche malandato ma che appartiene solo a loro.

Si verifica, dunque, “un’autosufficienza onnipotente che porta a disconoscere e a negare i propri bisogni”. (Majocchi, 2010)

Molto vicina all’autosufficienza forzata si trova la manifestazione di iperadattamento che porta alla costruzione di un falso Sé: il bambino è spinto ad adattarsi e a soddisfare le richieste degli adulti che lo hanno in carico, così come spesso sono invitati a soddisfare le aspettative della coppia di adulti che dovrà chiamare genitori.

Il percorso di adattamento alle regole dell’istituzione prima, e a quella dei genitori adottivi dopo, porta il bambino a reprimere l’accesso alla coscienza della espressione dei suoi bisogni inascoltati e non riconosciuti dagli adulti, può negare emozioni dolorose in quanto disdicevoli per il mondo esterno, può minimizzare l’angoscia provata per quanto accaduto e mostrarsi accondiscendente, obbediente e sorridente ogni volta che le circostanze e gli adulti lo richiedano.

Alla lunga il bambino troverà difficile dare spazio e voce alle proprie emozioni e distinguerle da quelle esternate per compiacere gli altri.

Un altro meccanismo di difesa messo in atto dalla maggior parte dei bambini “abbandonati” è quello dell’attribuzione di colpa a se stesso per quanto accaduto: troppo complicato l’evento abbandonico di cui è protagonista per comprendere le dinamiche, le leggi, le decisioni improvvise e impreviste da parte di adulti sconosciuti. Bisogna attribuire all’evento traumatico un senso e un significato per essere affrontato. Ed ecco che il bambino si auto-convince di essere stato la causa di quanto accaduto, ritenendo di aver commesso qualcosa di grave tale da portarlo all’allontanamento dalla famiglia e di essere stato rifiutato; “immagina se stesso come colpevole di qualcosa e di dover sempre riparare per ottenere attenzione e affetto” (AA.VV. 2008).

Ecco perché tantissimi bambini sono restii ad affrontare la nuova vita con i genitori adottivi, ecco perché spesso rifuggono da qualsiasi compito loro affidato e rifiutano carezze e piccole attenzioni; questi e altri atteggiamenti esprimono una valutazione di sé negativa che va sotto il nome di bassa autostima. E’ quindi possibile immaginare le comprensibili emozioni di smarrimento, angoscia e paura del bambino al momento dell’incontro, per il quale il più delle volte non è stato adeguatamente preparato e informato di ciò che da li a poco sarebbe successo.

La resilienza

Ciascuna delle difese descritte, sono espressione di una capacità di sopravvivenza denominata in psicologia con il termine resilienza, che implica la capacità di resistere ad un evento traumatico, di affrontarlo e di superarlo con esiti positivi.

La resilienza supporta il bambino a mantenere dentro di sé la speranza in un cambiamento, in una trasformazione positiva della situazione attuale della propria esistenza.

Va da sé che non tutte le dinamiche emotive fin qui descritte si verificano in ogni bambino con la medesima intensità e frequenza; e che non si verifica una simultaneità nella cronologia temporale o nel medesimo periodo evolutivo; per questo è opportuno che da parte dei genitori adottivi vi sia la consapevolezza del percorso traumatico attraversato dal loro figlio al fine di considerarne il vissuto come un binario grazie al quale essere in grado di dare una lettura contestuale ai molteplici atteggiamenti che possono verificarsi nel corso del tempo nella nuova famiglia. Diventa fondamentale, così, il primo incontro, i primi sguardi, tra bimbo e genitori, affinché i protagonisti possano leggere reciprocamente negli occhi desideri, aspettative, ma anche fiducia e speranza per un sereno percorso da compiere insieme.

Quando ho incontrato i miei genitori per la prima volta, loro mi stavano aspettando in un salottino dell’istituto dove vivevo. Io non ho ricordi chiari, ma mamma e papà mi hanno raccontato che quando sono entrato avevo lo sguardo di chi osserva attentamente. Li stavo scrutando, forse, per capire chi fossero e se potevo fidarmi e avvicinarmi.”

[dall'articolo "Nell’adozione: parole di un figlio" di Sara Leo -  Magazine online Genitori si diventa, 2017]

 

Bibliografia

AA.VV.( 2008) Portato da una cometa. Guida, Napoli.

Andolfi M., Chistolini M., D’Andrea A. (2017). La famiglia adottiva tra crisi e sviluppo. Franco Angeli, Milano.

Chistolini M. (2010). La famiglia adottiva. Come accompagnarla e sostenerla. Franco Angeli, Milano.

Fatigati A. (2010) Ti ho chiamato figlio. Edizioni ETS, Pisa.

Leo S. (2017) Nell’adozione: parole di un figlio. Rivista online Genitori si diventa

Majocchi L.M. (2010) Ho adottato mamma e papà. Erickson, Trento

                                                                                                                                                                      

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Data di pubblicazione: 
Mercoledì, Novembre 11, 2020

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