Il tema della ricerca delle origini da parte dell'adottato si presenta come estremamente complesso e delicato soprattutto per le rilevanti implicazioni non solo di carattere giuridico, ma anche psicologico e sociologico. La normativa in materia riflette, infatti, una diversa concezione dell'adozione e della genitorialità in genere. Da un lato non può negarsi che la generazione biologica abbia un peso nella vita di ciascun individuo, se non altro sul piano fisico e del patrimonio genetico, dall'altro è pacifico che l'identità di una persona si costruisce anche – se non soprattutto – attraverso le esperienze che realizza e i legami che intreccia nel corso della propria vita. La soluzione adottata nei diversi paesi è, dunque, frutto del tentativo, alla luce delle proprie radici culturali, di trovare un equilibrio tra queste differenti istanze, non necessariamente opposte, ma di certo non facilmente conciliabili.
In Italia è prevalsa a lungo un'idea dell'adozione come istituto nettamente contrapposto all'affido eterofamiliare, una concezione che la legge sull'adozione (L. n. 184/1983), malgrado successive modifiche, in parte ancora conserva: se nell'affido eterofamiliare si ammette ed anzi presuppone la coabitazione di due famiglie, nell'adozione la famiglia adottiva si sostituisce definitivamente a quella naturale. La logica che supporta – o meglio supportava – questa impostazione può riassumersi nella convinzione di come la scelta migliore, per tutelare l'adottato e la sua famiglia, sia la completa cesura di ogni rapporto con la famiglia di origine. Questa granitica certezza è stata progressivamente erosa dalla diversa prospettiva accolta dalla Convenzioni Europee, ove, per effetto dell'evoluzione ed allargamento della nozione di diritti fondamentali dell'uomo, si è affermata la necessità di tutelare il diritto all'identità personale alla cui costruzione concorre la conoscenza dei dati concernenti la propria origine biologica.
In particolare, il diritto a conoscere le proprie origini biologiche è espressamente riconosciuto dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite in materia di diritti dei minori, dove, all’art.7, si afferma che il minore ha diritto a conoscere, nella misura in cui è possibile, i propri genitori sin dalla sua nascita. Inoltre, la Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993, relativa alla protezione dei minori e alla cooperazione in materia di adozione internazionale, prevede, all’art. 30, che le autorità competenti si impegnino a conservare le informazioni sulle origini del minore, specificatamente quelle sull’identità del padre e della madre, e assicurino l’accesso a dette informazioni al minore ed al suo rappresentante.
Anche in ambito psicologico la visione del nostro legislatore appare riduttiva ed ormai superata. Si può, infatti, sensatamente affermare che i genitori biologici siano sempre presenti anche nella famiglia adottiva: nei ricordi del figlio, se li ha conosciuti, o quantomeno nel suo immaginario quando abbandonato alla nascita. Certamente potrà trattarsi di una presenza solo simbolica e non reale e concreta come accade, invece, nell'affido, e tuttavia di una presenza importante per la costruzione dell'identità dell'adottato dal cui confronto per i genitori adottivi è impossibile prescindere[i].
Fatte queste premesse, e prima di volgere lo sguardo agli altri paesi europei, riassumiamo quanto stabilisce la legge italiana in tema di ricerca delle origini.
Il nostro legislatore ha inizialmente optato per un regime di protezione assoluto dell’identità della donna che si sia avvalsa del diritto di non essere nominata nell’atto di nascita ex art. 30, comma 1, d.p.r. 396 del 2001, escludendo che l’adottato potesse ricercare le proprie origini e venire a conoscenza dei dati riguardanti la madre biologica. Con la legge n. 149 del 2001 la concezione dell'adozione, almeno in parte, cambia venendo introdotto l’obbligo per i genitori adottivi di informare il figlio circa le circostanze della sua nascita e segnatamente in merito alla condizione adottiva; non viene, tuttavia, modificata la disciplina sul parto anonimo né ipotizzato un meccanismo attraverso il quale verificare il permanere della volontà della madre biologica, che abbia optato per il parto anonimo, nel mantenere il suddetto anonimato. La legge 184 del 1983, così come modificata dalla successiva e già citata riforma del 2001, stabilisce condizioni e modalità, attraverso cui i genitori adottivi e il figlio possono acquisire informazioni circa i genitori biologici. In particolare i genitori adottivi possono conoscere l’identità biologica dei genitori biologici su autorizzazione del Tribunale per i minorenni solo se sussistono gravi e comprovati motivi, mentre il figlio adottivo di età superiore ai 25 anni ha diritto di accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Tale diritto è riconosciuto anche al figlio adottivo che abbia compiuto la maggiore età ma solo se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’accesso è sottoposto al sindacato del Tribunale per i minorenni con la sola eccezione del caso in cui i genitori adottivi siano deceduti o divenuti irreperibili. Il sistema, così come costruito, prevede però un grosso ed apparentemente invalicabile ostacolo alla ricerca delle origini da parte dell'adottato: infatti la conoscenza di tali dati resta preclusa ove la madre abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata.
La scelta del legislatore d'impatto può apparire discutibile ed eccessivamente penalizzante per l'adottato, ma bisogna riconoscere che non è priva di una sua ratio. Offrire ad una donna incinta, che potrebbe trovarsi in condizioni personali, sociali ed economiche particolarmente difficili, la possibilità di partorire in una struttura sanitaria in completo anonimato ha (anche) lo scopo di disincentivare gli aborti, gli abbandoni di neonati, gli infanticidi o ancora che il parto avvenga in condizioni improvvisate e che, come tali, possono mettere a rischio la vita tanto della madre quanto del nascituro.
