Autore: 
Sonia Oppici, psicologa giuridica e psicodiagnosta

È il primo colloquio del pomeriggio e Virginia non perde tempo: “Ciao. Lo so chi sei. Sei la psicologa del Giudice, quella che parla con i bambini”.

Sorrido: “Giusto, sei preparatissima”.

Replica soddisfatta: “Si, me lo ha detto la mia educatrice, lei è molto brava e simpatica”. Ecco, io devo esserlo già molto meno, penso, vista la necessità di specificarlo.

Prosegue implacabile: “E tu, invece, cosa sai di me?”.

Resto generica, come sempre: “Mi hanno detto che ti chiami Virginia, hai otto anni e, da qualche mese, vivi in una comunità”.

Tagliente: “Ti hanno detto di sicuro anche altre cose…”.

Ho di fronte una bimba magrissima e magnetica. Si siede, schiena dritta e sguardo ipervigile.

Pallida, lunghi capelli castani e occhi verdi, famelici e inquieti. Che mangiano tutto ciò di cui il suo fragile cuore, evidentemente, non riesce a nutrirsi.

In realtà di lei ho un fascicolo completo di feroci dettagli di abbandono e dolore. Si tratta di violenza assistita e non solo. Il compagno della madre maltrattante. Il padre naturale ha interrotto ogni frequentazione con la piccola da qualche anno, perduto nella propria follia bipolare.

Il perimetro della verità tollerabile è sempre la scelta migliore: “Si hai ragione, mi è stato raccontato in parte cosa ti è accaduto”.

Risponde con una educazione che mi sorprende: “Io non vorrei parlarti. Non ti conosco e poi mi hanno già interrogata altre due dottoresse”.

È uno sguardo a metà tra la resa e la sfida. Rilancio: “Sei una bimba che parla diretto. So che è stato un periodo difficile”.

Nessuno spazio perché mi possa dire altro: “Allora, facciamo che inizio io a spiegarti il motivo dei nostri incontri. Ho letto quello che ti è successo. E non ti chiederò di parlarne. Quello che il Giudice mi ha chiesto di fare si chiama Capacità Testimoniale. Riguarda la tua memoria, i tuoi pensieri, la tua vita ora in comunità. Non dovrai raccontarmi la tua storia, la conosco già.

Dovremo capire insieme, però, se non ti farà troppo male doverla ripetere, forse per un’ultima volta, al Giudice”.

Agli adulti si dice che è una perizia. Si tratta di ascoltare i bimbi, capire quali siano i loro processi di pensiero, valutarne l’integrità e relazionare al giudice se possano avere le competenze per riferire ciò che è accaduto loro. Sono vittime di reato. Persone offese.

Decido di spiegarglielo. E Virginia comprende ogni parola.

Al termine mi dice che ha capito, mi ringrazia dicendomi che sono stata “molto chiara”.

Resto incredula e incuriosita da questa bimbetta a tratti impertinente, ma composta come una principessa. Le dico che dovrà tornare perché dovremo fare insieme qualche prova di memoria, qualche esercizio di linguaggio e qualche disegno.

Mentre la riaccompagno, mi accorgo che il suo sguardo si ferma sulla scatola di caramelle aperta sulla scrivania. Finalmente uno scorcio di normalità e di infanzia.

Le sorrido: “Ne puoi prendere una. Puoi portarla alla tua educatrice. Mi sembra di avere capito che mangiare è molto faticoso per te”.

Annuisce sorridendo e, con cura, sceglie una gommosa al lampone, grata che non abbia fatto accenno al fatto che avrebbe potuto prenderne una per sé.

Resta a distanza di sicurezza.

Mi tiene lontana. Con grazia, ma lontana.

Per i bimbi come lei, la vicinanza è una intrusione, uno sforzo che si aggiunge agli altri. Con il tempo si impara a rispettare quel confine, a controllare l’urgenza e la spontaneità di un abbraccio, di una carezza.

La rivedo la settimana successiva. Le chiedo di raccontarmi ciò che desidera delle sue giornate.

È molto precisa: ossessivamente mi scandisce con esattezza ogni orario, dalla sveglia alla “nanna”. Le materie scolastiche, il nome degli insegnanti, i turni delle sue educatrici. È bravissima ad imitarle, quando le dicono cosa fare o quando la riprendono.

