Autore: 
Anna Guerrieri

Siamo all’inizio di un nuovo anno scolastico e la scuola si posiziona velocemente al centro dei pensieri di ogni famiglia. E come non potrebbe, è il luogo dove i figli trascorreranno una buona parte del proprio tempo, dove scopriranno ogni giorno nuove nozioni ma soprattutto lo faranno all’interno di quel gruppo fondamentale che è la classe, grazie alle relazioni che si creeranno nella classe. Lì si scopriranno in una dimensione sociale interagendo con i propri insegnanti e con i compagni. Attraverso queste le relazioni passerà l’apprendimento, saranno queste le relazioni che modelleranno le loro emozioni, i loro affetti e che contribuiranno a come vedranno sé stessi.

Possiamo pensare la classe (dalla scuola dell’Infanzia alla secondaria) come un luogo di transito, una terra di incubazione e trasformazione che i bambini e i ragazzi usano nel passare dalla famiglia alla società. La classe è una zona fisica ma è anche una dimensione temporale in continua evoluzione. Da li si parte alla scoperta del mondo circostante in cerchi concentrici sempre più vasti e di sé stessi nel mondo. 

Se pensiamo alla scuola come una soglia, un varco dal “dentro” della famiglia al “fuori” sociale comprendiamo quanto sia rilevante per chi arriva in famiglia con passaggi differenti dall’usuale come accade per chi è adottato o in affido. La scuola farà risaltare tutte le differenze, le evidenzierà con le sue regole, le sue strutture, le sue prassi, i suoi programmi. Questo accade inevitabilmente perché la scuola rappresenta la società dove si vuole entrare crescendo.

Al mondo delle relazioni sociali ci si presenta e se ne viene in qualche modo “interrogati”. La società chiede a tutti noi “Chi sei?” per poter poi chiedere anche e soprattutto “Chi vuoi essere?”. Non è un caso quindi che sia proprio a scuola (terra di passagio verso la cittadinanza piena della vita adulta, e dell’autonomia) che questo “Chi sei?” emerga potente e faccia si che i bambini si raccontino e raccontino la propria famiglia, la propria storia. Hanno bisogno di farlo, debbono poterlo fare perché è proprio la domanda implicita che avvertono entrando in ogni nuova classe: “Dicci chi sei e raccontaci chi sarai.”

Cosa significa tutto questo per una famiglia adottiva? Cosa comporta e cosa sollecita? Forse una delle paure più rappresentate dai genitori è quella di non trovare piena accoglienza per il figlio che porta sé stesso e la propria storia in classe. Ci si chiede se le maestre e i professori sapranno capire, se i compagni faranno la domanda sbagliata, se metteranno quella storia tra le storie della loro classe o se la respingeranno. Si pensa ai figli ma si pensa anche a sé stessi, perché, soprattutto quando sono ancora piccoli, non ancora adolescenti, i figli rappresentandosi rappresentano anche i loro genitori. Non è un caso che, particolarmente attenti, in questa fase, siano proprio i genitori che hanno accolto i loro figli da poco. Come verrà accolto questo loro nuovo figlio, che neanche loro conoscono e capiscono ancora, che quasi non ha le parole per raccontarsi e che non sa ancora nemmeno bene dove sia arrivato e soprattutto da chi sia approdato?

Che si tratti di adozione nazionale o internazionale l’arrivo in famiglia è un periodo particolare e sorprendente, dove non si sa ancora cosa si sia l’uno per gli altri ma al tempo stesso bisogna agire e fare come se già si fosse gli uni per gli altri esattamente quello che tutti si aspettano: una famiglia.

Ecco che normalizzare viene percepito come urgente e necessario (per mille ottimi motivi), parte di un processo che ha bisogno rapido di “portare dentro”, di costruire un’appartenenza che ancora non c’è. Normalizzare, allora, non è solo fare entrare tutta questa diversa storia che è l’adozione all’interno di un panorama quotidiano, ma diventa un sovrapporre rapido di paesaggi, di tempi, in un passaggio repentino da un prima ad un ora in cui lo scenario attuale sposta via di prepotenza tutto quello che c’era stato sino a poco prima. 

