Autore: 
Antonella Avanzini
 

La scimmia

In un mio articolo di alcuni anni fa, così scrivevo:

<< Io credo che i nostri figli debbano avere il diritto ad essere conosciuti per quello che sono, che quando qualcuno li guarda è giusto che veda anche la scimmia che si portano sulla spalla. Non dobbiamo nasconderla, perché se anche gli altri la vedono possono capire meglio i nostri figli, possono non sorprendersi di quello che sono , di quello che fanno. E’ con il lavoro di tutti, con la quotidiana attenzione affinché i nostri figli siano compresi, siano ascoltati per quello che sono, dentro la famiglia ma anche fuori, che forse potranno attraversare la loro vita, convivendo pacificamente con quella parte di loro stessi che ha devastato con onde burrascose la loro vita di bambini.>>1

Volevo spiegare che i nostri figli, che sono nostri figli per adozione, hanno una storia personale che pesa e li infastidisce, come può essere un dispettoso animale, che non solo da disturbo a chi lo deve portare con se, ma lo fa quando vuole, come vuole, con chi vuole e in modo più o meno impetuoso e nei momenti meno opportuni2Mi era piaciuta di più questa simbologia per definire il passato che i bambini che sono stati adottati hanno avuto, al posto di quella altrimenti utilizzata di “zainetto sulle spalle”, proprio perché lo zainetto è in realtà un peso inerte - lo si può controllare - una scimmietta invece no, fa proprio un po’ quel che vuole quando vuole. Come imprevedibile e differente è l’influenza che il vissuto precedente all’entrata nella famiglia adottiva, ha nella vita dei bambini e degli adulti che sono stati adottati.

Proseguendo nella similitudine, è però assolutamente necessario capire, che quella scimmietta non rimane necessariamente sempre e per sempre sulla spalla dei nostri figli. Può magari tornarci a volte, o giocare coi nostri figli fronte a fronte in un rapporto di reciproco confronto, ma non è obbligata a stare fissa per tutta la loro vita sulla loro spalla. Per quanto possano dipendere i nostri figli da quella scimmietta, sanno anche trovare la forza di spostarla dalla spalla e metterla in un altro luogo: un luogo dove anche altri potranno caricarsi dell’impegno di curare e accudire quell’animale.

Chi sono “gli altri”?

In primo luogo è importante rendersi conto che il bambino che diventa figlio per adozione, trasforma una coppia o una famiglia preesistente, entrando a farne parte in modo organico. Questo avviene in realtà sia nella famiglia non adottiva che in quella adottiva. Si realizza una “reazione chimica”, dove atomi separati si uniscono a formare un nuovo composto. Questa nuova molecola, sviluppa legami di interscambio sia tra i componenti al suo interno, sia creando legami e rapporti con ciò che è al suo esterno.

E importante sottolineare che da questo momento in poi, tutto quanto accade al singolo, non può essere svincolato da quello che accade all’organismo nel quale è incluso, ovvero la famiglia nel suo complesso. Tutto dipende da tutti, poiché ad ogni determinata azione corrisponde una determinata reazione sempre. E questa legge non vale solo per la fisica. La sorte del singolo sarà per sempre determinata anche dai comportamenti degli altri componenti la famiglia.

La famiglia adottiva crea ed è investita, quindi, da continui rapporti di interscambio, reali o culturali, in differenti ambiti:

  • -  nella prassi che attiene al vissuto della famiglia nella vita quotidiana, che significa oltre alle relazioni interne alla famiglia anche il confronto con la società (ad esempio con l’ambito scolastico e medico);

  • -  nell’ambito della ricerca pura, dove università e professionisti producono studi e analisi;

  • -  nell’ambito della rete di famiglie, che oggi come oggi è ben sviluppata sia tra persone che hanno adottato, che tra persone che sono state adottate, e avviene in ambito reale ma anche virtuale.

