Autore: 
Prof.ssa Elisa Lelli
Vi racconto in questo articolo la mia esperienza come referente adozione in una scuola secondaria superiore, nella regione Toscana.

L’Istituto Elsa Morante- Ginori Conti è una realtà scolastica piuttosto complessa, poiché racchiude al suo interno quattro diversi ordini di scuola, ubicati in 3 sedi distanti tra di loro, frequentate da un’utenza molto eterogenea per estrazione sociale, origine e residenza anche fuori dal Comune di Firenze.

Qualche dato, seppur ad oggi parziale, per iniziare:

Alunni totali (64 classi) 1306

Plesso Morante (Professionale Socio Sanitario con corso diurno e serale, Liceo delle Scienze Umane e Liceo Economico Sociale)

638
Plesso Nicolodi (IEFP Operatore del Benessere ed Estetica, Acconciatura) 241
Plesso Ginori Conti (Tecnico biologico sanitario) 427
   
Alunni con BES/DSA/L.104- percentuale sul totale al 1.9.2020 38%

Alunni adottati/in affido/non accompagnati sul totale

(con esclusione del corso serale, relativo all’istruzione degli adulti) di cui con BES/DSA/L.104

1,8%

 

87%

 

Come è facile comprendere osservando le cifre e le percentuali, come istituto ci siamo strutturati molto presto, convinti che non si possa essere un po’ inclusivi o inclusivi a metà: o lo si è o non lo si è. Ciò non comporta un’accoglienza sregolata, bensì implica un approccio sistemico, formativo ed informativo condiviso, a partire dalla dirigenza fino ad arrivare all’ultimo membro del personale ATA.

La rete scuola-adozione-territorio

Nel mare magnum dei bisogni educativi, speciali e non, abbiamo “pescato” presto lo spunto di indirizzare le nostre energie (e le nostre attenzioni), anche verso il mondo delle adozioni, come richiesto dalle Linee guida ministeriali e, purtroppo, non sempre attuato nelle scuole secondarie di secondo grado.

Il primo step, nell’anno scolastico 2016-2017, in un’ottica di ricerca-azione, è stato quello di mappare la nostra utenza, chiedendo ai coordinatori di dare informazioni sugli alunni in adozione, affido o non accompagnati delle classi assegnate, con un focus sulle loro eventuali certificazioni di BES, DSA e L.104.

Le risposte fornite, unitamente alla presenza dell’argomento adozioni/famiglia/origini nei programmi dei corsi Professionale e Scienze Umane, hanno portato a galla l’esigenza di formare il Collegio in modo specifico e, al tempo stesso, di individuare delle buone prassi per affrontare questo delicato tema su cui, in tutta sincerità, alle superiori si parla poco o, meglio, meno, molto meno rispetto agli altri ordini scolastici.

Da dove iniziare? A chi chiedere per passare efficacemente dalla teoria delle Linee guida alla prassi della vita in classe? A volte le soluzioni più semplici, più a portata di mano, si rivelano essere anche le più efficaci: i genitori adottivi di due studentesse ci hanno fornito i contatti con l’associazione Le Querce in fiore di Sesto Fiorentino, con cui abbiamo instaurato una proficua collaborazione e con cui, unitamente ad altre istituzioni scolastiche, abbiamo creato la Rete Scuola-Adozione-Territorio.

A riprova di quanto detto in precedenza sulle scuole superiori, è utile dire che in rete vi sono istituti comprensivi, primarie, secondarie di primo grado e…solo due di secondo grado, ossia il Morante- Ginori Conti, di cui sono Referente, ed il professionale Saffi, due scuole “di frontiera”, con una popolazione scolastica composita e spesso difficile, ma con un’attitudine all’ascolto dei bisogni dell’utenza che realtà più blasonate, dati di riorientamento alla mano, non possiedono.

