Contributi
L'aspettativa
A cura di: Mara SiragusaData: 02-04-2012
Argomento: Parlare di adozione
Pensare all’adozione mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti che la precedono.
Mi è tornato più volte in mente il termine aspettativa. E altrettanto rapidamente l’ho collegato alla definizione di ‘ansia’ data da un manuale di Psichiatria: “aspettativa dolorosa di un evento, di un accadimento, di un pericolo imminente, vissuta come preoccupante…”
Questo collegamento automatico mi ha portato a pensare a come,
nel momento in cui un uomo, una donna e, nel migliore dei casi, una
coppia insieme, decida di prendere in considerazione di adottare un
bambino, si possano mettere in moto le ‘aspettative ansiose’ su tutto
quello che una tale scelta può portare.
E già il termine scelta mi fa riflettere su
come l’adozione, rispetto ad una nascita naturale, implichi un processo
più attivo che i genitori debbano compiere per diventare tali.
L’idea diffusa, comune, di come certi momenti e situazioni si vivano per istinto può creare, a mio avviso, non poche difficoltà, in generale, a chiunque sia genitore, a prescindere da come lo sia diventato.
Mi sembra anzi che, in nome di un istinto di paternità o
maternità, si siano dette tante parole e fatte teorie che hanno finito
col creare una profonda discriminazione tra genitori naturali ed
adottivi e che finisce col creare, al contrario, una confusione che
riguarda, invece, a mio avviso, tutti.
L’aspetto più insidioso di tale confusione credo sia,
innanzitutto, la difficoltà ad ammettere quanto sia difficile “diventare
genitori” per tutti.
Il nome dell’associazione “Genitori si diventa” mi sembra infatti molto azzeccato e centrale nella questione che affronterò.
C’è l’idea comune, l’aspettativa appunto, da parte di chi decide
di avere un figlio, e, in molti casi, da parte del contesto culturale,
sociale, familiare, che la nascita di un bambino, come per magia, metta
in moto tutta una serie di meccanismi automatici per i quali una
persona, alla vista del nuovo arrivato, per istinto, come dicevamo,
sappia già come comportarsi, cosa fare, come gestire, come amare un
figlio. Con tutto quello che comporta il non sentire un tale istinto. E
aggiungerei, con tutta l’angoscia che può provare, chi non sente quello che gli altri pensano che si dovrebbe sentire.
E ancora, con il sospetto, a volte inconfessabile, nel caso del figlio
adottato, che quell’istinto non arrivi perché quel bambino non è un
figlio naturale.
Senza nulla togliere alla magia di quel momento, io lo penso come un incontro,
un incontro che porta in sé tutto quello che lo precede, e nel caso
dell’adozione, non è mai un pregresso semplice per vari aspetti, e che
quindi comporta un imparare a conoscersi reciprocamente e lentamente,
sia che quel figlio sia stato già con te per nove mesi, sia che l’attesa
e la ‘gravidanza’ siano durate anni.
Ho vissuto un’esperienza alla nascita del mio primo figlio che mi ha fatto riflettere.
Desideravo avere un parto naturale. Il mio travaglio, lungo, da
primipara, era durato diverse ore, ma non aveva comportato una
dilatazione tale da poter essere proseguito, perché cominciavano ad
essere registrati segni di sofferenza fetale. Con dolore fisico e
psichico il lungo travaglio si era concluso con un parto cesareo
urgente.
Sotto l’effetto dell’anestesia prima, e degli antidolorifici
dopo, erano trascorse molte ore, e, quando la mia mente ha cominciato a
poter formulare un pensiero, mi sentivo lontana, in un tempo di cui non
avevo cognizione e mi chiedevo dove fosse quel mio bambino che non avevo
ancora mai visto, ma che, evidentemente, era già nato.
Poi, finalmente, dopo varie richieste ed altre ore, me lo hanno portato. Ed io l’ho conosciuto, per la prima volta.
Mi è sembrato un bambino, con tutta la tenerezza possibile che ogni
bambino possiede, ho riconosciuto dei tratti familiari, è vero, che
forse, però, in quel momento, avrei riconosciuto anche in un altro
bambino, ed ho imparato poco per volta a sentirlo il mio bambino, in un processo che è cominciato in quel momento e che continua giorno dopo giorno.
Lì sì, mi ha molto aiutato il suo istinto di sopravvivenza,
il suo assaggiare per la prima volta il mio latte e il suo riconoscerlo
dopo, che mi ha fatto sentire come la persona di cui, lui, in quel
momento, sapeva, meglio di me, di avere bisogno per vivere.
Ed il pensiero che ho formulato in quel momento, con la
chiarezza di quegli attimi in cui senti di stare imparando qualcosa di
unico, è stato che io, quel bambino, lo avrei amato comunque, che si può
amare un bambino a prescindere dal fatto che sia il proprio.
