La riflessione sulla propria nascita
Un approfondimento: La nascita adottiva
Quanto segue è la risposta data dalla dottoressa Roberta Lombardi (psicologa e psicoterapeuta) a una lettera di una madre che aveva appena scoperto che nella scuola dell’infanzia della sua bambina avrebbero di lì a pochi giorni attuato un progetto sulla nascita, con attività anche corporee (passare attraverso un tunnel di cartone e nascere sbucando fuori dall’altra parte). La mamma non era stata informata per tempo e aveva saputo del progetto solo quando era tutto pronto per l’inizio. La lettera della mamma e la risposta che segue è apparsa sul notiziario di Genitori si diventa, «Adozione e dintorni - gsd informa», febbraio 2014.
Mamma io sono nato dalla tua pancia?
No amore mio, tu eri nella pancia di un’altra mamma, la mamma di prima che ti ha fatto nascere.
Ma eri già nel mio cuore, prima ancora che ti conoscessi, noi ti abbiamo tanto cercato, per incontrarti finalmente e tenerti sempre con noi.
Perché non ero nella tua pancia?
Te l’ho detto, il papà ed io non avevamo bambini, la mamma di prima ti ha tenuto nella sua pancia e noi ti abbiamo tenuto nel nostro cuore, aspettando di poterti abbracciare e adesso sei qui.
Ma perché non ero nella tua pancia? Dai facciamo che ero nella tua pancia? Tu lo dici ed io ci credo.
Sì amore mio facciamo come se eri nella mia pancia, che è bello, e anche io ci credo.
Diventare figli per adozione è un percorso lungo, faticoso, sovente doloroso. Parte da una frattura, che divide la vita del bambino tra un prima e un dopo, uno iato che può essere nel tempo interpretato come vuoto (abisso) o come movimento, passaggio. In questo sta la sfida adottiva, la possibilità di crescere sereni come famiglia, oppure oberati dal peso della diversità. È un percorso che parte da un evento infausto (la separazione, la perdita), spesso poco compreso dal bambino perché troppo piccolo per cogliere la complessità di un cambiamento così drastico (e quindi sostanzialmente subito passivamente), per passare attraverso una storia di amore che (ri)dà fiducia, insegna a credere che amare fa bene, cura e risana.
Mi piace dire che il compito primario dei genitori adottivi è quello di permettere ai propri figli di nascere nell’adozione. E che il compito secondario, nel tempo ma non per importanza, è aiutarli a tollerare e comprendere di essere nati da altri, senza che questo sia pericoloso o spaventoso. Si tratta di procedere attraverso una continua ricerca di occasioni, affinché i propri figli possano crescere sostenendo questa immagine di ‘doppia appartenenza’ con leggerezza, con naturalità, perché possano avere una percezione del Sé coerente e integro nel fluire del loro tempo. Affinché questo avvenga, però, occorrono anni, si cresce insieme (genitori e figli), si costruiscono man mano verità e racconti (la storia di ognuno, in relazione).
Ma come fare ad accompagnare il proprio figlio in questo viaggio, soprattutto quando sono così piccoli?
Sappiamo che la domanda «Mamma, io ero nella tua pancia?» è molto frequente, anzi direi sempre presente nei bambini adottati. I bambini iniziano presto a comprendere il loro stato di adottivi, se i genitori con sensibilità e serenità inseriscono sin da subito, anche per i figli molto piccoli, questa informazione, attraverso favole, canzoni, inventate o tratte dai tanti materiali disponibili.
Quella domanda, dunque, diventa retorica: è frutto di un sapere che ‘non si era’ nella pancia, eppure aspetta di avere una risposta che dica il contrario. Intendo dire che, pur sapendo di essere stati adottati, può esserci il bisogno, in alcune fasi di sviluppo psichico e di consolidamento dell’appartenenza adottiva, di "far finta" che sia altro. La definizione «Tu eri nella pancia di un’altra mamma, quella di prima», non di rado trova una ferma opposizione nel bimbo adottato. Nella necessità di mettere ordine, di dare coerenza a un percorso ancora incomprensibile, di sentire che non c’è separazione con la madre di cui hanno bisogno, nel desiderare fortemente di appartenere non è raro che chiedano di poter ascoltare un’altra storia, di poter credere insieme a una verità differente.