Referente per gli alunni adottati alle superiori: la mia esperienza 

Ho iniziato la mia avventura come Referente nel 2018, quando ero Funzione Strumentale BES/DSA, dopo aver ereditato l’incarico da una collega, mamma adottiva poi trasferita in altra scuola. Da principio è stato un salto nel buio, perché la formazione che avevo era poca ed i dubbi, operativi e non, tanti: fino a quel momento, infatti, mi ero occupata di adozione solo nei casi di BES o DSA certificati, il che voleva dire tagliare fuori un ventaglio di realtà ampio e complesso, non però, come ho scoperto dopo, necessariamente e potenzialmente problematico.

Mi sono venuti in soccorso gli altri Referenti della Rete, grazie ai quali ho compreso meglio difficoltà e necessità, a partire da quella di curare la transizione degli alunni adottati dalle scuole medie alle superiori, non tanto dal punto di vista amministrativo (di segreteria, per capirci), quanto piuttosto umano ed inclusivo: per questo motivo il primo grosso lavoro affrontato a quattro mani con la collega Elena Ubaldino del Saffi, con la Rete e per la Rete, è stato la stesura di un protocollo applicativo delle Linee guida per le secondarie di secondo grado, all’interno del quale sono contemplate sia questioni burocratiche sia le criticità per età degli alunni non precedentemente prese in considerazione. Mi spiego meglio con un semplice esempio: alle superiori è difficile avere ingressi di alunni in adozione internazionale (semmai vi sono casi di alunni non accompagnati), mentre è altamente probabile che vi sia l’insorgenza di DSA o BES di altro tipo prima non riconosciuti o vere e proprie crisi che, insieme alle famiglie, ci troviamo spesso ad affrontare senza la rete dei supporti presenti nella prima fase dell’adozione. Nel protocollo non ci sono prescrizioni, ma suggerimenti operativi, buone prassi evinte dal confronto e, soprattutto, dalle reali esigenze dell’utenza, in primis quella dei ragazzi.

Ecco, veniamo ai miei ragazzi, che sento miei per la presa in carico anche quando non appartengono alle classi in cui insegno (italiano, storia e latino): quali bisogni, quali difficoltà hanno manifestato? Quali hanno determinato il mio intervento? Chi lo ha richiesto? Per rispondere a queste domande ritengo opportuno elencare brevemente le situazioni in cui sono presente o chiamata ad intervenire, inserendo nell’elenco alcuni specifici ricordi ed alcune valutazioni:

Orientamento in entrata

In condizioni normali, non di emergenza pandemica, unitamente agli altri membri della commissione BES partecipo agli open day ed agli incontri di promozione dell’Istituto sul territorio per spiegare il mio ruolo ed i bisogni educativi che gli alunni in adozione, affido e non accompagnati possono incontrare alle scuole superiori.

In questa fase non sempre le famiglie si palesano come adottive, tuttavia vengono a conoscenza della presenza della figura Referente, della possibilità di interagirci fin da subito per curare al meglio l’inserimento nella nuova realtà scolastica, nonché dell’impegno che l’Istituto mette nel creare un clima veramente accogliente, per tutti e per ciascuno.

È, la mia come Referente, una presenza pleonastica durante l’orientamento in entrata? Sulla base dell’esperienza accumulata negli anni posso assicurare che non lo è e che, anzi, costituisce uno dei momenti in cui si gettano le basi per gli eventuali e futuri interventi, che tengo a precisare non sono tutti necessariamente relativi a situazioni di difficoltà.

Ricordo che qualche anno fa, dopo la presentazione del protocollo di accoglienza degli alunni con BES (di tutti i tipi), un padre mi venne a stringere la mano con gli occhi lucidi, per ringraziarmi; pensavo fosse un genitore adottivo, invece era un figlio adottivo, un ex studente che non aveva trovato, a suo tempo, una scuola capace, o anche solo minimamente desiderosa, di comprendere la sua storia: dopo il biennio, infatti, aveva avuto un periodo di crisi ed aveva raccontato in un tema la sua sofferenza, ricevendo in cambio non ascolto e comprensione, bensì l’invito a non piangersi addosso, perché alla fin fine “aveva avuto una gran fortuna ad essere stato adottato”. Non mi disse altro, ma i suoi occhi, oltre a confermarmi che i luoghi comuni sull’adozione sono ancora tanto e troppo diffusi, mi trasmisero tanta forza e la conferma della necessità di proseguire il percorso intrapreso.

