Sono una donna coreana, adottata e cresciuta da un padre italiano e da una madre inglese. Per molti anni ho rifiutato e persino odiato la mia condizione adottiva: essere adottata per me significava essere “segnata” dalla diversità; non assomigliavo ai miei genitori né fisicamente né geneticamente e a differenza delle mie sorelle – figlie biologiche, loro – non avevo un posto “vero” nei rami dell’albero genealogico della mia famiglia.
Per la maggior parte del tempo il mio confronto con la diversità si è svolto nel silenzio totale. Nel silenzio, perché non ho mai parlato con i miei genitori della mia adozione; nel silenzio, perché sfuggivo alla maggior parte dei tentativi degli amici che cercassero di aprire un dialogo più profondo sull’adozione e le relative implicazioni; nel silenzio, perché evitavo di affrontare davvero la realtà della mia diversità.
Neppure il mio rifiuto di un aspetto essenziale, e quindi immutabile, della mia identità, era un atto del tutto cosciente. Preferivo inquadrare alcuni aspetti della mia diversità non come conseguenza dell’adozione bensì di una sorta di “lotteria genetica”. Mi ero cioè convinta che il fatto di non essere all’altezza dei miei intelligentissimi genitori o meno rapida delle mie sorelle a comprendere e assimilare le cose, o di attraversare periodi di malumore mentre il resto della famiglia era sempre solare e allegro, dipendesse da qualche mio difetto genetico piuttosto che dall’assenza di un legame biologico con loro. In fondo nelle lezioni di biologia si avevano imparate le leggi della probabilità genetica e scoperta la possibilità di ereditare geni recessivi, che potevano far sembrare anche un figlio naturale non consanguineo con i propri genitori. Fossi stata veramente una loro figlia biologica, chi avrebbe potuto garantire che non sarei stata altrettanto diversa? Ho sempre insistito nel definire la nostra una famiglia normale (e forse sono stata troppo inflessibile nell’enfatizzare questa mia posizione) – avevo sorelle e genitori e la parola “adottiva” non aveva un posto nella sintassi di questa frase e neppure nella mia vita.
Anche quando guardavo delle fotografie e vedevo le mie evidenti e innegabili caratteristiche fisiche asiatiche (naso piatto e largo, piega epicantica, capelli lisci e neri, polpacci larghi, ecc.), queste caratteristiche distintive non le vedevo davvero. Non mi percepivo diversa dal resto della mia famiglia: Lo ero solo agli occhi degli altri. Quando le persone mi chiedevano se mi interessasse sapere chi fossero i miei genitori naturali o se desiderassi visitare la Corea del Sud, la mia risposta era sempre “no”. Cercarli non sarebbe stato logico: essere un genitore per me significava crescere un bambino, non essergli legato per sangue. L’Italia, la nazione di cui sono cittadina e nel quale ho vissuto i miei anni formativi è ancora il mio paese; anche se mi sono spostata molte volte, una costante nella mia vita è la nostra casa appena fuori Torino, ai piedi delle Alpi. “Sono italiana in tutto e per tutto”, sottolineavo: “Parlo la lingua, mangio il cibo tipico (bagna càuda, plin al sugo di carne, vitel tonné e bonèt sono alcuni dei miei piatti preferiti, tutti piemontesi), ho passato gli esami di licenza media, i miei amici provengono da famiglie che si sono stabilite a Torino da diverse generazioni. Sì, sono italiana, il mio nome lo indica e il mio passaporto lo conferma”. La Corea era semplicemente un paese dove si parla una lingua che non è la mia, con una cultura che non mi è familiare, la cui storia e struttura politica mi sono totalmente sconosciute; lo sentivo estraneo, quanto qualsiasi altro paese straniero. Si trovava all’estrema periferia del mio mondo centrato sull’Italia; era l’Altro estraneo al mio Io e non aveva alcun posto nella mia vita. Certo, mi era stata regalata una piccola bandiera della Corea del Sud e persino un bellissimo abito tradizionale coreano, che non indossai mai; tuttavia questi due oggetti non erano sufficienti per indurmi ad avvertire un qualsiasi senso di appartenenza per quel paese.
Mentre nella mia interiorità lavoravo intensamente per rifiutare la realtà e spazzarla sotto il tappeto del subconscio, il mondo esterno la faceva però riemergere, mettendomi a confronto con essa. Negli anni che ho trascorso in Italia gli asiatici erano molto pochi. Non solo ero l’unica bambina di origine asiatica nella scuola ma le possibilità che potessi imbattermi un’altra orientale a Torino erano bassissime. Ero perciò considerata una novità, una presenza esotica che suscitava curiosità. I bambini mi prendevano in giro a scuola durante l’intervallo oppure per strada, imitando uno stereotipico e parodico accento asiatico e tirandosi gli angoli degli occhi per farli sembrare a mandorla. Quando la presenza di turisti giapponesi e di immigranti cinesi cominciò a crescere, aumentò pure la diffidenza verso i non bianchi (la gente ripeteva: “non sono razzista, ma basta con ‘sti cinesi/giapponesi” – cinesi o giapponesi a seconda dell’idiosincrasia di moda).