Associazioni e gruppi

In questi ultimi anni, l’osservazione della famiglia adottiva nei tre ambiti elencati, ha fatto emergere, a mio avviso (ma non solo mio), alcuni elementi di criticità, in merito alla tenuta e alla funzionalità della famiglia adottiva; criticità che a volte derivano proprio da un errato pensiero, che la famiglia adottiva ha su se stessa; un errato pensarsi che l’esponenziale sviluppo delle reti di genitori, ha paradossalmente a volte aiutato a realizzarsi.

In particolare modo, l’insistenza della famiglia adottiva a leggere i comportamenti dei propri figli come esclusivamente determinati dalla loro esperienzialità adottiva (cioè il pezzo di vita dei figli precedente all’ingresso nella famiglia adottiva), ha impedito che si capissero criticità e/o necessità esistenti e che ci si attivasse in tempi utili e/o con le corrette misure necessarie.

Queste criticità sono state messe in evidenza, con un meritevole e onesto lavoro di autocritica, da chi ha lavorato come sostegno alle famiglie adottive in modo massivo in questi ultimi decenni, tramite l’associazionismo familiare. E ha quindi visto e analizzato storie e vissuti di moltissime famiglie che hanno partecipato sia a incontri informativi, sia a incontri di gruppo partecipati da genitori adottivi, sia, in alcune associazioni, anche a incontri di, e con, figli adottivi.

Non di minore importanza, anche il confronto con le migliaia di genitori adottivi che si affacciano al mondo virtuale dei forum o dei gruppi facebook o whatsapp, alla ricerca di un supporto “emotivo” e informativo.

Sono nati quindi, partendo dalla esperienza virtuale, alcuni raggruppamenti di genitori o persone adottate che non si sono strutturati come effettive associazioni di volontariato ma in altre modalità, con denominazioni e configurazioni varie: 

  • dall’essere semplicemente gruppi social che si identificano con il nome del gruppo o del fondatore del gruppo, e che organizzano incontri anche nella vita reale mediante piccoli o grandi raduni;

  • a comitati o a gruppi che si interfacciano tramite whatsapp, in genere gestiti da una specifica persona.

L’esperienza delle associazioni di volontariato o promozione sociale nasce ormai decenni fa e può oggi raccogliere i contenuti e le analisi derivanti dalla lunga esperienza acquisita. Le associazione di volontariato composte da genitori adottivi (e ormai da qualche anno, anche alcune associazioni fondate e composte da persone che sono state adottate), nascono, in primo luogo, per supportare i genitori ad avere informazioni sulle procedure adottive e sulle possibilità di supporto post adottivo.  L’associazionismo familiare, diffuso in tutta Italia, annovera ormai decine e decine di associazioni che hanno trovato anche modalità di ulteriore sviluppo, tramite coordinamenti, con la finalità di rafforzare la rivendicazione di diritti e benefit, per le famiglie i genitori e i figli adottivi e i minori fuori famiglia, a livello sociale e politico.

Se le associazioni di volontariato puntano il loro focus soprattutto sull’aspetto informativo e culturale, o in alcuni casi anche su un mutuo aiuto strutturato nel quale sono coinvolti operatori con specifiche professionalità (psicologi ecc.), i gruppi che possiamo chiamare di seconda generazione, nati soprattutto a seguito del confronto virtuale, puntano il loro focus su un generico aiuto emotivo, dove la similarità dell’esperienza vissuta, permette di far sentire il genitore o la persona adottata meno isolato, di riconoscersi in una gruppo di simili; una ulteriore famiglia oltre la famiglia, all’interno della quale esiste chi lo può capire, e al di fuori della quale non c’è comprensione vera.

Il sollievo al disagio deriva dal rispecchiarsi nella stessa esperienza e nel trovare un appoggio incondizionato, come può essere quello di una grande famiglia allargata, nella quale i componenti del “clan” devono avere sempre e comunque il sostegno degli altri componenti, dove appunto l’altro “c’è” sempre e comunque al proprio fianco.

