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Contributi

Bambini nelle Comunità

A cura di:  Simona Villa
Data: 24-01-2007
Argomento: Minori

Appunti a cura di Simona Villa e Raffaella Ceci  tratti dalla relazionetenuta dalla dr.ssa Sonia Oppici durante il suo intervento presso lasezione di Monza in data 20 gennaio 2007.

I bambini generalmente arrivano nelle comunità su indicazioni delle  scuole o dei vicini di casa, che segnalando situazioni problematiche, fanno sì che le Asl aprano un fascicolo di approfondimento.
Può trattarsi di un allontanamento “consensuale” oppure di un allontanamento coatto dalla famiglia.
In caso di abuso viene contestualmente aperto anche un processo penale.
I bambini dovrebbero stare in comunità da un minimo di 6 mesi ad un massimo di 2/3 anni, il tempo necessario per ricostruire e dare un senso alla loro vita, ma di fatto questo periodo si allunga fino a 5/6 anni, e in qualche caso si arriva addirittura fino a 7 anni!
Le comunità sono luoghi di accoglienza di tre principali stati d’animo che derivano dai maltrattamenti e dagli abusi: la segretezza, la vergogna e la paura.
I bambini tengono dentro di sé il segreto del maltrattamento, segreto che generalmente si instaura proprio con la figura che li ha maltrattati, perché è come se l’avere un segreto con essa, li facesse sentire più importanti; questo segreto crea però un blocco psicologico che li fa chiudere in se stessi, è quindi compito della comunità prendere il trauma del bambino, lavorarlo, elaborarlo e trasformarlo in qualcosa di positivo per il futuro (quasi un lavoro di alchimia).
Le famiglie da cui provengono questi bambini, diventano dolore, trauma e violenza, e creano grosse tumefazioni dell’anima.
I bambini quindi hanno bisogno di accoglienza, comprensione, protezione e cure.
Bisogna accogliere il fatto che la violenza subita, per quei bambini, e la sofferenza che ne deriva, fanno parte della loro normalità, il dolore è talmente forte che per renderlo sopportabile, il bimbo lo normalizza, come se la sua situazione famigliare fosse normale: la violenza è normale, essere abusati è normale. Quando parla degli abusi (p.es. sessuali) subiti il bambino dice “il gioco che facevo con…”, quindi va prevista una ristrutturazione del linguaggio: il gioco è questo, quello invece non era un gioco!
I bimbi custodiscono il loro segreto e si isolano dagli altri, soprattutto dagli adulti, non permettendo loro di aiutarli, perché non vogliono perdere l’unico legame affettivo che conoscono, quello del maltrattamento e della violenza: se togli loro anche quello, togli loro tutto!
Hanno un’immagine buona del genitore che abusa, soprattutto si ostinano a difendere la madre, anche se fa loro del male: il separarsi da lei , agli occhi di un bambino, è molto peggio che stare con lei ed essere massacrato di botte. Il bambino, se separato da lei, entra in una situazione di disperazione che potremmo tradurre così: non posso “buttare” il genitore cattivo, perché “butto” anche quella parte di me che lo difende.
Però anche se i bambini tacciono, vi sono dei segnali indiretti che fanno presupporre qualche problema: si tratta di modalità inconsce di difesa. E’ accaduto per esempio che una bimba di 9 anni, dopo un anno e mezzo di comunità, si è concessa di essere arrabbiata con la propria madre, ma per non aggredirla., ha aggredito il proprio corpo che ha reagito con una tremenda orticaria che l’ha costretta a letto per una settimana. In genere il conflitto con l’amore primario (leggi: la madre) investe la pelle. Non a caso si dice: “sta male di pelle”.
