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Contributi

Adozione e l'intercultura a scuola

A cura di:  MariaLinda Odorisio
Data: 10-03-2007
Argomento: Scuola

Dal percorso "A scuola di adozione":Un bambino adottato internazionalmente NON è un bambino straniero.


Quando a scuola arriva un bambino adottato internazionalmente si tende a “confonderlo” con un bambino straniero tout court. E’ un’equivalenza facile e spiegabile: a volte parla un’altra lingua, sicuramente proviene da un altro paese e, spesso, è somaticamente diverso. Le analogie però finiscono qui. Lo scopo del mio intervento, oggi, è quello di mostrarvi come queste analogie siano del tutto apparenti e richiedano strategie educative differenti e comunque una speciale attenzione.

Innanzi tutto non dobbiamo mai dimenticare che un bambino adottato è un bambino che è stato lasciato solo. E’ un bambino che ha subito l’allontanamento traumatico dalla madre, che non ha potuto sviluppare l’attaccamento, che non è stato sufficientemente abbracciato, nutrito, contenuto, che ad un certo punto della sua vita ha dovuto contare solo su se stesso. E’ un bambino che, grazie all’adozione, ha trovato finalmente una famiglia, che sarà impegnato nel corso di tutta la sua vita ad integrare due parti di sè, il prima e il dopo. Per questo motivo le somiglianze con i bambini stranieri che arrivano in Italia al seguito di uno o entrambi i genitori sono solo superficiali.

Prendiamo ad esempio la lingua.
Un bambino straniero ha una lingua madre in senso tecnico e simbolico, ha infatti una madre, un gruppo familiare che parla la sua stessa lingua, un lingua che è stata appresa tra le braccia di chi si è preso cura di lui o di lei fin dalla nascita, è una lingua materna nel vero senso della parola, conservarla, ha un senso profondo per l’identità personale e culturale del bambino. E’ la lingua che gli servirà, un giorno, per comunicare con i parenti rimasti nel paese di origine, o se vorrà per tornare a vivere in quel paese, comunque per integrare al meglio le due realtà che lo caratterizzano, quella italiana e quella straniera.  La scuola dovrà accompagnarlo, per quanto è possibile, a diventare veramente bilingue, facendo attenzione a non svalorizzare mai la lingua originaria, chiedendo, per esempio ai genitori di non parlare in casa la loro lingua.

Diversamente, un bambino  adottato internazionalmente, che arriva arriva in Italia già grandicello, parla una lingua che solo tecnicamente possiamo definire una lingua madre. Naturalmente molto dipende dal momento in cui il bambino è stato adottato e dalla sua storia: per quanto tempo è stato in istituto, se ha avuto modo di passare i primi anni di vita con qualche famigliare. Come sempre dobbiamo ricordare che ogni bambino è un caso a sé.
In ogni caso una lingua appresa in istituto non è propriamente una lingua materna perchè non è una lingua emotivamente significativa, è una lingua fredda, strumentale, povera. Non c’è ragione, per il bambino, di conservarla e, infatti, i bambini stranieri adottivi perdono quasi subito la loro lingua di origine, è giusto che sia così. Sono figli di genitori italiani, l’italiano sarà la lingua famigliare, la lingua dell’amore, della propria identità ritrovata, la lingua con la quale impareranno, piano piano, a nominare tutti quei sentimenti e quelle emozioni che non hanno ancora avuto modo di apprendere. Infatti, prima d’incontrare la propria  famiglia adottiva non c’è stato nessuno di veramente significativo accanto a loro che abbia dato nomi a ciò che provavano, che si sia fatto mediatore tra loro e il mondo, che, in altre parole, abbia fatto ciò che ogni genitore fa quando insegna a parlare al proprio piccolo.
Anche se, come ho detto, i bambini dimenticano velocemente la lingua d’origine e apparentemente imparano subito l’italiano, ci vorranno anni prima che si possa dare veramente per acquisita la nuova lingua. Non sarà un processo semplice e lineare, è stato calcolato che dopo un rapido appendimento di un livello che si può definire strumentale, ci vogliono molti anni affinchè si apprenda veramente una lingua. Non ci dovrà sorprendere, allora, il fatto che, anche se è già passato qualche anno dal loro arrivo in Italia, questi bambini presentino delle difficoltà a ripetere la storia o la geografia, o troveranno difficile capire i testi di un problema o ad esprimere correttamente ciò che pensano. Come ho già detto, non si tratta di semplici difficoltà ad apprendere un’altra lingua, a sovrapporre o ad affiancare una struttura linguistica ad un’altra, difficoltà che possono essere comuni tra i bambini stranieri. Nel caso dei bambini adottivi si tratta di difficoltà legate ad una sfera più profonda, laddove le carenze di cura hanno provocato delle carenze cognitive e affettive che si riflettono nella sfera del linguaggio. Ciò che voglio dire è che attraverso l’apprendimento di una lingua si apprende anche a pensare: pensare se stessi e pensare il mondo. Ci sono circostanze, però come quelle sperimentate dai bambini abbandonati in cui l’assenza di un adulto dedicato interamente a quel bambino provoca in lui dei disturbi della percezione del sé.
L’acquisizione e l’abilità espressiva dell’italiano, quindi, andranno di pari passo con l’acquisizione di una maggiore sicurezza emotiva. Le insegnanti possono aiutare molto questi bambini se avranno la pazienza e la costanza di ascoltare le loro difficoltà comprendendone l’origine.