Spesso questi gruppi sono molto specifici: ad esempio di genitori che hanno adottato in uno stesso paese, oppure che si identificano per alcuni vissuti, come famiglie con grandi difficoltà (con figli che sono usciti dalla famiglia adottiva e sono o sono stati in comunità), oppure gruppi che sono composti solo da figli adottivi con difficoltà nei rapporti con la famiglia e immagino molti altri gruppi dei quali non sono a conoscenza.

A differenza delle associazioni di volontariato, dove i rapporti tra soci avvengono di persona e sono cadenzati nel tempo, i gruppi virtuali permettono un confronto quotidiano, che crea legami che vengono sviluppati in un rapporto pressoché continuo, che spesso produce un meccanismo di dipendenza. Occorre interrogarsi su quali siano le conseguenze nell’ambito della famiglia adottiva di questi gruppi e dove sta il limite tra aiuto positivo e aiuto negativo. Poiché spesso si rafforzano con i like e il contatto virtuale, che permette lo “sfogo di pancia”, modalità che possono rivelarsi deleterie e che invece di portare supporto realmente positivo, permettono azioni che provocano reazioni “intossicanti” il gruppo famigliare.

Meccanismi di narcisismo virtuale non aiutano a correggersi e a instaurare nuovi comportamenti positivi per la propria famiglia, ma possono invece consolidare attraverso l’appoggio espresso dai molti amici virtuali che vogliono in buona fede sostenerci, idee e comportamenti che hanno effetti negativi. Tornerò più avanti su questo, ma una conseguenza importante è quello di spostare il focus da dentro la famiglia, ovvero avere la persona “lì per noi” all’interno della famiglia, a fuori la famiglia, pensando che chi è davvero al nostro fianco sia al di là del rapporto familiare.

L’autocritica

Le associazioni hanno avuto la possibilità di confrontarsi con il vissuto di moltissime famiglie adottive, nell’ordine ormai delle migliaia, al di fuori del processo narcisistico che prevale nel mondo virtuale; attraverso un coordinamento di oltre 30 associazioni (denominato CARE, Coordinamento delle associazioni familiari adottive e affidatarie in rete), sviluppate in tutto il territorio italiano, ci si è confrontati con i vissuti reali delle famiglie. E attraverso il confronto con le strutture pubbliche e private, che si occupano a vario titolo di adozione (dalla Commissione Adozioni Internazionali al Ministero dell’Istruzione) è stato possibile toccare con mano i meandri burocratici che toccano il mondo adottivo. E’ stato quindi possibile, da parte dei responsabili del coordinamento, avere un quadro complessivo sull’adozione in Italia.

Esprimere un quadro generale è molto importante: perché permette di uscire da una visione che si basa sulla propria personale esperienza, e sul proprio modo di vivere e affrontare il percorso adottivo, che sono esperienze tutte uniche e differenti. Comprendere ed evidenziare invece fenomeni complessivi e comuni è fondamentale.

Se si espongono quindi analisi e tesi specifiche, queste non sono punti di vista personali, ma il frutto di un bilancio di decenni di confronto strutturato con le famiglie adottive.

Importante la presenza all’interno del coordinamento anche di associazioni di famiglie sia adottive che non adottive, così da avere un confronto con il mondo della genitorialità in generale e accorgersi di come fenomeni comuni non si possano attribuire in modo univoco alla esperienza adottiva.

Ed è quindi proprio la Collana editoriale di una di queste associazioni “Genitori si diventa” (membro fondatore del CARE e associazione essa stessa a carattere nazionale), che ha recentemente pubblicato due libri3, che possiamo considerare sia un bilancio di questa visione complessiva sul mondo delle famiglie adottive sia un fare il punto sulle modalità e disfunzionalità delle famiglie adottive, nella specificità dell’adozione italiana, e di come le famiglie adottive si confrontano tra loro e con il welfare italiano.

Una riflessione è sicuramente necessaria, perché una voce forte inizia a emergere nella rete di confronto, da parte di coloro che ritengono la loro esperienza e il loro vissuto familiare “fallimentare” e si interrogano sul perché questo accada. 