Una narrazione brillante, adultizzata, competente. Ma, soprattutto, disarmante per quanto sia difensiva. Nessuna parola su di lei, su come si senta. Su quanto stia rifiutando di vivere, negandosi ogni forma di alimentazione. Le hanno provate tutte, ma la diagnosi di anoressia infantile non lascia dubbi.

Ad un certo punto si interrompe: “Hai le lentiggini sul naso”. Sgrano gli occhi, divertita. Si accosta: “Ne hai proprio tante. Inizia a contarle indicandole con il dito”. Stiamo lì. Un tempo sospeso e allegro. Le dico che ho preso il sole e quindi ne sono uscite di più; mi risponde che lei al sole si scotta, infatti la mamma le metteva sempre la crema.

Sono inavvertitamente scivolata sul male.

Ci fermiamo entrambe. Troppo vicine. “Non voglio parlare della mamma”. Annuisco: “Va bene, non ti chiederò nulla”.

Arriviamo all’ultimo colloquio. Ho tutte le informazioni necessarie per scrivere la perizia.

Glielo dico e le chiedo se ci sia qualcosa di cui non abbiamo parlato e che le sembri importante.

Il tono è severo: “Tu non mi chiedi mai niente e questo mi fa arrabbiare. Non mi chiedi di mangiare, non mi chiedi della mia mamma, della mia famiglia. Mi stai antipatica, non ti importa niente di me”.

Recupero: “Mi spiace, perché invece tu mi sei molto simpatica e vorrei chiederti moltissime cose. Sai, noi grandi pensiamo che tenersi dentro tutto faccia stare peggio. E lo penso anche io. Però ho capito che, a volte, il cuore dei bimbi non è pronto e le parole non vogliono uscire. Allora si sta fermi, ci si mette vicino e si aspetta al buio con loro. Io sto facendo questo”.

Cerco di distrarla: “Cosa farai ora, quando finiamo il nostro colloquio?”

Non vuole cambiare argomento. Senza scampo: “Vado al parco, prima di tornare in comunità; c’è un’altalena altissima. Sembra di volare e poi di cadere”. Mi si ferma il respiro. La piccola non dice nulla a caso. E ha deciso di restare immobile. Vuole rimanere ferma nel suo ricordo.

La mamma di Virginia si è suicidata. Buttandosi dal balcone. Annientata, la disperata solitudine della depressione. Lei stava giocando, ignara, nella sua stanzetta. Mi fissa, con la tenera e inquieta provocazione di una bimba quasi spezzata da un dolore troppo grande.

Resto con lei: “Cosa sai della mamma?”

Abbassa lo sguardo: “Mi hanno detto che ha fatto come gli angeli. È volata via. Secondo te può tornare? Quella era la sera della pizza, facevamo la pasta insieme. E poi la mangiavamo davanti ai cartoni”. Non una lacrima. In compenso, io le sto trattenendo a stento.

Provo a spiegare ciò che neppure “da grandi” si riesce a tollerare: “La mamma non tornerà come vorresti. Questo non può accadere. Ma quando le mamme volano in cielo lontano dai loro bimbi, il cielo fa una magia. Fa in modo che nessun bimbo stia solo. Per questo ora la tua magia sarà una mamma che incontrerai e si prenderà cura di te. Non avrà gli stessi occhi, lo stesso modo di farti le coccole, ma avrà lo stesso cuore pieno di bene. E tu crescerai senza doverti preoccupare di tutto, senza avere paura”.

Virginia prende due caramelle al lampone. Una la mette in tasca e una la scarta e la mangia.

Come se non ci fossi.

Mi chiede se ci rivedremo un’altra volta. Le dico che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro.

Si avvicina, ma non troppo: “Vorrei abbracciarti. Ma non ci riesco”.

Mi abbasso e le tocco la punta del nasino: “Lo so e lo capisco. Sei una bimba sincera e coraggiosa. Il tuo abbraccio l’ho sentito. Spero che tu possa sentire il mio”.

La guardo allontanarsi e la immagino sull’altalena. Con la ragionevole certezza che saprà come affrontare la sensazione di cadere.

 

Nel rispetto della privacy, i racconti riportati sono narrazioni integrate di esperienze e non sono riconducibili a casi specifici.

Sonia Oppici si occupa da tempo di minori in difficoltà e recupero delle competenze genitoriali in situazioni post-traumatiche, ha collaborato a lungo con Genitori si diventa ed è autrice per le edizioni ETS del libro “Dimmi se ti assomiglio. Genitori, figli e altre storie” (2009).

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Data di pubblicazione: 
Giovedì, Giugno 15, 2023

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