Autore: 
Joyce Manieri, psicologa clinica e formatrice

La tecnologia sta assumendo un ruolo sempre crescente nelle nostre vite. In un mondo in cui si è sempre presenti e connessi, anche la genitorialità si trova ad affrontare sfide uniche e inimmaginabili rispetto alle generazioni precedenti. Con l’avvento di internet e dei social media, infatti, è diventato comune per un genitore condividere momenti significativi, personali e dei propri figli. Sono sempre più numerosi i genitori che danno un'impronta digitale ai figli nel momento stesso, o anche prima, della loro nascita. Una ricerca internazionale (1) indica che l'età media di comparsa su Internet è di 6 mesi, anche se un 33% del totale compare online già a poche settimane dalla nascita. Anzi, almeno un quarto dei bambini (il 23%) fa il suo debutto su internet attraverso la pubblicazione online dell'ecografia da parte dei genitori. Le mamme più abituate a questa pratica sono le americane e le canadesi (rispettivamente 34% e 37%), le più restie le francesi (13%) e le italiane (14%).

In Italia, il 68% delle mamme ha pubblicato online foto dei figli minori di 2 anni. Il 26% di loro, poi, ha pubblicato online foto dei figli neonati, l'ecografia è stata pubblicata online dal 14% , il 7% delle mamme ha creato al proprio bambino un indirizzo email, mentre il 5% delle mamme ha creato al proprio bebè un profilo in un social network.

L’abitudine di genitori (tutori o parenti) di condividere informazioni identificative dei figli minorenni (foto, video, aneddoti personali, ma anche aggiornamenti sulla vita, i problemi,  lo stato di salute e gli hobby) sui propri account social media è detta sharenting: un neologismo che nasce dalla crasi del verbo “to share”, condividere, e del termine “parenting”, che significa fare i genitori. Attualmente, gli studi privilegiano il termine “over-sharenting”, che connota in senso negativo l’eccessiva e costante sovraesposizione online di bambini e bambine. Una esposizione che avviene, nella maggior parte dei casi, senza un consenso esplicito e informato del bambino  perché troppo piccolo o non ancora così grande da comprenderne le implicazioni, oppure perché il consenso non gli viene richiesto, con il rischio di danneggiare la sua privacy. Come avverte Veronica Barassi (2), la questione è molto complessa: “Nella vita delle famiglie oggi i dati sono ovunque; dall’appuntamento con il dottore ai giocattoli, dai social media alle app nei cellulari, la quotidianità dei bambini è registrata, immagazzinata e condivisa in forme inimmaginabili prima. È la prima generazione “datificata” da prima della nascita, la prima di cui sapremo tutto. Di Tobia (nome di fantasia) sapremo se la gestazione della sua mamma è stata serena, se al parto ci sono stati problemi, se nell’infanzia ha avuto qualche fragilità fisica o qualche grave malattia. E a scuola? Come se l’è cavata? Ha avuto guai o grandi successi? È stato uno studente indisciplinato o ha collezionato ottimi voti? Lo sapremo. E poi i suoi gusti: da bambino amava i giocattoli di colore rosso, le fiabe della buonanotte che facevano paura, e da più grande i videogiochi. Ma questo è solo l’inizio di una lunga storia di raccolta dati attraverso i quali si formerà una identità digitale che resterà con lui per sempre, pur arricchendosi di nuovi capitoli. Del Tobia adulto sapremo se è un affidabile pagatore, quali sono le sue tappe lavorative, i suoi consumi, le vacanze, il reddito di cui dispone e così via”.

Spesso i genitori non pensano che quanto condiviso sui social media, a volte anche aspetti molto personali e dettagliati, esponga pericolosamente i bimbi a una serie di rischi. Interrogate sulle ragioni di questa visibilità online dei figli, più del 70% delle mamme ha risposto di voler condividere immagini ed esperienze con parenti e amici e di fronte al tema della privacy rispondono con un moto di noncuranza che “non hanno nulla da nascondere”. Non si tratta di questo, stiamo creando un “dossier digitale” senza il suo consenso. I rischi e le conseguenze sono di natura diversa e coinvolgono aspetti emotivi; ma anche questioni legali relative alla tutela dell’immagine del minore, alla riservatezza dei dati personali e alla sicurezza digitale. Dobbiamo essere consapevoli che “non esistono più barriere tra la vita digitale e quella reale. Quello che succede online sempre più spesso ha impatto fuori da internet, nella vita di tutti i giorni e nei rapporti con gli altri” (3).