E’ chiaro che esistono situazioni limite, dove i traumi o le patologie o i comportamenti sono davvero insostenibili, inaccettabili, risultato di azioni terribilmente traumatizzanti per tutti ma a cui difficilmente si potrà porre rimedio mediante azioni positive. Ma vanno intese davvero come situazioni limite, molto rare, come ad esempio chi dopo pochi giorni dall’ingresso in famiglia del figlio, dichiara di non volerlo più.

La famiglia adottiva che fa i conti con la sofferenza

Ne nasce allora la seguente domanda: dove e come la famiglia adottiva apre le porte a un meccanismo potenzialmente dannoso per se stessa?

Una modalità è bene spiegata da Monya Ferritti, nel capitolo del suo libro intitolato “Il principio deterministico della disfunzionalità adottiva”, che è in gran parte dedicato a confutare le tesi espresse nel libro intitolato “La ferita primaria”, diffusissimo nel panorama delle famiglie adottive:

<< La conseguenza più pericolosa di questa ipotesi è la creazione di una categoria patologizzata di persone adottate che è destinata invariabilmente alla sofferenza. Si rischia di generare una pericolosa profezia che si autoavvera: i genitori adottivi sono scoraggiati dall’attivare con il figlio che hanno adottato un vero bonding o delle autentiche relazioni di filiazione, perché la ferita primaria si pone come un diaframma che impedisce il collegamento psichico tra il figlio e i genitori. La conseguenza di questo scoraggiamento inconscio potrebbe essere la mancata attivazione di un rapporto di fiducia fondamentale. Conseguentemente la sensazione avvertita di chi e stato adottato di non essere sufficientemente “nella mente dei propri genitori”, la quotidianità affettiva delle famiglie dove la prevalenza fantasmatica dell’aggettivo “adottivo” é prevalente sul nome “figlio”, la distanza psichica creata dalla non elaborazione profonda del lutto della sterilità o dalla fantasia che in un altrove esiste una madre alla quale è stato portato via il figlio o non ha potuto crescerlo, può generare nei bambini che sono stati adottati una sensazione di estraneità non verbalizzabile che si può manifestare con tutti quei comportamenti antonimi del figlio descritti dall’autrice, come l’attivazione di una relazione conflittuale con i genitori adottivi, espressa attraverso manifestazioni rabbiose, provocatorie e aggressive o, al contrario, mettendo in atto un comportamento adesivo con atteggiamenti eccessivamente responsabili e compiacenti. >>4

Spesso è più facile per un genitore scaricare da sé o dal proprio figlio un carico di disagio, dolore, disturbo patologico o no, e attribuirlo a quella parte di vita del figlio che si è svolta prima dell’ingresso del proprio figlio nella propria famiglia. Fosse anche solo per pochi giorni, anche nel caso di bambini adottati neonati, indirizzare ogni responsabilità a un ambito che non riguarda la attuale famiglia, ovvero che non dipenda dal genitore adottivo e dal figlio adottivo, è una narrazione che piace e non fa mettere in discussione.

Questa narrazione porta in sé più di un pericolo:

  • -  quelli messi in evidenza qui nell’estratto dal libro di Ferritti;

  • -  quello di il separare in due nuclei distinti – i figli e i genitori – la famiglia adottiva, fino al punto spesso di estromettere uno dei due elementi, rifiutando il figlio il genitore adottivo o viceversa.

  • -  quello di non interpretare correttamente le difficoltà dei figli, evitando interventi necessari (mio figlio è “rotto dentro” e quindi è inutile qualsiasi intervento) o viceversa patologizzare i comportamenti dei figli anche quando non hanno niente di patologico, per sollevare se stessi dalla necessità di accettare e confrontarsi con i propri figli per come sono;

    -  rimanere invischiati nel cortocircuito per il quale un figlio “rotto” ha quindi necessità sempre e comunque di essere “aggiustato”, magari non messo a nuovo ma almeno sottoposto a tagliandi, attraverso l’intervento continuo di un terapeuta: se voglio essere un buon padre e una buona madre devo perciò rivolgermi a un terapeuta affinché mio figlio venga preso in carico. Con buona pace dei  conti correnti, considerato che in Italia le regioni che prendono in carico, per terapia psicologica, in ambito del servizio sanitario nazionale bambini e ragazzi, sono pochissime; ma soprattutto spostando su altri, da parte del genitore, il ruolo di “testimone e accoglitore” del dolore del figlio. 