Nel percorso che viene fatto in comunità, l’operatore cerca di lasciare e salvare quello che c’era di buono nella figura materna, per poter lasciare aperto il bimbo a nuove relazioni con altre figure, come potrebbero essere eventualmente quelle dei genitori affidatari o adottivi.
Il bambino che ha vissuto l’esperienza dell’abuso si sente in colpa per quello che è accaduto, in colpa per non essere riuscito ad impedirlo, si sente la causa del problema e  nella sua testa c’è un pensiero che ripete: se è accaduto è perché tutto sommato te lo sei meritato.
Per quanto riguarda l’abuso, ne esistono di due tipi, quello violento e quello seduttivo. Per assurdo quello violento è più “semplice” da affrontare, perché il dolore che si crea, è un dolore che il bambino può associare alla persona che glielo ha causato e da lì si può partire per lavorarci sopra. Se sono vittima di una violenza riesco prima a distaccarmi dal mostro.
Mentre l’abuso seduttivo è più pericoloso perché in una ragazzina fra i 5 ed i 10 anni provoca uno sfacelo mentale: l’abuso non avviene con dolore, sono agiti che rimangono a metà fra il piacere ed il dolore. La bambina si sente una privilegiata,  perché si crea un legame molto intenso con l’adulto, e se esiste anche questo speciale segreto da non dire alla mamma, significa che io sono la favorita, sono la regina della casa!
Bisogna far capire a questi bambini che gli approcci corretti degli adulti, non sono quelli che loro hanno ricevuto fino a quel momento dai loro padri, nonni, zii o conviventi della madre. Bisogna insegnare la distanza, la differenza fra la carezza e toccare, togliere la confusione.
Oltre a tutto il lavoro che va iniziato sul minore, la comunità lo assiste anche nel procedimento penale, necessario per mandare in carcere il colpevole.
Purtroppo la deposizione con il racconto dell’accaduto deve essere fatta assolutamente e solo per bocca del minore, altrimenti non si può fare nulla per rendergli giustizia, ma come si fa a dire ad un bimbo di 7 anni che se depone, suo padre finisce in carcere per 14 anni?
Allora gli si spiega, anche purtroppo senza esserne convinti (ma in questo caso si mente per una buona causa, funzionalmente alla tutela del bambino), che è vero che il papà andrà in prigione ma è anche vero, che facendo così, gli si sta dando l’opportunità di diventare un uomo migliore, potrà pensare a quello che ha fatto e potrà diventare un papà migliore.
Bisogna riuscire a legittimare lo stato di rabbia e convincere il bambino che tutto si può trasformare in qualcosa di positivo per la sua vita.
Un altro obiettivo della comunità è quello, dopo aver accolto la rabbia, di gestire prima il senso di colpa (perché hanno permesso che ciò accadesse, perché non è stato poi tanto brutto, perché ha avuto un po’ attenzioni, regali, ecc. – ricordiamo che il genitore per il bambino è buono per definizione) e poi la vergogna, che, essendo un sentimento molto più profondo e intrinseco, destruttura la personalità e non dà al minore nessuna possibilità di riscatto: questo porta ad una sicura crisi depressiva.
I bambini purtroppo pensano che questi approcci bruttissimi siano comunque una dimostrazione di affetto, pur brutto e doloroso che sia è pur sempre un po’ di affetto che altrimenti non riceverebbero.
I bimbi di fronte agli adulti , in merito a questi eventi, negano, rimuovono, si dimenticano,  ma si attivano in loro dei meccanismi di autodifesa che li aiutano a sopportare il loro terribile dolore entrano in gioco le cosiddette regressioni utilizzate come valvole di sfogo; come per esempio fare la pipì a letto a 12 anni .

