Casa famiglia:
Ore 19.30.
In gruppo, riuniti a tavola per la cena.
“...Che schifo questa pasta....”
“...E’ stracotta...”
“...Uffaaaaa sempre il pomodoro...” E via, una raffica di lamentele e proteste.
“In effetti non è il massimo...” confermo.. “Ma qualcosina dovete mangiare!”
Non so come, mi esce un laconico e definitivo: “ Comunque che schifo a tavola non si dice!”
E concludo con la perla educativa e l’indice alzato: “C’è chi è più sfortunato e soffre la fame.”
Camilla
A quel punto Camilla, una ragazzina di dieci anni, esordisce, lievemente schizzinosa, con: “Avrai pure ragione, ma io ad esempio...non vedo più la mamma, il papà è in carcere e quello che mi ha fatto..Beh... lasciamo perdere.... C’è qualcuno di più sfortunato?
Mi guarda con un mezzo sorriso. Non c’è provocazione... semplicemente le ultime frange di un passato malato di cui, in parte, si sta liberando.
Camilla si porta addosso le proprie paure senza barare. Te lo dice che ha paura degli uomini perché potrebbero essere come papà…E’ spaventata dal buio perchè lì prendono forma fantasmi e mostri…
Nelle notti insonni vede mostri ovunque. Che imprigionano il pensiero e l’anima, che risvegliano l’inquietudine del pericolo. Alla mattina, persa in un rituale muto, sistema meticolosa le bambole sul letto. Ne ha nove.
Tornata in comunità, al termine dell’audizione protetta, in cui ha dovuto ripercorrere nei dettagli la geografia della violenza, alla sua preferita ha tagliato i capelli, per poi torturarla di mollette…
“Ora mi somiglia…non è più tanto bella… ma è più vera…”
Quel giorno, in piedi appoggiata al muro dell’aula del Tribunale la guardavo e quasi non la riconoscevo. Lei contratta sulla sedia. Le mani schiacciate sotto le gambe. Con poca voce rispondeva alle domande. Avevamo impiegato settimane a prepararla.Camilla sempre così agitata, insicura, confusa nei suoi discorsi sospesi e pieni di “cioè”. In quel momento risoluta e coraggiosa snocciolava la sequenza del male.
Quella sera abbiamo aspettato che gli altri si addormentassero e ci siamo premiate affondando le dita in un barattolo gigantesco di Nutella, sfinendoci con la versione integrale di “Tutti insieme appassionatamente”.
Sul divano…io, lei e la bambola con le mollette. Tutte e tre in pigiama.
Luca
Mi colpisce il sarcasmo di Luca. “Beh...comunque, secondo me, morire di fame è peggio della lista delle tue disgrazie...”
Lui è un duro.
Dodici anni passati a difendersi nel quartiere. Espressione di sfida. Arrabbiato con il mondo e in guerra perenne con chi tenta di volergli bene. Annientato dall’ esigenza di controllo. Imprevedibile. Tante parolacce e pochi sorrisi.
Nel pomeriggio ci ha fatto impazzire:
“Faccio i compiti. Non faccio i compiti…. Li faccio con te..
No con lei.
Anzi, oggi non ho compiti…”
Con diffidenza ,qualche volta ti abbraccia, ma lasciarsi andare è ancora troppo difficile e allora ti affonda un morso sul braccio.
Poi te lo massaggia…Per un istante fragile e preoccupato:
“Ma no che non ti ho fatto male!”
E per dimostrartelo si morde anche lui con violenza. “ Ecco così siamo pari”.
Sfortune e morsi
Gli altri mi guardano “interrogativi”.
E la conversazione si blocca. Respiro, augurandomi che il simpatico argomento abbia fine.
Ma Luca infierisce: impietoso e divertito, riprende esattamente da dove ci eravamo interrotti.
“Si parlava di fame e sfortune…”
Lo fulmino con lo sguardo. Mi sento un cartone animato, taglio corto e sibilo un improponibile: “Sono ovviamente sfortune diverse...
Frutta ne volete...?”
E propongo le solite mele gialle. Le faccette poco incoraggianti mi fanno desistere.
La normalità di una cena qualunque si mescola al dolore con una facilità leggera e spalanca la possibilità di guardarsi nel cuore.
Depongo le armi: “Ok… esonerati dalla frutta.”
Luca prende una mela e inizia a sbucciarla. La prima metà è per Camilla. L’altra la mangia lui.
Ma l’ultimo morso è tutto per il mio braccio.