Che il diventare genitori s’ impara poco per volta, e che essere
genitori non significa amare solo i propri figli, ma i figli in genere.
E che essere genitori è una condizione che si può avere a
prescindere dalla presenza o meno dei figli e, viceversa, che la
presenza dei figli non è una condizione che sancisce il diventare
genitori.
Ma questo è un argomento che richiederebbe molto spazio e tempo per avviare una riflessione comune e complessa.
Per tornare all’aspettativa, che nella sua definizione è invece: l’attesa, a proposito di un fatto vantaggioso a lungo desiderato, auspicato; quindi previsione, per lo più ottimistica,
io credo che una condizione di base, utile all’incontro,
possa essere la curiosità dell’altro, del figlio, del nuovo arrivato e
di noi stessi; un ri-conoscerci in questa nuova fase della nostra vita,
curiosità di come noi stessi ci rapportiamo a lui.
Curiosità e possibilità di rivisitazione, alla luce
dell’esperienza, di tutte le cose che ci eravamo immaginate, di quella
che è stata la nostra esperienza da bambini, le nostre nuove reazioni, i
momenti nella famiglia neo-nata, il nuovo legame che si crea col
partner, il rapporto che si stabilisce con gli altri membri della
famiglia e con la società.
In agguato può esserci l’idealizzazione, l’idea
che il figlio cambi in meglio la nostra vita, che la completi. Fatti
veri ed augurabili, ma ai quali si arriva non senza fatica, soprattutto
se, come succede nel caso dell’adozione, quel bambino ha già vissuto,
lunga o breve che sia stata, una esperienza di separazione con la quale
farà i conti per tutta la vita.
Perché in quei casi ci potremmo trovare di fronte a bambini che
contattano, poco o troppo, le loro emozioni, con i quali il tempo, la
comprensione, l’attesa, la tolleranza delle frustrazioni, sono elementi
ancora più indispensabili.
L’aspettativa riguarda certamente anche loro. E
i bambini adottati partono da un dolore, vicino o lontano nel tempo,
consapevole o no, che hanno già vissuto. Per loro qualcosa non ha
funzionato come per gli altri bambini; hanno dovuto accettare o dovranno
imparare che alcuni adulti non vogliono o non possono tenere i loro
figli o che alcuni luoghi del mondo, che pure li hanno originati, non
sono adatti per crescere i bambini. Io credo che questi concetti siano
già difficili da pensare ed accogliere per noi adulti e che, in un
bambino, possano essere laceranti.
Immaginare cosa possa essere l’aspettativa per un bambino che
ha conosciuto, in qualche modo, tutto questo, io non lo so.
Forse, di volta in volta, e di caso in caso, andrebbe compreso,
sperando che il desiderio dell’altro, di amare, di essere amato, sia
rimasto vivo in quel bambino, e si sa che i bambini hanno moltissime
risorse, e che non sia troppo coperto dalla compiacenza che può
rivestire fintamente la rabbia e il dolore che, probabilmente e,
fisiologicamente, quel bambino può provare e che non riesce a farci
vedere.
L’incontro può dunque non essere così idilliaco, come lo avevamo
immaginato e l’attrezzatura che ci occorre per procedere in un percorso
così speciale, deve essere in costante manutenzione.
Con questo termine intendo dire che gli aspetti dell’impotenza,
della delusione, del dubbio, dell’incapacità devono essere presi in
considerazione in modo continuativo.
Gli sforzi incredibili ed i fallimenti per arrivare a quel
bambino che pure tanto amiamo, ma che ci appare lontano, incapace di
esprimersi o con un modo suo di farlo, che ci appare oscuro ed impervio,
devono essere tenuti in conto e non causarci un avvilimento tale dal
farci desistere dal continuare a cercare un contatto.
Questi sentimenti non devono, però, neanche essere messi a
tacere dentro una parte di noi, liquidata come fallimentare, ma trovare
un loro spazio per esprimersi, fuori dai sensi di colpa e dalle
generalizzazioni. Si deve e si può trovare un modo per potercene
occupare.
Certo, se questo costante lavoro di manutenzione e riflessione sul
cercare di comprendere il senso delle cose che accadono, senza
sentirsene schiacciati, lo si fa in due, con il contributo così diverso e
complementare, degli aspetti maschili e femminili di una coppia, e con
l’aiuto di una famiglia intorno, il risultato è sicuramente più
arricchente e di sostanzioso per tutti, ed avvia un precedente
sul quale poter fare affidamento anche in futuro: quel senso di
famiglia che, senza negare le difficoltà, le può accogliere, e, nel
migliore dei casi, comprenderle ed affrontarle.