Cultura
Spesso  capita di veder coinvolti, allo stesso titolo, bambini stranieri e bambini adottati internazionalmente in progetti interculturali. Dobbiamo fare attenzione.
I bambini stranieri sono portatori di una cultura diversa da quella italiana, in senso positivo, per loro sarà importante integrare le due culture delle quali fanno parte ed è giusto che la scuola stimoli, attraverso una accurata didattica interculturale, l’orgoglio per la propria provenienza culturale. Questo li aiuta non solo a sentirsi accolti in quanto persone ma a sentire accolti indirettamente anche i loro genitori.
Al contrario un bambino adottato internazionalmente non ha una cultura d’origine in senso stretto, le regole dell’istituto o la vita di strada non formano una cultura da conservare in senso positivo. Spesso inoltre i ricordi legati al proprio paese d’origine sono dolorosi e comunque segnati dalla solitudine e dall’abbandono.  Entrando nella sua nuova famiglia il bambino ne acquisisce i modi, i ritmi, i rituali e quelli saranno, col tempo, i veri elementi della sua cultura. Naturalmente  questo non vuol dire che si possa o si debba ignorare la sua origine, anzi proprio perché è la sua origine va valorizzata ma in modo generico, ricordando sempre che l’adozione trasforma un bambino straniero in un bambino italiano. Ricordargli in continuazione la sua origine diversa, anche se lo si fa con le migliori intenzioni, può compromettere il suo pieno senso d’integrazione. Coinvolgere un bambino adottato internazionalmente in un progetto interculturale, chiedendogli ad esempio di ricordare poesie, canzoni o di portare in classe ricette del suo paese d’origine può avere un effetto controproducente. Il consiglio comunque è di concordare sempre con la famiglia qualunque progetto: si può senz’altro trovare insieme il modo di coinvolgere positivamente tutti i bambini senza farli sentire troppo segnati dalla diversità.
 In ogni caso parlare con vero rispetto delle diverse culture presenti a questo mondo, sottolineandone sempre gli elementi positivi, rintracciando tutti gli apporti creativi che ogni cultura ha dato all’umanità, aiuta tutti i bambini a vivere meglio e ad affrontare la novità e la diversità con interesse e non con paura.

