Autore: 
Gianfrancesco Pascale

 

-“Mamma!”

-“Dimmi, amore…”

-“No, parlavo con papà”

 

Questo scambio è all’ordine del giorno a casa nostra.

Mi ha fatto pensare l’articolo di Monica Nobile. Io sono presente nella vita di nostro figlio, arrivato un anno fa dall’India, esattamente come mia moglie. Vado alle riunioni di classe, alle visite mediche, penso ai regali, alle feste, conosco tutte le vacanze scolastiche, cucino per lui, ho il cellulare della maestra, scrivo su Whatsapp alla pediatra, faccio la spesa e mi ricordo il the alla pesca deteinato e le salviette, lo cambio, lo lavo, lo porto in bagno quando è complicato, mi faccio tutte le notti che serve fare, con mia moglie che si sveglia al mattino e mi chiede come ha dormito il bimbo.

Sono stati sicuramente 6.000 euro spesi bene quelli che la nostra famiglia neoformata – e neotornata dal viaggio che, come chiunque l’abbia fatto sa, non è proprio gratis – ha scelto di investire nella costruzione di questa forma di genitorialità. No, non si tratta del costo di un corso in cui mi hanno spiegato come farmi avanti nei compiti dei nuovi padri o di un percorso per far acquisire a mia moglie la consapevolezza della necessità di farsi da parte: è semplicemente lo stipendio a cui ho dovuto rinunciare per potermi dedicare a mio figlio nei suoi primi 6 mesi con noi.

Sicuramente alcune delle questioni che sottolinea Monica Nobile sono esperienza di tante coppie, ma ci sembra intervengano parecchie altre questioni. Nella nostra esperienza di genitori entrambi presenti a 360 gradi nella vita del bambino, questa presenza non si costruisce in una specie di danza tutta interna alla coppia, in cui uno si fa avanti e l’altra da parte. Patriarcato o bionormativismo che sia, attorno tutto spinge per una corrispondenza tra genitore prevalente e mamma: si tratta di crescere come famiglia in relazione a questa spinta, riconoscendola prima ancora di contrastarla.

Fin dalle prime fasi dall’attesa, tutto attorno ci diceva che la genitorialità è primariamente una cosa delle mamme: la mamma di pancia e la mamma di cuore, ad esempio, vocabolario costante nella narrazione preadottiva; il Bonus Mamme, rivolto a chi sta per avere un figlio; l’assunto da mettere in discussione con ciascuno dei colleghi rispetto al fatto che tornerai al lavoro senza nessun cambiamento rispetto a prima.

La struttura del congedo di – ehm – maternità è l’elemento più macroscopico di tutta questa dinamica: ogni volta che dicevamo - dai gruppi PRE* ai servizi, dai gruppi post a oggi che siamo volontari dell’attesa - che saremmo stati a casa tutti e due col bimbo tutti sgranavano gli occhi “perché? Si può?”. Tecnicamente si può, ma è un privilegio dei pochi che se lo possono permettere, sia economicamente che a livello contrattuale.

Dal nostro file excel che riportava tutte le combinazioni possibili di congedi, simulando gli stipendi con cui avremmo dovuto vivere nel primo semestre in cui eravamo genitori, abbiamo scelto quello in cui mamma stava in obbligatoria e papà in facoltativa contemporaneamente. Siamo stati così a casa insieme i primi 5 mesi di nostro figlio: non sono dovuto tornare al lavoro dopo dieci giorni. Se non avessi avuto la disponibilità economica (e la spinta a spremere innumerevoli CAF e circolari INPS…) avrei dovuto usare gli unici 10 giorni che mi spettavano per andare a prendere mio figlio e tornare al lavoro il giorno in cui siamo atterrati (certo, per il viaggio puoi prendere l’aspettativa...non retribuita!). È stato evidente da subito per noi che stavamo forzando un sistema che era immaginato in altro modo.

Certo, alcuni spiragli ci sono: come forse sapete, nella genitorialità adottiva, la mamma può cedere la sua maternità obbligatoria al papà (venendo meno il parto come evento da tutelare) ma - come nelle vecchie settimane enigmistiche forse non tutti sanno che - se la mamma non ha diritto a quei mesi (disoccupata o troppo precaria), quella maternità scompare, il papà non ne ha diritto. Ne ha diritto solo per riflesso: basta la mamma insomma, se c’è. Il papà è un ripiego che entra in gioco quando mamma non può. Del resto “sei da solo con papà oggi? Dov’è la mamma?” è una frase che qualunque genitore maschio si è sentito rivolgere almeno una volta.