Siamo davanti alla prima generazione di bambini la cui vita è “datificata”, registrata e condivisa nel web e ancora non abbiamo chiarezza delle implicazioni psicologiche e sociali di queste tracce digitali che li seguono dal periodo di gestazione sino alla maggiore età.

In un recente articolo Pietro Ferrara (4) afferma: “Le informazioni intime e personali, che dovrebbero rimanere private, oltre al rischio di venire impropriamente utilizzate da altri, possono essere causa di imbarazzo per il bambino una volta divenuto adulto (ad esempio in colloqui di lavoro, test di ammissione all’università). Infine, questo tipo di condivisione da parte dei genitori può inavvertitamente togliere ai bambini il loro diritto a determinare la propria identità”.  

OVERSHARENTING E ADOZIONE

Il mondo dell’adozione non è esente da questo fenomeno. Internet e social media, infatti, hanno impresso un forte cambiamento anche nel mondo dell’adozione.

Le famiglie adottive possono sentirsi spinte a chattare e condividere le proprie storie, anche online in diversi gruppi legati all'adozione, alla ricerca di aiuto, conforto o semplicemente per condividere la loro esperienza, o per portare la loro testimonianza, come genitori che hanno scelto l’adozione, di una cultura dell’accoglienza, capace di costruire legami solidi senza legami di sangue, senza gravidanza e senza un parto.

Nonostante le buone intenzioni, troppo spesso – come avverte Monya Ferritti (5) la narrazione difficilmente riguarda le difficoltà di non aver avuto i figli che si aspettavano di avere e la fatica di riadattarsi ai figli reali con tutte le limitatezze che contraddistinguono soprattutto loro come genitori. “Troppo spesso, invece, i genitori adottivi parlano di come si sentono i figli, svelano le loro debolezze o fragilità pubblicamente, nascondendosi dietro l’ipocrisia di voler aiutare altri genitori a riflettere”. Sempre di più, oggi, i genitori adottivi scrivono blog dettagliati sul loro processo di adozione, sulla loro famiglia e la storia e i problemi dei figli.

Pur dotati di buone intenzioni o nella convinzione che questa conoscenza possa aiutare gli amici o i parenti a comprendere meglio il figlio o per trovare conforto e aiuto nelle difficoltà esperite, a volte, i genitori adottivi possono condividere i dettagli delle storie dei figli indiscriminatamente o in modo inappropriato. Nel condividere la storia dell'adozione di nostro figlio potremmo, ad esempio, inavvertitamente rivelare dettagli sulla sua famiglia biologica o sulle circostanze del suo concepimento. Quando ciò accade, non avviene con il consenso della persona di cui si racconta la storia, ovvero la persona che è stata adottata. Dobbiamo essere consapevoli che, anche se le nostre storie si sono indissolubilmente legate, siamo solo custodi della storia dei nostri figli, che resterà sempre primariamente la loro e che non è nostro compito raccontare. Tanto più se pensiamo che le informazioni, una volta che sono state date, non possono essere ritirate, ne perdiamo il controllo e possono inconsciamente creare pregiudizi o domande inappropriate da parte di persone che potrebbero non comprendere la situazione specifica di nostro figlio.

Quando i figli sono piccoli, potrebbe sembrarci di poco conto l’aver condiviso queste informazioni; ma stiamo creando un’impronta digitale e spesso indelebile che verrà indicizzata e memorizzata dai motori di ricerca e potrà essere richiamata infinite volte dopo la sua divulgazione iniziale. Un’identità digitale che li seguirà nel tempo: ad alcuni bambini, adolescenti e adulti non importerà, ma altri potranno sentirsi feriti dal fatto che informazioni personali, dolorose o imbarazzanti siano note a tutti.

La mia esperienza con gli adulti che hanno alle spalle una storia di adozione mi insegna che una delle cose che maggiormente ferisce è che i genitori (adottivi) abbiano condiviso i dettagli della loro storia, il motivo della loro adozione così come alcune delle loro difficoltà (non è inusuale che la storia di adozione venga raccontata ad amici, parenti e finanche futuri compagni di vita dai genitori e non direttamente dai diretti interessati). 

Il nostro compito come genitori sarebbe, invece, quello di accompagnare i nostri figli a comprendere e rielaborare gli aspetti più privati (e talvolta dolorosi) della propria storia prima di condividerla con il mondo. Man mano che nostro figlio cresce, risponderemo alle sue domande e condivideremo tutte le informazioni che abbiamo in un modo che possa capire. 