Nel quotidiano sono “piccole simpatiche belve”, attrezzate alla vita, sfinenti.
Però, fatto il percorso atto a riattivare le risorse positive, sono ragazzi capaci di ripagare al 1000 per mille tutto il lavoro fatto su di loro.

I bambini che subiscono maltrattamenti, sono estremamente “vigili” (anche dopo il percorso), i traumi subiti alzano il livello di attenzione , sono acuti osservatori sempre in allerta in attesa di qualche attacco.
Il loro livello di paura e di vigilanza li porta a comportamenti perfettamente adeguati in ambienti non noti (come scuola, casa di compagni,..); tale livello inizierà ad abbassarsi nel momento in cui inizierà ad instaurarsi un rapporto di fiducia che dovrà costruirsi nel quotidiano, giorno dopo giorno, con la presenza e la forza di resistere, qualsiasi cosa facciano, qualsiasi comportamento abbiano, “io non mollo, resisto e ti resto accanto”.

I bambini maltrattati non riescono ad esternare la loro rabbia, perché anche quando ne provavano da non poterne più, non potevano dire nulla, altrimenti sarebbero arrivate altre botte!
La comunità fa in modo che la rabbia esca, insieme anche all’aggressività, perché solo così si potrà iniziare ad aiutare il bambino, e il primo mattone di questa ricostruzione, lo mette l’adulto che resiste di fronte a queste manifestazioni, questi ragazzi hanno resistito a cose terribili per sopravvivere ed ora tocca a noi resistere per farli rivivere.
La parola d’ordine quindi è RESISTERE !

Altri comportamenti spiazzanti per l’adulto e chiaro sintomo di disagio, possono essere la masturbazione (atto che viene usato dai bambini tra i 3 ed i 6/7 anche 8 anni, per tenere a bada la propria ansia che è troppo forte da sopportare, questo per loro è l’unico modo in cui riescono ad entrare in contatto con il proprio corpo e quindi con se stessi) e l’enuresi, che può ricomparire anche in momenti diversi.

Dobbiamo comunque ricordare che ogni regressione transitoria è come permettersi di fermarsi un attimo per ricaricarsi e poi ripartire.

Possiamo quindi concludere che le comunità hanno la funzione di trasformare il trauma, rendere il dolore sopportabile e ristrutturare l’anima del bambino.
Una volta riattivate le risorse positive, le risorse quelle buone, i ragazzi diventano “luce”, perché capaci di ottime nuove relazioni, si concedono e danno amore.


Risposte a domande:

•    Chiusura degli Istituti, perché non chiusura delle comunità ?:
La comunità è uno spazio di accoglienza, un luogo degli affetti, per accompagnare una transizione. In ogni comunità ci sono al massimo 6 utenti con 4 o 5 educatori, camerette a due letti, per dare un’impressione più simile possibile ad una famiglia.
E’ impensabile prendere un bambino (si intende fino ai 15 anni) traumatizzato e collocarlo immediatamente in una struttura familiare: l’amore in questi casi non basta.

•    Nella comunità dove lavora (ndr. Da 7 anni) ci sono stati casi di adozioni ?
Sì, e tutte le adozioni sono ben riuscite. Questo non significa che non ci siano problemi, ma i bambini sono assolutamente integrati nel contesto familiare ed hanno stabilito rapporti di fiducia.
Non ci sono stati fallimenti: tutto quello che doveva uscire è uscito prima.
Per questo è importante la relazione e l’accompagnamento della comunità nell’avvicinamento della famiglia adottiva: deve esserci assoluta chiarezza.

•    Sofferenza del bambino per il distacco dagli operatori della comunità
Il distacco è graduale: all’abbinamento i genitori adottivi o affidatari si recano in comunità per un’oretta, continuano un’ora al giorno, poi diventa un pomeriggio fuori, poi un week-end, quindi si tratta di un distacco appunto graduale dagli operatori, che ogni sera verbalizzano al bambino la necessità di una famiglia, l’esistenza di qualcuno che è lì solo per lui e non da dividere con gli altri bambini.
In effetti la domanda che fa il bambino dopo due pomeriggi che è uscito è “quando tornano?”