La narrazione del figlio adottivo irrimediabilmente rotto, è promossa non solo da gruppi di genitori adottivi, ma anche di figli adottivi, soprattutto da parte di chi ha avuto storie personali difficili nel rapporto con i genitori adottivi. La motivazione è, specchiata, la stessa del genitore adottivo: non è stato un mio agire e pensare, ovvero non a causa di mie azioni o del mio essere, deriva questo fallimento, ma da una ineluttabilità della condizione adottiva.

E collegandosi, il passo successivo ed evoluzione naturale di questo pensiero, è la contestazione della validità dell’istituzione dell’adozione in toto, opzione promossa da alcuni adottivi, figli e genitori, all’estero soprattutto ma oggi anche in Italia:

<< La madre adottiva, spiega però Newton Verrier nel suo libro, potrà solo essere una eccellente madre accuditiva. I bambini che saranno adottati potranno beneficiare di tutte le opportunità materiali e affettive offerte dalla famiglia adottiva. Tuttavia, saranno bambini che vivranno in una famiglia con la quale non hanno legami di sangue e che presenta un grave limite ontologico nella filiazione adottiva, ossia l’impossibilità di poter mai riparare la ferita primaria e di conseguenza porre rimedio alcuno all’immensa sofferenza psichica, caratteristica fondativa di chi è stato adottato. ... Tale svalutazione della madre adottiva collude pericolosamente con la autosvalutazione troppo spesso operata dalle stesse madri adottive su loro stesse. Newton Verrier amplifica le esperienze di delusione, di colpa e di fallimento per la maternità biologica mancata, per avere un corpo che non funziona e a causa del quale essere costrette a dover prendere il figlio di qualcun’altra per realizzare il proprio desiderio di maternità. Questo specchio è pericolosamente deformato e il quadro che restituisce ruota attorno a una ideologia che nega l’adozione. Ma l’adozione è o non è un altro modo, differente ma ugualmente dignitoso, di essere madri, padri e figli? L’adozione di un figlio è o non è un altro modo per creare un rapporto di appartenenza unica con un bambino, sebbene non unito da un legame di sangue? Tertium non datur. O il rapporto adottivo stabilisce una relazione profonda tra genitori e figli in grado di contenere tutte le problematiche legate al vissuto di abbandono e incuria dei figli, oppure l’adozione non esiste, non crea una nuova famiglia, e dunque non bisogna ingannare ulteriormente coppie desiderose di diventare famiglia e bambini e ragazzi in stato di abbandono, affermando che le famiglie adottive sono famiglie uguali alle altre, con pari dignità. Se non ci crea il legame di bonding, se il fantasma della “vera madre” aleggia ostinato come il convitato di pietra nella famiglia adottiva, occorre cambiare il paradigma della filiazione e definire diversamente la relazione genitoriale adottiva. Meno ipocritamente si potrebbe arrivare ad affermare che i bambini in stato di abbandono, che non possono ritornare a vivere con le loro famiglie di origine, possono crescere, se non in un istituto o casa-famiglia, in una famiglia che li accompagnerà unicamente nel loro percorso di crescita, come una famiglia solidale e vicina. Ma senza il legame profondo di filiazione.>>5

Quanto è importante che il genitore sia realmente in grado di accogliere il figlio adottivo nella sua complessità, davvero come figlio a tutti gli effetti? Come è possibile che questo processo si realizzi?