L'ADOZIONE FRA SEGRETEZZA E PRIVACY

L’istituto dell’adozione si è evoluto nel tempo seguendo i cambiamenti sociali e culturali. Se volgiamo lo sguardo a poco più di 60 anni fa, la visione prevalente voleva l’adozione come “una seconda nascita” in cui la famiglia adottiva si sostituiva completamente alla famiglia biologica e poca importanza veniva attribuita al periodo precedente all’adozione tanto che sulla storia adottiva aleggiava il segreto familiare o, nel migliore dei casi, “l’essere informati circa l’adozione era come essere informati circa il sesso, niente di più” (6).

Ad oggi, invece, il modello è basato sulla continuità, sul recupero del passato che garantisca il diritto all’identità dei bambini che sono stati adottati e, alla luce anche dell’ultima Sentenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 183 del 29.09.2023), si cercano di privilegiare, là dove possibile, soluzioni che garantiscano la sua continuità identitaria arrivando a non escludere, sempre e a priori, la conservazione di un legame con la famiglia di origine (con uno o più membri della suddetta, ad esempio un nonno). 

Fatta eccezione per i collocamenti provvisori nelle adozioni nazionali (c.d. a rischio giuridico) dove, anzi, vige tra le famiglie adottive un rigido riserbo, prescritto, spesso con toni minacciosi dallo stesso Tribunale per i Minorenni, il nuovo modello sotteso all’adozione ha portato a un’apertura, se non a un orgoglio adottivo nella consapevolezza che l’adozione rappresenti una parte dell’identità della famiglia stessa. Tuttavia, se non poniamo attenzione, ai genitori potrà facilmente capitare di passare dalla condivisione dell'esperienza adulta alla condivisione della storia del figlio e delle sue peculiarità.

Ciò può accadere, anche inconsapevolmente, per rispondere alle domande che ancora troppo spesso le famiglie nate attraverso l’adozione si sentono rivolgere da amici, parenti o semplici sconosciuti mossi dalla necessità di appagare una morbosa curiosità o risolvere una propria dissonanza cognitiva imposta da una sottile e alquanto perniciosa e infiltrante cornice bio-normativista (7). O al contrario può essere frutto del bisogno di trovare aiuto e confronto con altre esperienze, gestire le proprie emozioni rispetto a situazioni irrisolte o difficili con le quali ci si confronta quotidianamente (a volte vengono descritte le molteplici diagnosi di salute mentale, i farmaci e i comportamenti disturbanti del bambino) o semplicemente del desiderio di testimoniare, anche con orgoglio, la propria esperienza.

È opportuno qui ricordare che il diritto alla "privacy" come diritto della persona di non subire intrusioni nella propria sfera privata, in particolare quelle consistenti nella conoscenza delle informazioni che la riguardano da parte di estranei, non va confusa con il diritto al segreto.

Con il segreto, si vuole impedire che terzi vengano a conoscenza della notizia; con la riservatezza, invece, viene ad essere preclusa la divulgazione e la pubblicizzazione della notizia stessa e sembra maggiormente richiamare il "diritto all’autodeterminazione informativa" che consiste nella libertà dell’individuo di determinare in perfetta autonomia le modalità di costruzione della propria sfera privata, comprese le singole informazioni che andranno a comporla.

Un concetto, quello di privacy, che appare bizzarro, se non arcaico, nel contesto di internet. Non esiste la privacy sul web. Nemmeno nei gruppi Facebook “chiusi” o “segreti”. 

Qualunque cosa pubblichiamo vive per almeno 7 anni o, più probabilmente, per sempre e rischia di mettere a rischio anche la salute emotiva e mentale dei nostri figli: “Quando cresceranno e cominceranno a navigare online autonomamente dovranno fare i conti con l’essere, o l’essere stati, continuamente esposti pubblicamente e dovranno avere a che fare con il giudizio delle altre persone, magari in una fascia d’età già delicata” (8).

I RISCHI DI UN OVERSHARENTING

Un’eccessiva condivisione delle informazioni sui nostri figli comporta una violazione della privacy dei loro dati personali e una mancata tutela della loro immagine con la possibilità, o meglio la certezza, di perdere il controllo dei dati che sono stati divulgati. Le immagini e le informazioni pubblicate sono permanenti e, soprattutto, sempre a disposizione di chiunque e continueranno a circolare in rete anche quando il bambino crescerà. L’identità digitale che noi adulti abbiamo costruito potrà avere effetti concreti e reali sul futuro dei nostri figli e sulla loro reputazione sociale. Il diritto dei genitori di controllare l’educazione dei figli, nonché la loro libertà di parola non può prescindere dal diritto del bambino alla propria privacy.