•    Delucidazioni sui tempi indicati:
Si è detto che i bambini dovrebbero stare in comunità da un minimo di 6 mesi ad un massimo di 2/3 anni. Il periodo ottimale non dovrebbe superare l’anno.
L’adottabilità, però, scatta dopo che è decaduta la patria potestà e questi tempi giuridici sono più lunghi di quelli necessari al bambino.
In ogni caso la comunità dopo i due/tre anni diventa disfunzionale per i bambini inseriti in età tra i 3 e i 10 anni, per bambini più grandi potrebbe essere funzionale al massimo fino ai 16 anni.
Esistono però casi in cui i genitori non perdono la patria potestà: in un abuso sessuale dimostrare il concorso della madre in quello che è accaduto è molto difficile, quindi la madre spesso è salvata (magari vittima di un marito violento, patologico).
La mamma mantiene quindi il diritto di visita al bambino, costretta in parallelo ad un percorso psicologico.
Le visite sono monitorate da un’educatrice. In questi casi in genere si ha un affido, in certi casi anche riusciti, addirittura con rientro presso la madre a 17 anni.
Nei primi 6 mesi / 1 anno di comunità con controlli si cerca di capire il livello di genitorialità della madre; se si stabilisce che la madre non è in grado di fare il genitore si stabilisce l’adottabilità e si interrompono le visite della madre. Il passaggio, però, non è così immediato: la comunità relazione che la madre non è adeguata. Allora l’assistente sociale la segue per circa 5 mesi per effettuare colloqui. Poi relaziona la comunità. Nel frattempo servono relazioni della psicologa o dell’esperta di psicomotricità.
Viene lasciata una porta aperta, viene dato un sostegno psicologico alla madre (che non può avere effetto immediato) e nel frattempo passa un altro anno.
Una cosa è l’umana compassione ed un’altra è la capacità genitoriale: così passano almeno tre anni per la dichiarazione dello stato di adottabilità, e come niente gli anni diventano 4 o 5.
Il bambino viene portato a riconoscere i limiti della madre, perché già dopo un anno l’operatore sa che si tratterà di un caso di adozione, quindi l’operatore inizia a preparare il bambino in quel senso (caso: bambino di 7 anni – dubbio degli operatori: gli facciamo salutare la madre visto che sarà l’ultima volta che la vede ? deciso per il sì l’ha salutata dicendole “Mamma stai tranquilla, vedrai che andrà bene sia per me che per te”).

•    I ragazzini più grandi vanno a scuola: ma che vita sociale riescono a fare ?
Dopo 5 giorni dall’arrivo nella comunità vengono inseriti a scuola (accordi con le scuole della zona). Possono invitare i compagni, anche a pranzo.
Tutti sono iscritti ad attività sportive fuori dalla comunità.
Hanno il cellulare in tasca, con la raccomandazione che siano sempre rintracciabili (base per il rapporto di fiducia).
Il tentativo è quello di dare loro una vita il più possibile normale.
Viene fatto loro un discorso molto schietto (dai 4 ai 15 anni): la scuola è il posto della prestazione, la scenata isterica te la concedo a casa.

•    I fratelli stanno nella stessa comunità ?
La prima parte di percorso la fanno insieme, poi si cerca di lasciarli in contatto pur inserendoli con coetanei (per es. due casette separate sullo stesso pianerottolo): in genere il fratello maggiore è adultizzato e se continuano a rimanere insieme continua ad accudire il piccolo. Quindi si diversifica la linea educativa, che è sempre pensata con cura.

•    Ma perché il passaggio da Istituti a comunità ?
Bisogna creare relazioni significative, cosa impensabile sui grandi numeri.
La comunità non è come un parcheggio, altrimenti riprendo il bambino come te l’ho lasciato. La comunità deve rendere il dolore sopportabile, quindi serve un’ipervigilanza nell’approccio.
Nell’andata a letto, per esempio, ognuno ha un suo spazio, un quarto d’ora a testa (e sta parlando di ragazzini grandi, ndr.)
Per i piccoli serve ancora più tempo per l’accudimento, per es. per il bagnetto.

Per concludere: i bambini hanno risorse che noi neppure immaginiamo: il dolore attrezza!






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