Supporto ai Consigli di Classe

Statisticamente la maggior parte degli interventi di supporto ai Consigli di Classe, oltre al momento della stesura dei PDP, riguarda consulenze su casi di alunni non precedentemente riconosciuti come BES o DSA, che palesano difficoltà di vario tipo: alcuni, come già detto, nel passaggio tra le medie e le superiori o in quello tra biennio e triennio impattano contro il maggior carico cognitivo richiesto dalle diverse discipline, altri manifestano difficoltà emotivo- relazionali legate all’adozione in concomitanza con quelle adolescenziali; in entrambi i casi i docenti prendono in esame la situazione, raccolgono “prove” (verifiche, osservazioni etc.) che mi sottopongono, per valutare insieme se e come comunicare alle famiglie la necessità di un approfondimento specialistico o, più semplicemente, di un intervento di ascolto e supporto congiunto. Tale intervento può coinvolgere altre figure professionali, tra i quali lo psicologo dello sportello scolastico, i servizi sociali e gli esperti afferenti alla Rete Scuola - Adozione -Territorio.

Supporto ai genitori

Oltre alle situazioni precedentemente descritte, il supporto ai genitori viene fornito mediante una sorta di help line, prima in presenza, ora via mail, telefono o meet, in cui mi si richiede principalmente una mediazione con i docenti, soprattutto con coloro che toccano con le loro discipline alcuni dei cosiddetti argomenti attivanti, quelli cioè che possono gettare nuovo sale su ferite legate all’adozione mai del tutto rimarginate, ammesso poi che possano rimarginarsi. In questi casi, se i colleghi non hanno, per indole e/o formazione, il giusto tatto e la giusta empatia, vi è il rischio concreto di scatenare delle crisi, di riportare a galla emozioni che investono come tsunami perfino esistenze prima abbastanza in equilibrio, sia familiare sia personale. Ad onor del vero, ad inizio anno scolastico, assieme alle Funzioni Strumentali BES, siamo soliti presentare le classi ai Consigli, in modo da offrire dei ritratti abbastanza precisi dell’utenza ed evitare simili situazioni che, purtroppo, riusciamo a contenere, ma non ad evitare del tutto.

Le reazioni dei genitori, analogamente a quelle dei ragazzi, sono molteplici: alcuni attuano atteggiamenti iperprotettivi ed ipercritici nei confronti della scuola e chiedono perentoriamente un mio intervento di richiamo, altri, in special modo se hanno anche figli biologici minimizzano, come se il passato pre adozione non esistesse più in quanto, appunto, passato; quasi tutti accettano il consiglio di utilizzare l’episodio come spunto di riflessione, di crescita. Dei figli e loro.

In una formazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze ho sentito la definizione di docenti come tutori di resilienza: ecco, questo bellissimo e difficilissimo compito non si può, a mio avviso, assumere senza la collaborazione della famiglia, che deve a sua volta lavorare proprio sulla resilienza dei figli. Non è casuale, infatti, che la difficoltà maggiore che ho incontrato (ed incontro) non solo come Referente, ma anche come docente sia legata alla mancanza di cooperazione o, peggio, all’insorgenza di ostilità da parte dei genitori adottivi, i quali spesso, di fronte a problematiche di vario tipo ed alla conseguente segnalazione da parte dei professori, si sentono attaccati nella loro genitorialità, per quello che è la mia esperienza, molto di più dei genitori non adottivi, sebbene da parte nostra non vi siano atteggiamenti in nessuno dei due casi giudicanti.