Una modalità la possiamo leggere in Ferritti:

<< Le madri adottive che si autodefiniscono – o vengono nominate – “mamme di cuore” non fanno altro che cercare un luogo fisico, dentro di loro, in cui contenere, allocare simbolicamente, il proprio figlio. Il cuore, quando viene raffigurato in forma grafica e stilizzata, è rappresentato come una forma vagamente contenitiva, sicuramente lontana dalla rappresentazione verosimile dell’organo umano, in un tentativo, di individuare, per concordanze parallele e metaforiche, un luogo convesso nel proprio corpo dove poter contenere il desiderio del figlio. Il luogo del contenimento (holding) non è solo un luogo fisico (l’utero), ma è anche un luogo simbolico (il cuore) o un luogo psichico (la relazione con il figlio). La madre esercita una funzione di contenimento nella misura in cui è capace di tenere salda la relazione con il figlio, accettando e accogliendo l’intera gamma di emozioni che il figlio esprime e agendo come la funzione di pensiero del figlio, cioè la sua connessione con lo stato mentale del figlio, restituendogli ciò che sente in maniera tollerabile (rispecchiamento) (Winnicott 1967 e Bion 1959). >>6

La richiesta, da parte dei genitori adottivi, di maggior sostegno e anche controllo da parte degli operatori e da parte degli enti, se da un lato è una necessaria e chiara espressione di sostegno, assolutamente indispensabile, pare a volte che faccia spostare l’attenzione delle coppie e dei genitori adottivi dalle loro responsabilità.

Paradossalmente, ci sono genitori che lamentano il fallimento della loro storia di adozione, avendo figli allontanati dalla famiglia, in comunità, che ritengono che tutto ciò dipenda esclusivamente dalla storia personale del figlio; storie che trovano ampio sostegno nei gruppi e nella rete virtuale.

Lo stare accanto

Come si diceva all’inizio, tutto è a causa di azioni e reazioni, che avvengono soprattutto nel qui e ora, perché nel qui e ora sono i nostri figli. Non comprendere quanto sia importante il qui e ora rispetto al prima, è la più importante delle trappole nelle quali cadono le famiglie adottive.

Un breve articolo di riflessioni di una persona che è stata adottata, spiega bene cosa intendo insistendo sul fatto che è la nostra azione o non azione, nella vita attuale dei figli, che ha importanza più di qualsiasi altra:

<< Ammetto, il sentire parlare di “figli rotti dentro”, pur comprendendo il dolore che annida tra una lettera e l’altra, mi stride, per il movimento di responsabilità che (apparentemente?) viene riversato principalmente o unicamente sui portatori di queste ferite, come potessero essere solamente soli a fronteggiarle. Non ho soluzioni, e non credo di poter immaginare la fatica fisica ed emotiva che può portare vedere un figlio dimenarsi nelle difficoltà, perciò non mi spingo a giudicare. Ma non posso non chiedermi se, tra i modi di stare accanto a questi dolori, si pensi a quanto sia indispensabile un lavoro su se stessi, in quanto persone e genitori, in quanto componenti di quella famiglia che ha visto saltar le proprie dinamiche. Perché non accade dal niente, spesso è difficile, incredibilmente difficile carpirne i segnali, ma ci sono. E i meccanismi, possono essere lavorati da tutti, non solo dai “figli rotti”. ... Rimane, a combattere il senso di impotenza, l’idea che il continuo mettersi in discussione, profondamente, costantemente, accettando di ridiscutere le proprie certezze infinite volte, capovolgendosi, sia l’unica strada, non per risolvere eaggiustare, ma per stare accanto, con la maggiore consapevolezza possibile.>>7

Lo stesso concetto dello stare accanto è ben espresso in "L'adozione una risorsa insapettata" di Guerrieri e Marchianò:

<<Avvicinarsi ad un ragazzo con l’intento di curare può non essere il giusto approccio, in fondo non si cura nessuno dalla propria vita. L’unico modo per essere funzionale al bisogno della vita di una persona è condividerla, normalizzarla in un mondo che normale non è e che per questo non può pretendere uniformità e standardizzazione.>>

 

La trappola che pretende figli perfetti e genitori perfetti

Se da un lato esiste la trappola per il genitore adottivo di pensare che i figli siano irrimediabilmente inadeguati a vivere una vita serena perché inficiati dalla loro ferita primaria, dall’altro lato c’è una corrispondente trappola nella quale cadono i i figli adottivi: se io ho problemi con la mia famiglia adottiva, è perché me ne hanno data una che non era adeguata alle mie esigenze.

