Autore: 
Antonella Avanzini

Mi accorgo ora, dopo tre anni che i miei bambini sono con noi, che devo cambiare il mio pensiero su di noi, sui genitori adottivi, sui figli adottivi. Ma questo cambiare idea mi da fastidio, perché mi da fastidio in primo luogo chiamare i miei figli “figli adottivi”, definire la mia famiglia una “famiglia adottiva”. Perché devo aggiungere questo aggettivo? Io sono uguale agli altri! I miei figli sono uguali ai figli degli altri! Non voglio che si distingua tra famiglia adottiva e famiglia biologica! Questo è quello che ho pensato sempre, che è presupposto al passo dell’adozione: potere sentire bambini nati da altri, bambini che prima erano figli di qualcun altro, tuoi figli in tutto e per tutto come un figlio nato da te.

A consuntivo di questi tre anni di vita insieme ai mei figli, devo invece rendermi conto che purtroppo no: noi non siamo uguali agli altri. E me ne sono resa conto soprattutto quando ho dovuto confrontarmi con le maestre e i genitori dei compagni di classe dei mei bambini. Perché nella quotidianità della vita scolastica, nelle anche banali vicissitudini di ciò che accade a scuola, mi sono accorta di quanto i miei figli fossero diversi dagli altri bambini, di quanto io mamma, sia diversa dalle altre mamme. I miei figli hanno trovato ambienti scolastici accoglienti, non sono mai stati aggressivi né con noi, né con altri, né con le cose. Sanno comunicare i loro sentimenti e hanno una sincera voglia di trovare il loro giusto posto , sia nel mondo dei piccoli che nel mondo degli adulti. Tutto bello. Tutto perfetto. Ma dietro e dentro a questi bambini c’è qualcosa che dentro e dietro alla maggior parte degli altri bambini non c’è. Hanno una scimmia sulle spalle, che devono portare, e a cui loro e noi dobbiamo badare. Come spiegare, in primo luogo a me stessa e in secondo luogo agli altri, che la storia di questi bambini non è passata, non è scomparsa nell’istante stesso in cui siamo atterrati alla Malpensa, ma è invece ancora tutta lì, e lì ci starà per sempre? E anche io, è solo ora, con la tranquillità che i tre anni ormai felicemente passati mi hanno dato, che riesco a vedere meglio e a capire meglio.

Ho sempre parlato apertamente dei miei bambini e della loro storia alle maestre, sanno chi sono e i motivi per cui ora sono nostri figli. Sono oramai quasi tre anni che anche le insegnanti, sempre le stesse, conoscono mia figlia, che ora ha dieci anni. La conoscono? E io stessa, la conosco? Ho sempre pensato che a scuola non era giusto adattare i programmi per i bambini adottivi. Ma ora mi chiedo invece se è meglio essere cauti, piuttosto che mettere alla prova questi bambini e fare loro superare a forza quelle prove. Pochi giorni addietro, si è celebrata anche a scuola la “giornata della memoria” del genocidio degli ebrei. Per le classi quinte viene proiettato un film, diviso in due parti, che i bambini vedono in due giorni successivi e che racconta la storia di Anna Frank. Appena usciti da scuola mia figlia subito mi racconta: "Mamma abbiamo visto il film di Anna Frank! Tu sai chi è? Hai visto anche tu il film?" Si, Natascia, credo di si, sicuramente ho letto il libro, anzi forse ce l’abbiamo ancora. "Eh … mamma … ti devo dire … è successa una cosa … ho pianto!"

Eravamo insieme a una amichetta sua compagna: per sdrammatizzare chiedo all’amichetta se anche lei aveva pianto. Mi risponde che lei no, ma quando ha visto Natascia piangere, si è preoccupata e allora quasi quasi piangeva anche lei. Lei non avrebbe pianto per Anna Frank, avrebbe pianto per la sua amica di classe. Mia figlia invece ha proprio pianto per Anna Frank. Perché mia figlia cosa vuol dire essere prigionieri in un posto, sa cosa vuol dire. Guardare il mondo da un posto chiuso, potendo vedere solo briciole di quello che c’è fuori, sa cosa vuol dire. Perché mia figlia cosa vuol dire essere senza niente da mangiare, lo sa cosa vuol dire. Perché mia figlia avere amici, parenti che scompaiono, che ci vengono tolti e di cui non si sa più nulla, sa cosa vuol dire. E’ stato un bene vedere quel film per mia figlia? Non lo so. Ma credo che un male non sia stato. Ha condiviso la sua storia, il suo dolore. Per un pezzettino ha fatto i conti con se stessa.

Al colloquio con la maestra per la consegna delle pagelle, la maestra era preoccupata. Per la prima volta anche lei ha visto davvero, anche lei ha visto quella scimmia che Natascia ha sulla spalla. Si aspettava forse qualche parola da parte mia, di rimprovero o di disappunto per avere fatto vedere quel film a Natascia, senza avercelo comunicato prima; in effetti noi non sapevamo niente. Era sinceramente dispiaciuta che la bambina avesse sofferto così tanto da piangere disperatamente. Per la prima volta anche lei ha visto. Ha visto come un evento in fondo abbastanza banale - di routine in un anno scolastico che prevede gite, laboratori, lezioni, e intervalli di gioco - può far gridare quell’animale invisibile e silenzioso che è dentro Natascia. La maggior parte dei bambini quell’animale non ce l’ha, quella bestia così potente, non ce l’ha. E forse per la prima volta ha capito, che io non ero una mamma poi così apprensiva, come altra volta mi aveva definito. Perché mi preoccupavo di alcuni comportamenti di cui ero venuta a conoscenza che accadevano in classe, e che non ritenevo idonei. Ha capito finalmente la mia paura, perché ha visto come un episodio in fondo “normale” per gli altri bambini, ha invece avuto su Natascia un effetto esponenziale.