Ricordo, a tal proposito, l’incontro con cui ho comunicato ad un padre la possibile presenza di DSA nella figlia, poi confermati dai test diagnostici: non riteneva possibile il fatto di non essersi accorto delle difficoltà, in quanto genitore attento e molto presente; non riteneva possibile che quella ragazza bellissima potesse avere ciò che lui riteneva dei difetti. Usò proprio l’espressione “difettosa”, prima di uscire dalla stanza sbattendo la porta. Con il tempo, con colloqui quasi settimanali, alcuni anche mediati da professionisti,molte questioni sono state spiegate e la situazione è piano piano migliorata.

In questo caso specifico sono stata Referente adozione per un’intera famiglia, le cui vicende mi hanno resa ancora più consapevole dell’importanza del ruolo che rivesto e, non secondariamente, del ponte dialogico e dialettico casa-scuola per la presa in carico a 360° dei bisogni educativi dei nostri studenti.

Supporto ai ragazzi

Sia per l’età sia, penso, per il pudore di dover raccontare la propria storia davanti ad un’estranea, di fatto quasi nessuno studente di classi non mie chiede spontaneamente un intervento o un colloquio, salvo poi comprenderne l’utilità dopo essere stato indirizzato dai docenti, soprattutto se tale colloquio porta, alla fine dell’iter diagnostico con gli specialisti, all’individuazione di un disturbo dell’apprendimento fino a quel momento latente: per alcuni, infatti, dare un nome alle difficoltà di studio serve a sentirsi meno sbagliati, serve a riprendere fiducia in se stessi.

Nelle classi in cui insegno ed in cui ricopro il doppio ruolo di docente e referente, la situazione è ovviamente diversa, poiché la confidenza è maggiore e le occasioni per poter comunicare quasi quotidiane, visto che come insegnante di lettere passo almeno 6 ore con ciascuna di esse. A differenza del trend dell’Istituto, ho e ho avuto negli anni tanti studenti adottati, ma pochi di loro con BES/DSA/104, a riprova del fatto che non è detto, seppur altamente probabile, che la storia adottiva si porti dietro il pacchetto, più o meno completo e complesso, dei disturbi di apprendimento. Ad esempio, da poco ho visto diplomarsi brillantemente un ragazzo in affido prolungato, poi adottato dalla famiglia affidataria al compimento della maggiore età, con L.104, ma anche un’alunna adottata dall’India ed un alunno dall’Etiopia senza nessuna bisogno educativo speciale, seppur con qualche inciampo nel percorso scolastico in concomitanza con le fasi più critiche di costruzione della propria identità.

In questi momenti di pericoloso scombussolamento ci sono stata, con loro e per loro, come persona prima che come docente: li ho ascoltati, sgridati quando serviva e pure abbracciati; sono spesso venuta a sapere cose prima dei genitori (una gravidanza da lei, l’essere ricontattato via social dalla famiglia d’origine da lui) ed ho svolto un ruolo di mediazione; ho pianto con ragazzi, mamme e babbi più di una volta e non me ne vergogno, con buona pace della deontologia professionale che ci vorrebbe asettici e granitici dietro la cattedra.

Non so se mi ricorderanno, per dirla con le magistrali parole di Pennac in Diario di scuola, come uno di quei due o tre insegnanti che possono salvarti la vita, ma di sicuro io mi ricorderò del pezzetto di storia, adottiva e non, che hanno voluto condividere con me e li ringrazierò per avermi ricordato di quanto, a volte, noi docenti possiamo fare per frenare la caduta libera dei nostri ragazzi, quando le loro forze non bastano a tenerli in volo e quando i genitori, per x motivi, non sono in grado di offrire un paracadute.