Quando serve tempo, sembra che il tempo sfugga, sia da recuperare. La percezione della perdita è invadente e non a caso si parla spesso di questo, di tempo perduto, di non perdere il tempo, di competenze perdute. I genitori sentono tutto il tempo perduto della vita non trascorsa assieme, come fosse stata vita non vissuta. Ma lo è, è stata vissuta invece, e c’è. E’ vita dei figli, nei loro paesaggi, nei loro scenari, secondo i loro codici. C’è e non è persa, neanche dal punto di vista delle competenze. E’ là ed è necessario riuscire a contattarla per sentirla come una riserva importante di capacità.

E’ in questa dimensione così piena di sensazioni ed emozioni che la scuola arriva, a Settembre e per tutti come un appuntamento ineludibile. Che si sia arrivati in famiglia ad Agosto o a Novembre o ad Aprile, il primo pensiero per le famiglie spesso è: E ora la scuola? Come affrontarlo? Come fare per rendere questo repentino passaggio (dal dentro al fuori) meno vorticoso? Più dolce, meno repentino?

Le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati (ma non solo) sono molto esplicite: il tempo c’è. Quando un bambino o una bambina sono appena arrivati in famiglia (qualsiasi sia il momento dell’anno) si possono aspettare alcune settimane prima di entrare a scuola (il tempo del periodo di maternità in effetti). Non solo, quando si è in età scolare, si può entrare in una classe non corrispondente a quella anagrafica (in genere un anno in meno ma può capitare di necessitarne anche due). Dipenderà dai vissuti dei bambini e dalla loro scolarizzazione precedente (come non ricordare che i bambini adottati internazionalmente vengono spesso da situazioni di differente, talvolta precaria, scolarizzazione o comunque da sistemi scolastici che non hanno le nostre stesse tempistiche?). Quando non si è in età scolare e soprattutto quando si è in quell’età di transito che porta dalla scuola dell’Infanzia alla Primaria è possibile – SE NECESSARIO – chiedere un anno in più alla scuola dell’Infanzia senza una certificazione ai sensi della L. 104.

Il tempo c’è. E’ un tempo necessario? Serve? O non sarebbe più utile entrare rapidamente in classe, agevolando la socializzazione, iniziando a imparare presto l’Italiano, sperimentando la possibilità di recuperare quanto non si potuto fare prima (disegnare, scrivere, …)? 

Proviamo a uscire da questa sensazione di perdita, da questa sensazione che il tempo si “perda” inesorabilmente perché tempo, in effetti, non si perde mai, il tempo passa, si vive. Quando i bambini arrivano in una nuova famiglia hanno bisogno di scoprirne le parole (anche quelli adottati nazionalmente). Hanno bisogno di entrare nelle parole, nelle storie, nelle trame di quella famiglia che stanno incontrando. Hanno ancor di più bisogno di iniziare a costruirne le nuove storie e le nuove parole. Raccontarsi non è mera questione di vocaboli, grammatica e sintassi, è molto più questione di senso e significati. Entrare in classe significa raccontarsi prima di tutto, poter dire “chi si è”, ascoltare chi sono gli altri. Come farlo se non si è ancora trovato un luogo (anche germinale) dove poggiare le proprie memorie? Le proprie percezioni? Scoprire i significati di ciò che è accaduto e accade? Se non si hanno parole condivise con genitori che ancora non si conoscono? E’ proprio per poter iniziare la scuola che serve un poco di tempo, per poter entrare in classe con una prima mappa di navigazione, una bussola per orientarsi. E’ vero per tutti i bambini adottati e certamente ancor di più per chi viene da mondi distanti, per chi – adottato internazionalmente – vivrà l’adozione anche come l’adozione di una lingua completamente estranea.

Comunicare significa poter comprende i segni e i simboli del linguaggio, ma più di questo significa comprenderne le tonalità, le voci, i suoni e i segnali corporei che questi accompagnano. Si ascolta una frase, si guarda una persona, si cerca di capire, ci si rispecchia, si entra in sintonia, ci si tocca, ci si respinge. Il fitto tessuto comunicativo di una classe è un mare di segni e significati. E’ li che si creano le storie, i racconti dei bambini e degli insegnanti, è li che si impara, in questo magma continuo di contatti e comunicazioni. E’ questo il mare da navigare e per poterlo fare servono tracce, carte nautiche, vele da orientare. E’ a questo che serve il tempo, prima di entrare in classe, per iniziare a comprendere il mondo nuovo che si sta vivendo. Sono solo i primi strumenti, il resto lo si vivrà assieme negli anni a venire. 

Data di pubblicazione: 
Lunedì, Agosto 26, 2019

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