Un altro aspetto che spesso fa pensare ai bambini stranieri e quelli adottati internazionalmente come ad un'unica categoria è quello delle caratteristiche somatiche. E’ vero, certamente, sia gli uni che gli altri , a volte, presentano tratti somatici diversi ma dal loro punto di vista la cosa ha valenze profondamente diverse.
 Per i bambini stranieri quei tratti somatici diversi possono anche essere motivo di prese in giro o di discriminazione, ma sono al tempo stesso il segno forte di un’appartenenza : assomigliano ai loro genitori, ai loro nonni, ai loro fratelli. Quando come insegnanti interveniamo in casi d’intolleranza o di razzismo nei loro confronti possiamo puntare a rafforzare in loro un senso forte e positivo di appartenza ad una famiglia e ad un  gruppo culturale.
Questo con un bimbo adottato internazionalmente, al contrario, è più complesso. La sua differenza somatica è il segno più evidente della sua filiazione adottiva e, in fondo, anche della sua solitudine, il segno che per lui o lei non sarà, quasi mai, possibile rispecchiarsi fisicamente in qualcun altro ( a meno che non sia stato adottato con dei fratelli).
Capita ai bambini adottivi colorati o con tratti chiaramente non europei di venire catalogati dagli altri come stranieri; frasi quali “tornatene nel tuo paese!” spiazza un bambino adottivo che è già nel suo paese, lo ferisce più di quanto la stessa frase possa ferire chi , come un bambino straniero, sa di avere, almeno in teoria, un paese dove tornare.
Per evitare che le differenze somatiche diventino la cifra dell’esclusione le insegnanti possono aiutare tutti i bambini a guardare al mondo per quello che è. Un insieme molto vario di persone colorate. Le insegnanti possono aiutare i bambini a leggere la realtà è insegnando loro ad uscire dagli stereotipi. Mi piace ricordare a questo proposito l’esperienza fatta qualche anno fa in una prima elementare. Nella classe c’erano bambini di tutti i tipi. Quando qualcuno ha cominciato a sottolineare la diversità del colore di qualche bambino le maestre hanno invitato tutta la classe a mettersi in fila. Dal più chiaro al più scuro. Naturalmente ne è nata una gran confusione perché i bambini discutevano, confrontando i colori della propria pelle, su quale fosse il posto di ciascuno. E’ stata, secondo me, un’esperienza semplice ed estremamente importante. Senza paroloni, senza discorsi del tipo “siamo tutti uguali” è stato subito evidente ai bambini come di fatto siamo tutti diversi, che anche all’interno di ciò che siamo abituati a pensare come omogeneo ci siano invece delle grandi diversità. E’ stato chiaro cioè che parole come uguaglianza e diversità non esprimano concetti assoluti ma relativi, che tutto dipende dal punto di vista con il quale si osservano le cose. E’ inutile dire che in quella classe nel corso degli anni successivi non ci siano mai stati problemi di esclusione o di derisione basati sul colore della pelle.

Prima di concludere questo mio breve intervento vorrei farvi notare che esiste ancora un elemento che differenzia il vissuto e l’esperienza di un bambino straniero da quello di un bambino adottato ed è la famiglia.
Entrambi questi tipi di famiglie, quella straniera e quella adottiva, sono famiglie impegnate ad affrontare un complesso e delicato percorso d’integrazione: per la prima si tratta di un percorso d’integrazione con l’esterno, per la seconda di un percorso d’integrazione al suo interno.
La famiglia d’immigrati deve, in un certo senso accompagnare il proprio figlio a farsi diverso dai suoi genitori, senza però perdere il legame vitale con la sua provenienza.
La famiglia adottiva, invece, compie il percorso inverso: deve trasformare un estraneo, un bambino nato da altri, in un figlio proprio, restituendogli l’esperienza di appartenere unicamente a qualcuno.
Questi delicati percorsi d’integrazione possono entrare in crisi se incontrano una scuola troppo esigente, basata solo su standard d’apprendimento classici. Cosa si può fare, allora, per aiutare queste famiglie?
Innanzi tutto vederne le speciali caratteristiche e poi sostenendo i genitori. Solo se la scuola si fa alleata delle famiglie, puntando sempre sulle loro risorse, si può pensare di aiutare tutti i bambini a vivere più serenamente.






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