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Raccontare l'adozione - Abstract di una relazione presso l'Istituto degli Innocenti

A cura di:  Anna Guerrieri
Data: 12-11-2009
Argomento: Scuola

Riflessioni frutto di un percorso su scuola e adozione elaborato all'interno dell'associazione Genitori si diventa onlus in incontri con genitori e percorsi di preparazione con insegnanti. Abstract di un intervento presso l'Istituto degli Innocenti.

Il titolo di questo seminario potrebbe venire trasformato da "Raccontare l'adozione a scuola" in "Ascoltare l'adozione a scuola". E come sottotitolo potremmo aggiungere: "Le emozioni che si provano in classe accogliendo i bambini e i ragazzi adottati e le loro storie". Ascoltare, accogliere la storia dei bambini e dei ragazzi adottati accende in noi adulti grandi emozioni e pensieri. Con questi dobbiamo avere a che fare se al centro di tutto sta il benessere di questi bambini e questi ragazzi. Per gli insegnanti si tratta di un viaggio che inizia cominciando a "camminare" dentro al mondo dell'adozione, scoprendone, in prima istanza, anche semplicemente le "parole". Proprio per questo sarebbe importante se la scuola riuscisse a prevedere l'esistenza della "famiglia adottiva" senza trovarsi a farlo precipitosamente solo in presenza di alunni adottati. Nella didattica quotidiana si fa riferimento spesso al concetto di famiglia: facendolo ci si potrebbe riferire anche alla famiglia adottiva, in questo modo si creerebbe lo spazio mentale nei bambini (ma anche in noi stessi) per prevedere la possibilità delle famiglie adottive agevolando così l'accoglienza di un futuro compagno o compagna adottati. Tuttavia anche solo citare l'adozione significa fare i conti con quello che la rende necessaria e inevitabile: l'abbandono. Sono tanti i motivi dell'abbandono, sono complessi e sono tutti motivi di adulti, che non c'entrano niente con la realtà dei piccoli. In classe è necessario, piuttosto che avventurarsi in spiegazioni palliative, dare ascolto ai bambini e alle loro preoccupazioni. Non si tratta mai di dover "fare lezioni" sull'adozione e sull'abbandono, per un insegnante è molto più importante "sapere" che "dire", e sapere in questo caso significa rispettare il passato del bambino adottato, comprendere che non è solamente identificato con la famiglia adottiva, che in lui c'è la presenza anche della famiglia di origine. In ogni figlio adottivo c'è un "prima" ed un "dopo" e tra questi il ponte è l'adozione.

Quando ci si racconta, quando si trovano le parole per dire cosa si è e cosa si è stati, si riesce a definire la geografia della propria anima. Si costruisce una mappa interiore, la si sistema con cura, si mette ordine insomma e si pongono le basi per voltare una pagina, per andare avanti. Raccontarsi talvolta è "uno stato di grazia", ma è importante che ci sia qualcuno disponibile ad ascoltarci e che sia pronto ad addentrarsi nel nostro paese interiore. Qualcuno che non ci respinga, che accetti di diventare testimone di quel che abbiamo da dire. Dove c'è un narratore deve esserci un ascoltatore, come per uno scrittore deve esserci anche un lettore. Ascoltare, però, è faticoso, ci impone di andare oltre noi stessi. Bisogna, ad esempio, avere la forza di non mettersi a rincorrere gli echi che le parole degli altri suscitano in noi, rimanendo così intrappolati nelle proprie emozioni, pensieri, paure, insicurezze, invece di riuscire a guardare la verità offertaci da chi parla.

Nei percorsi che abbiamo creato come associazione famigliare con la scuola sempre le insegnanti ci hanno parlato delle loro sensazioni per quel che i loro alunni raccontavano in classe. Sempre, quando si arrivava all'abbandono e le sue conseguenze, i racconti emersi in classe creavano angoscia negli adulti che ascoltavano, la percezione di non saper come aiutare i bambini, sia i bambini che raccontavano sia i loro compagni. E' per questo che ci piace chiudere questo abstract con la seguente proposta di riflessione:

" Cosa scatena avere davanti a sé un bambino abbandonato? A cosa richiama la storia di cui il bambino adottato è portatore? Forse in molti insegnanti suscita dolore. Come se la cava la maestra, dovendo pensare alla maternità non più nei termini talvolta fin troppo zuccherosi a cui siamo abituati ma invece come esperienza che si è conclusa con l'abbandono di un figlio? Si potrebbe pensare a questa chiave di lettura. E utilizzarla per capire perché in seconda elementare la maestra propone alla classe il percorso autobiografico e molto spesso incorre nelle gaffe che la maggior parte dei genitori adottivi hanno riscontrato. Si potrebbe approfondire il perché la maestra, anche una maestra considerata brava e sensibile, cade e cede alla spietata richiesta di portare ecografie, scarpette della prima infanzia, primi ricordi, mettendo in grande difficoltà i bambini adottati e i loro genitori. Ci si potrebbe interrogare sul cos'è successo. E provare a percorrere l'ipotesi che davanti al mare di sofferenza che un bambino adottato porta dentro di sé, l'adulto inneschi meccanismi di difesa, percepisca il dolore, non possa o non voglia riconoscerlo, e lo elimini. Dimenticando e rispondendo a quel dolore facendo finta di niente. Annullando una specificità così ingombrante e finendo per non tener conto dei propri sentimenti prima, e di quelli del bambino subito dopo." Di Monica Nobile, GSD Informa, Ottobre 2009.

 



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