Questo pensiero, autoassolve persone adottate adulte, (come peraltro persone non adottate adulte nel confronto con la propria famiglia), e impedisce loro di mettere in gioco se stessi in un lavoro di trasformazione e “cura” terapeutica di se stessi, se necessaria. Poiché vero è che se non accettiamo che esiste un problema - a partire da noi stessi per finire con il terapeuta che ci segue - e non accettiamo di lavorare su noi stessi, nulla potrà essere trasformato, migliorato, risolto. Superato.

Le famiglie che danno disponibilità ad accogliere un minore fuori famiglia in Italia o all’estero, ovvero che presentano al tribunale domanda per adottare un bambino, non sono “superfamiglie”, ma famiglie composte da persone né migliori né peggiori della media delle persone, e sono e restano un numero limitato. Con una enorme quantità di limiti. Ma questo è. Per costruire una famiglia adottiva occorre un immenso lavoro, prima durante e dopo l’ingresso in famiglia dei figli:

  • -  prima, quando questo insieme di famiglie viene scrutato e vagliato da qualcuno che cerca di capire quali di queste famiglie davvero non hanno le risorse (non ad essere genitori biologici, ma a diventarlo per adozione);

  • -  e sempre prima, quando queste famiglie devono essere aiutate a prepararsi veramente ad essere famiglia adottiva, una preparazione che non può essere di una settimana ma di mesi, poiché molteplici sono le “abilità” che questa famiglia (poiché non solo coppie ma anche famiglie con già altri figli spesso fanno domanda di adozione) deve sviluppare e acquisire;

  • -  durante, nel periodo tra l’essere stata dichiarata idonea e il momento nel quale davvero il figlio entrerà in famiglia, spesso lungo e difficile, carico di sollecitazioni che sfiancano la coppia e che spesso si riverberano anche nel periodo di arrivo dei figli: superato un primo momento di massima adrenalina, si cade poi in periodi di stanchezza fisica e mentale;

          -  dopo, quando i figli sono in famiglia, e le trasformazioni e le energie devono essere ai massimi livelli, per fare fronte alle esigenze dei figli e della vita nuova che stravolge e coinvolge.

Un lavoro di costruzione dentro e fuori di se, di relazioni interne alla famiglia e esterne alla famiglia, bilanciate su equilibri spesso difficili e su fatiche grandi.
Fatiche che vanno riconosciute, affrontate con coraggio, ma un coraggio che non pretenda, ma comprenda che il dolore non si può cancellare, ma in un qualche modo attraversare, accompagnati mano nella mano da qualcuno. Qualcuno che è nella famiglia. Perché in ultima analisi, è proprio a questo che la famiglia serve.

 

Dedico quanto ho scritto ai miei figli, che anni fa prendevo io per mano, ma che ora in un momento per me difficile, mi hanno dato la mano.

 

1 - Siamo uguali siamo diversi di Antonella Avanzini

2 - Il riferimento all'immagine della scimmia, in questo contesto, è da intendersi collegato al termine gergale usato per definire il peso di una dipendenza, così come fu espresso per la prima volta da William Burroughs nel suo romanzo La scimmia sulla schiena (Junkie, in lingua originale, 1953).

3 -  L'adozione una risorsa inaspettata di Guerrieri e Marchianò, Il corpo estraneo di Monya Ferritti

4, 5, 6  - Il corpo estraneo di Monya Ferritti

7 - Blog di Devi Vettori

Data di pubblicazione: 
Domenica, Febbraio 16, 2020

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