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Informazione del 21-04-2016



Titolo: Capisco chi crolla, mi è successo Ma non darò indietro mia figlia»
Fonte: Corriere di Bologna

BOLOGNA — Hanno aspettato tanto. Anzi, tantissimo. Hanno fatto corsi lunghi, dove i servizi sociali e gli psicologi hanno scavato per capire se sarebbero stati buoni genitori di figli che arrivano spesso da un altro mondo con un bagaglio leggero e una ferita pesantissima. Hanno dovuto «fare a botte » con il desiderio di avere un figlio biologico e poi metterlo in un cassetto, quel desiderio, e non tirarlo più fuori, perché quando arriva un figlio adottivo le energie da mettere in campo sono tante e la concentrazione deve andare tutta lì. Eccoli i genitori adottivi. Fragili come lo sono tutti i genitori, biologici o no. Forti come lo sono tutti i genitori, biologici o no.

Un disegno di SashaUn disegno di Sasha
LE PAURE — Caterina adesso ha 17 anni. È arrivata dalla Russia che di anni ne aveva 5 anni e mezzo e tutto il dolore che si porta dietro un’infanzia in un istituto. «La verità è che non solo noi abbiamo adottato lei, ma lei ha adottato noi», dice la mamma adottiva, Sara Costanza Naso, referente di Casalecchio per l’associazione delle famiglie adottive «Ci vuole un villaggio ». Sara non edulcora la realtà, non vuole far credere che sia tutto semplice, ma poi vince altro: «L ’adozione è un’esperienza emozionante, perché prende testa, cuore, viscere. È così per me, per Roberto, per Caterina». Le difficoltà ci sono, soprattutto quando il figlio adottivo entra nell’adolescenza, «ma non bisogna avere paura, anche se devo ammettere che anch’io e Roberto quando abbiamo iniziato, di paura ne avevamo un bel po’. Poi passa e pensi che questi figli hanno il diritto a un risarcimento».

TEMPI LUNGHI — Anche Chiara e Mauro hanno adottato un bambino russo. Quando hanno iniziato il percorso avevano 47 anni lui e 42 lei. Hanno dovuto aspettare tre anni e mezzo. Ma si sentono fortunati: «Abbiamo conosciuto persone che hanno atteso fino a 7 anni». Ma la pazienza non basta. Serve grande capacità di adattamento. «Con una foto e un riassunto della situazione sanitaria, si parte per raggiungere il bambino tanto desiderato. Noi siamo andati in Russia, che sembrerebbe un Paese simile al nostro, ma 8.000 chilometri di distanza comportano un altro modo di vivere, di pensare, di esprimersi: abbiamo dovuto affrontare problemi dovuti alla diversa interpretazione del linguaggio parlato e corporeo. Ci siamo adeguati a loro, alle richieste apparentemente assurde, per poter tornare a casa con il nostro bimbo». E con sacrifici, oltre che umani, anche economici: «Abbiamo dovuto fare tre viaggi per un totale di 60 giorni di permanenza all’estero e abbiamo speso circa 35.000 euro». «Se nessuno ti ha detto prima che questa cosa può anche arrivare a distruggerti l’esistenza, allora si capisce chi crolla e restituisce il figlio adottivo».

FALLIMENTO ALLE PORTE — Michela ha 42 anni e una franchezza disarmante quanto ammirevole. Con il marito ha preso in adozione due bambine: una, nel 2004, adottata a soli 8 mesi con l’adozione nazionale; l’altra arrivata nel 2010 dall’India all’età di tre anni e mezzo. È stata la piccola, lasciata troppo a lungo in un istituto del suo Paese, a portare scompiglio nella famiglia. «La piccola ha problemi di salute psichiatrici, non controlla la rabbia. È come uno tsunami che mette alla prova tutti noi, a maggior ragione la figlia maggiore che abbiamo invece adottato neonata in Italia dopo l’abbandono in ospedale. La coppia ha il diritto di sapere prima cosa succederà, la nostra famiglia è stata demolita e non sempre si è pronti». Michela punta il dito contro la burocrazia che allunga i tempi e lascia per troppo i bimbi esposti alle ferite che li hanno segnati, ma anche contro l’inadeguatezza dei servizi. «Il post-adozione è importante, ma non basta. E non bastano nemmeno le istruttorie preadottive sulle coppie, dovrebbero essere più approfondite». Eppure, se le si chiede se si è pentita, Michela risponde: «Non mi sono pentita, ma a un certo punto mi sono chiesta se i figli li volevo davvero o avevo solo bisogno di riscattarmi. Forse con la seconda figlia un pentimento c’è stato, ma non la darò indietro: ho però molta paura di non farcela da sola, per questo servono molti più aiuti ai genitori adottivi».

 

Fonte: Corriere di Bologna




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