Appare evidente come in questo caso si scontrino due diversi, ma ugualmente rilevanti diritti: da un lato il diritto dell'adottato alla conoscenza delle proprie origini, strettamente correlato, come si è detto, al diritto all'identità ed alla realizzazione personale, dall'altro quello alla riservatezza della madre biologica che, peraltro, non tutela solo la gestante, ma potenzialmente anche il nascituro stesso.
In ambito giuridico, quando due diritti parimenti meritevoli di tutela entrano in conflitto, la soluzione va ricercata nel c.d. principio del bilanciamento.
Allo stato, però, almeno secondo la Corte Europea dei diritti umani, la nostra normativa non è riuscita nell'intento di dettare una disciplina equilibrata dal momento che è il diritto della madre a partorire in anonimato a prevalere su quello dell'adottato a conoscere le proprie origini. Nell'ormai celebre sentenza Godelli contro l'Italia del 2012, la Corte Europea, pur riconoscendo la necessità di tutelare la partoriente, ritenne come fosse parimenti necessario dare alla madre la possibilità di revocare la decisione dell’anonimato di fronte alla richiesta del figlio, rinviando al legislatore nazionale il compito di individuare il procedimento volto a rendere effettivamente possibile l’esercizio di tale diritto.
A seguito della sentenza Godelli contro l'Italia, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013, mutando il proprio precedente indirizzo[ii], ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della nostra normativa nella parte in cui non prevede – sia pure attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.
In attesa di una legge che ottemperi alle indicazioni della Corte Europea e della Corte Costituzionale (il disegno di legge sulla ricerca delle origini giace da tempo in Parlamento) sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1946 del 2017: secondo gli ermellini il giudice, in caso di parto anonimo, non può negare al figlio l’accesso alle informazioni sulle sue origini, senza avere precedentemente verificato, con le modalità più discrete possibili, la volontà della donna di mantenere l’anonimato. La latitanza del legislatore non può in altri termini giustificare la compromissione di un diritto: i giudici non potranno rigettare la richiesta del figlio senza aver prima verificato l'attualità della volontà della madre biologica di rimanere anonima.
La soluzione individuata riflette l'attenzione della nostra giurisprudenza rispetto alle fonti internazionali e alle esperienze degli altri paesi europei.
Così, ad esempio, la Francia, nel tentativo di contemperare i contrapposti interessi in gioco, ha modificato la propria precedente legislazione in materia di parto anonimo attribuendo alla donna la facoltà di revocare la sua decisione riguardo all’anonimato. Se, tuttavia, la madre biologica si oppone alla rimozione del segreto negando la possibilità di svelare la propria anche dopo la sua morte, al figlio resta definitivamente precluso di poter conoscere le proprie origini.
Né la Francia rappresenta nel panorama europeo un caso isolato. Sono molte, infatti, le legislazioni europee contemplanti la possibilità del parto anonimo in cui il diritto a conoscere le proprie origini è riconosciuto non solo in astratto, ma anche in concreto attraverso la predisposizione di strumenti ad hoc in grado di rendere effettivo l’esercizio di tale diritto (così, ad esempio, in Germania, Svizzera, Olanda e Spagna) . In Germania, in particolare, il diritto a conoscere le circostanze della propria nascita è considerato un diritto fondamentale della personalità, espressione del diritto generale alla dignità e al libero sviluppo della personalità umana, ed è riconosciuto anche al figlio nato a seguito di procreazione medicalmente assistita che ha, appunto, il diritto di conoscere i dati personali del donatore.
In una materia così complessa e ricca, come si è visto, di molteplici implicazioni, è lecito supporre che neppure le soluzioni adottate negli altri paesi siano idonee a risolvere sempre e con equilibrio ogni possibile questione pratica che possa eventualmente presentarsi - si pensi, ad esempio, all'ipotesi in cui la madre biologica sia incapace di intendere e di volere e quindi di esprimere un valido consenso – ma è indubbio che, se pur perfettibili, le accennate normative hanno il pregio di riflettere un modello di tutela non così fortemente sbilanciato in favore della madre biologica.
Non resta che auspicare che anche il nostro paese, pur con il ritardo che, purtroppo, lo ha già contraddistinto in passato in materia di tutela dei diritti civili, raccolga, infine, il monito della Corte Europea riscrivendo una normativa che non rispecchia né le altre esperienze europee né, ormai, il comune sentire.
[i] Secondo O. Greco, Terre di confine tra affido e adozione: questioni aperte: “sia nell’affido che nell’adozione, infatti, i diversi registri genitoriali – la funzione accuditivo-educativa e di cura dell’inserimento sociale, il riferimento alla dimensione storica e intergenerazionale della famiglia e la trascrizione psichica della continuità biologica - non rimandano ai medesimi genitori, per cui il tema della filiazione chiama obbligatoriamente in scena un 40 terzo, distante o perduto sul piano della realtà, ma destinato ad essere strutturalmente presente sia nelle fantasie di ciascun soggetto, sia nel vissuto delle relazioni familiari. Per l’intreccio delle valenze genitoriali nelle famiglie strutturalmente complesse, come quelle affidatarie e adottive, si può parlare perciò di genitorialità condivisa, nel primo caso anche tangibilmente, nel secondo a livello simbolico”
[ii]Corte Costituzionale, sentenza 25 novembre 2005, n. 425 aveva ritenuto legittima la tutela dell'anonimato della madre, senza limiti temprali, affermando in particolare che la scelta della gestante “sarebbe resa oltremodo difficile se la decisione di partorire in una struttura medica adeguata, rimanendo anonima, potesse comportare per la donna, in base alla stessa norma, il rischio di essere, in un imprecisato futuro e su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, interpellata dall'autorità giudiziaria per decidere se confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volontà”