Oggi mi domando quanto sarebbe stato più difficile entrare dentro la relazione che ora abbiamo, accompagnarlo a fidarsi e affidarsi, esserci nei momenti imprevisti in cui c’è bisogno di consolare un pianto disperato, di lenire un risveglio notturno, di ascoltare una nuova parola o accompagnarlo a scoprire il mondo, senza quel tempo insieme, senza la presenza costante e quotidiana che ancora oggi ho il privilegio di scavare nella nostra vita familiare?

La questione economica è soltanto la punta dell’iceberg, ovviamente, di un tema che è culturale: ho cambiato lavoro nel tempo dell’attesa, scegliendo un impiego anche in virtù della possibilità di dedicarmi al bambino che aspettavamo. In quanti lavori il congedo di paternità è un marchio di inaffidabilità, ti blocca la carriera, ti fa essere oggetto di mobbing? In quanti lavori uscire prima per prenderlo a scuola è guardato con sufficienza, diffidenza, vari livelli di insofferenza. E le vacanze che non sono vacanze - come Carnevale? E la febbre che arriva senza controllare il planner e la maestra ti chiama mentre sei con un cliente? Si tratta di un continuo lavoro di ricentratura delle priorità: il cliente si scoccerà, il direttore forse pure, ma mio figlio adesso ha bisogno di me.

È un costo che le donne pagano quotidianamente: il cambiamento sociale di cui c’è bisogno non attiene al fatto che dobbiamo iniziare a pagarlo anche noi padri, ma che dobbiamo scardinare i meccanismi che lo generano, insieme. È un costo che le donne pagano quotidianamente e io, che posso scegliere se far entrare o no il mio essere padre nel computo dei requisiti professionali (a me non lo chiedono, se ho intenzione di averne altri...) non mi sento nella posizione di caricare alle mamme la responsabilità di un “farsi da parte” che mi impedirebbe di essere pienamente papà: non è la mamma che non si sposta dal suo ruolo primario a farmi perdere pezzi di genitorialità, è una conformazione sociale millenaria che mi spinge in questa dialettica quotidiana tra il padre atteso – che rientra alle nove meno venti di sera e non sa dove sono i calzini- e il padre che voglio essere.

 “E al lavoro come ti sei organizzata?” la domanda attraversa la tavola di Natale, sei mesi dopo quel congedo. Mia moglie mi guarda e mi indica all’interlocutore “ci siamo organizzati abbastanza bene”, precisa sorridendo. L’interlocutore si volta verso di me e il suo sguardo mi attraversa, come se mia moglie avesse indicato la caldaia o il frigo, senza comprendere cosa io c’entri con questa organizzazione. Poi si rigira verso mia moglie e ripete la domanda “quindi sei rientrata?”.  In ospedale, accade spesso a noi, dicono: “entra la mamma”. La notte può restare solo la mamma. Il percorso post dell’ente si chiama “la spa delle mamme”. La rappresentante di classe riprende bonariamente mia moglie, che forse non lo sa poverina perché è mamma da poco: “sai, le mamme di solito si mettono nella chat, anche se c’è il marito…”.  Mi capita ancora di discutere coi colleghi: il tempo che mi prendo per stare con mio figlio (due giorni di smart working e un pomeriggio di congedo a settimana, esattamente a metà con la mamma) sembra giustificabile solo in virtù di una specificità adottiva – eh perché tuo figlio ha bisogno - non riesco a convincere nessuno che è connaturato al mio ruolo di padre.

Questa distanza nelle aspettative sociali rispetto ai ruoli genitoriali tende a deformare le dinamiche della coppia quotidianamente, come una forza che agisce in modo sotterraneo, a cui devi resistere con intenzione e caparbietà. A volte ce la facciamo meglio, a volte peggio. A volte prendo l’allattamento, a volte banca ore senza dire a nessuno che è per il bambino. Alla fine mia moglie nella chat di classe si è inserita, sennò sembrava brutto.

Ogni tanto mio figlio gioca con la distanza tra noi, mi manda via. “Non lo uoio papà” dice e sta a spiare ridacchiando la mia reazione. Lo spazio sociale in cui come famiglia siamo inseriti spesso ci dà lo stesso rimando, ma senza scherzo: “non lo uoio papà” dov’è la mamma? Dov’è il genitore primario? Io faccio la stessa cosa, con mio figlio e con il mondo attorno: rimango, cerco con la mia impronta di scavare quello spazio, giorno dopo giorno, e so di non essere l’unico papà che lo fa, ma soprattutto so di non essere l’unico papà che lo desidera.

 

(*) gruppi di auto mutuo aiuto che accompagnano chi muove i primi passi nel mondo dell'adozione 

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Data di pubblicazione: 
Martedì, Marzo 19, 2024

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