Non è raro che i bambini chiedano alla mamma adottiva di poter ‘ritornare’ (entrare) in quella sua pancia, per recuperare magicamente un tempo mai stato, così che non sia andato perduto. E allora non è raro che insieme si possa immaginare di rimettersi (mettersi per la prima volta) dentro quella pancia, prendendo a prestito dalle coperte il potere di farsi culla-utero, e in quella pancia immaginaria sentirsi finalmente accolti, finalmente uniti con chi il bimbo desidera fortemente stia sempre con lui/lei (sia sempre stato con lui/lei). Ma, attenzione, perché bisogna essere consapevoli che stare nella nascita (raccontandola, drammatizzandola) nel percorso adottivo significa essere pronti ad accogliere, raccontare, sostenere contemporaneamente anche il vissuto dell’abbandono. Significa essere preparati a sostenere il dolore, la rabbia o più ‘semplicemente’ la confusione che queste tematiche, che risuonano così fortemente, possono provocare nel bambino. Solamente quando questo percorso di piena appartenenza si sarà consolidato, e il bambino avrà avuto la possibilità mentale di accedere all’immagine di una madre di nascita accanto a una madre adottiva, si definirà nella sua storia una sorta di armoniosa continuità tra un prima e un dopo.
È possibile che nella sua esperienza di madre adottiva questi aspetti siano già emersi. Forse lei può averli già sperimentati. Sono certa che lei, prima dell’adozione, non immaginava di poter fare queste esperienze, così come è possibile che non ne abbiano alcuna consapevolezza quanti non fanno conoscenza diretta di questo particolare percorso di filiazione. Nella genitorialità adottiva ci sono degli aspetti che ne definiscono la specificità. Emergono e convivono contraddizioni affascinanti, e in primis proprio ciò di cui abbiamo parlato: l’incontro con un figlio partorito da un’altra donna e anche (psichicamente) partorito dalla madre adottiva; una pancia (una mente psichica) che si gonfia (si apre, si allarga) per accogliere un bimbo e farlo nascere di nuovo – per la prima volta – alla vita.
Nella possibilità di tollerare e stare in queste profonde contraddizioni, insistiamo fortemente, come tecnici, sulla necessità di portare al bambino, sin dai primi mesi di vita (o dell’incontro adottivo), delle storie che raccontino l’adozione.
Da una parte si può tollerare che, in modo magico e rituale, si faccia finta che quel bimbo sia sempre stato figlio, dall’altra si riporta (con le parole e nei modi propri dell’età attraverso favole, storie, canzoni) il percorso adottivo che parla di due appartenenze, di un prima e di un dopo, di un di là e di un di qua, affinché pian piano questi aspetti possano trovare spazio e comprensione.
Questa esperienza è molto affascinante, impegnativa, importante. È un percorso molto intimo, proprio dell’essere (in alcuni casi all’inizio dell’adozione del diventare) famiglia. È una relazione fatta di sensibilità e intuito, dove si va avanti e indietro sui temi dell’incontro, dell’appartenenza, dell’identità. Per tutti questi motivi è un percorso che va vissuto dentro la famiglia (il nido) e che certamente non può essere delegato ad alcuno. Anzi ritengo azzardato affrontare questi temi nell’ambito di un rapporto altro da quello madre/ padre-figlio (ovvero con un educatore, uno psicologo, nella scuola) fintanto che la famiglia non li abbia vissuti, sviscerati, sperimentati, e non prima che il bambino abbia consolidato una identità adottiva consapevole e salda.
Quanto precede è un estratto del libro: Una scuola aperta all'adozione di Anna Guerrieri e Monica Nobile