Quando diventai più grande il mio esotismo venne caricato di implicazioni sessuali e cominciarono a emergere luoghi comuni, che io non avevo mai sentito prima, riguardo al corpo di una donna asiatica. Era quasi impossibile avere una relazione con qualcuno che non dicesse di “soffrire” di qualche forma di “febbre gialla” – un’espressione peggiorativa usata per descrivere un uomo che provasse un’attrazione sessuale e/o romantica per un’asiatica. Talvolta ero oggetto di espressioni di discriminazione ancor più ostili: mi hanno urlato dietro “tornatene nel tuo fottuto paese!” e mi hanno anche sputato addosso. Con l’aumento delle preoccupazioni mediatiche nei confronti dalla bomba atomica della Corea del Nord e la crescita dell’influenza economica della Cina, ho incontrato spesso atteggiamenti razzisti e di diffidenza.
Le contraddizioni che caratterizzavano la mia esistenza creavano una tensione insostenibile: l’io che credevo di essere non si rispecchiava in modo coerente e fluido nel tu che gli altri percepivano di me. Per cominciare, le manifestazioni di affetto con i membri della mia famiglia venivano considerate con sospetto se non completamente fraintese: gesti di affetto con le mie sorelle venivano interpretati come atteggiamenti lesbici e quando camminavo a braccetto di mio padre la gente ci scambiava per amanti. Mi veniva regolarmente attribuita un’origine nazionale e culturale straniera: i miei amici mi chiedevano di cucinare dei piatti coreani malgrado non avessi la più pallida idea di come prepararli. Non avevo mai mangiato cibo che lontanamente somigliasse a quello coreano. Quando camminavo per le vie di Korea-town a Manhattan, le persone mi parlavano in coreano scambiandomi per una di loro. Il rovescio della medaglia è che quando presento il passaporto italiano, i funzionari dell’immigrazione mi guardano perplessi; e quando i miei studenti di italiano entrano in classe per la prima volta, non riconoscendomi come italiana per i miei tratti somatici asiatici, si chiedono se sono giunti nel posto sbagliato.
Le persone pensano che scherzi quando dico che sono italiana; mi è capitato diverse volte di parlare a qualcuno in italiano e di ricevere una risposta in inglese, anche se l’italiano, all’epoca, era la lingua in cui mi esprimevo meglio e non avevo alcun accento anglosassone. Così non solo venivo scambiata per coreana (o cinese o persino giapponese visto che i non asiatici non sono in grado di riconoscere la mia etnicità) ma mi veniva negata la mia identità italiana. Di conseguenza il mio senso di alienazione lo vivevo a più livelli: sembravo non appartenere alla mia famiglia, sembravo non avere una conoscenza autorevole dell’italiano, non sembravo italiana; mentre invece sembravo coreana (ma non lo ero), sembravo capace di parlare coreano (che non parlavo) e sembravo avere almeno una conoscenza elementare della cultura coreana (che non avevo). Pertanto, il mio senso di alienazione era duplice: mi veniva negata un’appartenenza autentica a quella etnia a cui realmente appartenevo, e mi veniva attribuita un’appartenenza a qualcosa con cui non avevo alcun rapporto.
Con il trascorrere degli anni e grazie principalmente ai miei interessi accademici nel femminismo, nelle teorie critiche della razza, negli studi sull’immigrazione e più recentemente sull’adozione, ho avuto l’opportunità di osservare la mia situazione attraverso la lente della molteplicità, multi-etnicità, multi-culturalismo, ecc. Ho imparato a guardare alla mia condizione come a un grande privilegio. Ho imparato a incanalare la tensione tra le contraddizioni senza rinunciare a esse, fino a intrecciarle in un insieme costruttivo e arricchente. La mia dualità non la interpreto più come non essere veramente né italiana né coreana: piuttosto sono entrambe le cose e attraverso questa complementarietà sono di più. Mentre in passato mi consideravo la pecora nera della famiglia, o un pesce fuor d’acqua, ora capisco che sono il ramo innestato che prende dall’albero vita e bellezza.
Devo tutto questo ai miei genitori; lo devo tutto al giorno in cui mio padre, durante un viaggio di lavoro in Corea, entrò in un orfanotrofio e fu sedotto dal mio sorriso. Anche se la relazione con i miei genitori a volte è stata molto difficile, persino tempestosa, l’unica cosa che mi resta da dire è che li amo profondamente.
Ho appena iniziato a scrivere un libro sull’adozione, con una sezione dedicata all’adozione internazionale e interetnica. Cerco altre persone adottate disposte a condividere le loro storie con me. Non so come contattarvi e chiedo scusa per il fatto che uso questo mezzo per lanciare il mio appello, ma credo che se sono stata disposta a condividere la mia storia, a renderla pubblica, magari sarete disposti a condividere la vostra con me. Se siete disponibili, contattatemi per email, anchisi.lidia@gmail.com
[questo testo, mandato come lettera al festival delle lettere sul tema dell'adozione, e' stato tradotto dall'inglese. Avendo vissuto negli Stati Uniti da piu' di venti'anni, il mio italiano e' peggiorato moltissimo e non sono piu' in grado di scrivere come dovrei in questa lingua che adoro cosi tanto. Immagino che i post successivi verranno scritti in un' italiano zoppicante che dipenderanno dal sostegno dell'inglese. Un tipo italo-inglese, un linguaggio contaminato, molteplice]