Le rivelazioni fatte dai genitori sui figli vengono diffuse senza il consenso dei bambini o dei ragazzi: un fenomeno che sta sollecitando in tutto il mondo un acceso dibattito e che ha portato, già nel novembre scorso, la Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Carla Garlatti a proporre che per lo sharenting possano essere applicate le disposizioni in materia di cyberbullismo, consentendo ai minorenni di chiedere direttamente la rimozione dei contenuti. 

COSA, COME E QUANTO SI PUÒ CONDIVIDERE?

Alla luce delle riflessioni fatte, come è possibile salvaguardare la privacy dei nostri figli?

I genitori non dovrebbero più condividere le loro esperienze o cercare confronto e aiuto, magari all’interno di un gruppo specifico di supporto?

Non credo.

Piuttosto il nostro ruolo genitoriale dovrebbe spronarci a essere sempre consapevoli riguardo a ciò che condividiamo e con chi, avendo ben chiaro che una parte della (nostra) storia appartiene solo ai nostri figli, che quando saranno più grandi potranno scegliere cosa vogliono che le persone sappiano: a chi, quando e come raccontarsi.

COME FARE?

Ogni volta che stai per condividere aspetti della tua esperienza (adottiva), prova a fermarti e poniti queste domande, ti aiuteranno a prendere una decisione consapevole riguardo alla narrazione che vuoi fare:

  • La cosa che sto per condividere è di dominio pubblico o no?
  • Perché voglio dirlo? Penso siano informazioni necessarie? Riguardano sensazioni, emozioni o fatti della mia storia o sono ricostruzioni e ipotesi della storia o del vissuto di mio figlio?
  • La persona con cui parlo ha bisogno di avere queste informazioni? 
  • Quali ripercussioni potrebbero avere su mio figlio le informazioni condivise?

E quando condividi foto e informazioni sui social media, fallo sempre con cautela e cerca di seguire questi piccoli accorgimenti:

  • Prevedi l’anonimato (non postare con la geolocalizzazione, le generalità di tuo figlio o elementi come la scuola frequentata, l’oratorio, ecc.)
  • Non pubblicare l’immagine completa del minore, ma un dettaglio
  • Utilizza il più possibile applicazioni (come ObscuraCam o AnimalFace) che consentono di non mostrare il volto del minore
  • Non condividere immagini in qualsiasi stato di nudità
  • Familiarizza con la policy relativa alla privacy dei siti sui quali condividi contenuti e opera modifiche rispetto alle impostazioni della privacy.

 

 

 

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La nostra associazione organizza attività dedicate alla famiglia adottiva e a chi intende avvicinarsi al mondo dell'adozione. Organizziamo conferenze e incontri dedicati ai temi a noi cari e molte attività dedicate ai soci.

Se lo desideri puoi diventare socio iscrivendoti presso le nostre sedi territoriali: cerca qui la nostra sede più vicina a te.

Puoi vedere tutti i nostri eventi in programma (anche eventi online) seguendo questo link

 

(1) AVG Technologies, 2010

(2)  Antropologa e docente in Media and Communication Studies alla School of Humanities and Social Sciences (SHSS-HSG) dell’Università di St. Gallen, Svizzera.

(3) Garante per la privacy, Social Privacy – Come tutelarsi nell’era dei social network, 2014.

(4) Pediatra, responsabile del Gruppo di Studio per i diritti del bambino della SIP, Società Italiana di Pediatria ed autore di uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Pediatrics (giugno 2023, vol. 257) dell’European Pediatrics Association, che fa il punto su questo fenomeno.

(5) M. Ferritti, Sangue del mio sangue, Edizioni Ets, 2023, p 81.

(6) Brodzinsky, Schecter, Marrantz Henig, Being Adopted: The Lifelong Search for Self, 1993, p.7.

(7) Bio-normatività è un neologismo usato, tra le prime volte in italiano, nel testo Sangue del mio sangue di Monya Feritti (Edizioni ETS, 2023) per indicare un modello culturale e sociale in cui la famiglia riproduttiva e procreativa rappresenta l’unico modello reale e valido (e spesso legittimo) di famiglia con figli.

(8) XIV edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia, dal titolo Tempi digitali, 2021, Save The Children.

Data di pubblicazione: 
Sabato, Febbraio 10, 2024

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