Come possiamo far capire alle maestre e a tutti, senza cadere nel melodrammatico, nel compassionevole, quello che i nostri bambini hanno dentro? Le persone che ci stanno attorno - così come i bambini e le maestre che hanno ascoltato la storia di Anna Frank - ascoltano quello che possiamo dire dei nostri figli, quello che raccontiamo, ma non riescono a capire cosa significhi veramente. Una mamma, una maestra, può comprendere per esempio il disagio di un bambino se i genitori si sono separati. Capisce il dramma di un divorzio, di una separazione, di un bambino che vive in mezzo a due genitori che litigano e si odiano. Ma non può capire i drammi che hanno toccato i nostri bambini, perché sono troppo lontani dal loro mondo vissuto.

L’altro mio figlio ha iniziato la prima quest’anno. C’è nella classe un bimbo manesco che “picchia” quotidianamente. Ascolto le quotidiane lamentele di mio figlio. Gli chiedo di difendersi almeno a parole, visto che una difesa fisica per mio figlio, molto più piccolo e magro dell’altro bambino, è pressoché impossibile! Mi risponde che lui non gli può dire niente, perché ha paura. Parlo con le maestre per sapere se quanto racconta mio figlio, in effetti corrisponde al vero. So comunque che è vero, perché ascolto quotidianamente anche le lamentele delle altre mamme della classe. La maestra mi conferma che si, mio figlio le prende. Chiedo di trovare una soluzione tutti insieme. La risposta è che insomma, bisogna capire, aspettare, che il bambino manesco si assesti, perché è un bimbo i cui genitori si sono separati e quindi in questo momento è un po’ scombussolato. Io posso capire. Che picchiarsi tra bambini di sei o sette anni non è poi un dramma così sconvolgente. Un certo contatto fisico può essere a volte anche un modo per conoscersi.

Ma come faccio a spiegare alle maestre, alle altre mamme, a far capire loro che la paura di esser picchiato, per mio figlio ha tutta una valenza diversa. Che mio figlio, ha subito la violenza di famigliari alcolizzati durante il suo primo anno e mezzo di età, nella famiglia di origine. Che mio figlio ha subito fino ai quattro anni, la paura della violenza dei compagni di istituto, che lo picchiavano, che gli rubavano il cibo. Come hanno da subito raccontato lui e la sorella più grande. Che ha subito la paura delle punizioni fisiche e psicologiche degli operatori degli istituti in cui ha vissuto, che chiudevano al buio negli sgabuzzini, che picchiavano e urlavano se facevi la pipì addosso o rompevi per sbaglio qualcosa, o non facevi bene il tuo lettino. Come posso spiegare alle maestre che quello che ha dentro mio figlio è una bomba a orologeria. E che non ha senso fare una gara tra mamme, a giustificare i diritti dei figli, misurando chi ha il figlio con il trauma più grosso. Ma come spiegare alle maestre che si sta giocando col fuoco. Che questo bambino tiene a bada la sua bomba attraverso un lavoro faticoso e costante, che ci vuole una bravura da vero equilibrista, che cammina ogni minuto di ogni giorno su un filo. Che la nostra famiglia si è attivata come le squadre emergenza dei telefilm, come le squadre investigative che setacciano al microscopio ogni indizio, per riuscire a neutralizzare tutte le micce che rischiano di accendere quella bomba, e che si sforza per arrivare in un domani, a disinnescarla definitivamente quella bomba. Come spiegare che ogni giorno, crescere questo bambino che ormai ha sette anni, significa confrontarsi con un bambino ri-nato a quattro anni; un bambino a cui per un anno intero dal suo arrivo nella nostra famiglia, è stato impossibile chiedere di fare qualunque cosa, perché scoppiava immediatamente in un pianto disperato; che c’è voluto un altro anno perché alle nostre richieste non si mettesse più a piangere, ma che almeno ascoltasse cosa dicevamo. Che ci sono voluti ancora altri mesi, perché ogni tanto, alle nostre richieste - per esempio di mettere a posto un gioco – ci ascoltasse guardandoci e finalmente facesse, una volta si e dieci no, quello che gli chiedevamo di fare.

Ora stiamo lavorando perché ogni volta che gli chiediamo qualcosa ci ascolti e si comporti secondo le indicazioni date. Come facciamo a spiegare alle maestre che i compiti li fa, che gli piace anche imparare, ma che non è possibile chiedere a mio figlio che tenga in ordine l’astuccio e ottenere che ogni giorno lo faccia. Per questo ci vuole ancora tempo. Io credo che i nostri figli debbano avere il diritto ad essere conosciuti per quello che sono, che quando qualcuno li guarda è giusto che veda anche la scimmia che si portano sulla spalla. Non dobbiamo nasconderla, perché se anche gli altri la vedono possono capire meglio i nostri figli, possono non sorprendersi di quello che sono , di quello che fanno. E’ con il lavoro di tutti, con la quotidiana attenzione affinché i nostri figli siano compresi, siano ascoltati per quello che sono, dentro la famiglia ma anche fuori, che forse potranno attraversare la loro vita, convivendo pacificamente con quella parte di loro stessi che ha devastato con onde burrascose la loro vita di bambini.

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Data di pubblicazione: 
Sabato, Settembre 16, 2017

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