Riflessioni a latere

Ho 40 anni e insegno da 14, equamente divisi fra scuola privata e pubblica. Ho avuto il battesimo del fuoco, fresca di Scuola di Specializzazione e con il pallino delle lingue classiche, in un Istituto tecnico fiorentino dove, dopo un coro di accoglienza per nulla lusinghiero da parte di una classe dai componenti, tutti maschi, poco più piccoli di me, ho capito che non avrei vissuto l’insegnamento come una missione, né con un semplice lavoro, bensì come un modo di essere, di vivere: ritengo, infatti, che se non hai qualcosa da dire come persona, non hai molto da insegnare, nel senso di lasciare il segno in chi hai la (s)fortuna di avere davanti; puoi spiegare benissimo, sapere tantissimo, ma se non ti metti in gioco, se non scendi dal piedistallo del tuo ruolo e dimostri un’empatia di una statua, beh, allora è meglio che tu cambi mestiere.

Questo modus vivendi della mia professione ha comportato, praticamente fin da subito, una ripartizione non equa del tempo dedicato alla scuola ed alla vita, poiché non sono mai riuscita a chiudere la pratica lavorativa al suono della campanella, reale o virtuale che sia. Certo, nel contratto degli insegnanti è calcolato il monte ore dedicato alla preparazione delle lezioni, delle interminabili riunioni collegiali, ma il mio è sempre stato volontariamente un monte un po’più alto. Perché? Potrei dire per un senso del dovere che mi schiaccia, come Atlante sotto il peso del Mondo, però la verità è che amo il mio lavoro, che è quello che sognavo di fare fin da bambina, quindi le ore sottratte al sonno (perché alla mia famiglia non posso sottrarle!) finalizzate a dare il meglio di me in classe non mi pesano. In cosa consiste questo meglio? Prima di tutto nel cercare di stabilire un rapporto con gli studenti che usi le materie come tramite, non come fine, per aiutarli a crescere, a comprendere ogni giorno qualcosa di più di se stessi e del mondo. Non sempre ci riesco, sempre ci provo. Non sono perfetta, né ambisco ad esserlo, tuttavia lavoro per migliorarmi.

I ragazzi mi dicono che sono molto esigente, severa, che li faccio studiare troppo, però riconoscono che trovo sempre il tempo per parlare, se c’è da parlare, per aiutarli, se mi chiedono aiuto. Non a tutti sto simpatica, né ho la pretesa di esserlo, ma anche i miei haters sanno che possono contare su di me in caso di necessità e nei limiti deontologici del mio ruolo, che non è quello di genitore né di psicologa: tengo a precisarlo. Ho insegnato anche nella scuola ospedale del pediatrico Meyer, dove la scuola è un’ora di normalità nel dolore delle terapie, quindi so bene quali sono i confini entro cui stare e conosco i danni del pietismo.

Negli anni mi sono trovata ad affrontare situazioni di ogni tipo, dalle gravidanze indesiderate alle dipendenze, dalle fughe da casa ai tentativi di suicidio, dai disturbi alimentari alla morte degli studenti, fino alle violenze, dentro e fuori le mura di casa. Mio marito mi dice che ho la sindrome da crocerossina e che attiro studenti problematici come lo ero io, ma la verità è che i ragazzi, tutti i ragazzi, parlano, anche di cose belle, con chi dimostra di volerli ascoltare.

Nel periodo del lockdown, per ovvi motivi logistici, ho dato ai miei studenti il mio numero di telefono ed accettato di comunicare con loro non solo via mail, ma anche via chat. Con la DAD mi sono entrati in casa ed io nella loro, senza nemmeno chiedere permesso. A differenza di molti studenti, ogni giorno mi sono vestita bene e truccata per le connessioni, come avrei fatto se fossimo stati in presenza, per rispetto: volevo che capissero che per me era importante vederli, seppur a distanza, con le difficoltà di contatto pari solo a quelle di una seduta spiritica.

La perdita di un pezzettino di quella privacy che ritenevo sacra, per me e per loro, ha reso più stretto il nostro rapporto, lo ha fatto evolvere. Il passo dal correggere un tema su Leopardi a un RAP sulla fidanzata è stato breve, ma felicemente irreversibile.

 

Data di pubblicazione: 
Martedì, Marzo 2, 2021

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