Autore: 
Simone Berti Anna Guerrieri

Quattordici anni fa una ragazza poneva termine alla sua vita. Era anche una ragazza adottata. Non c'erano i social, ma i giornali si e i forum di genitori adottivi. Il dibattito sul perchè avesse posto così fine alla sua vita fu forte. Genitori si diventa decise di dare un suo contributo ad un tema difficile, doloroso, facilmente sfruttabile dai mass media. Oggi quello stesso articolo sembra piuttosto attuale.

Dentro ognuno di noi vive un nucleo di dolore ed angoscia pulsante che talvolta non riusciamo a ridimensionare. Un frammento di notte che si ingigantisce e diventa un buio senza vie d’uscita, una trappola troppo piena di voci confuse e concitate, che non ci lasciano risorse. Il pensiero della morte che sale come una marea cupa. La sensazione di non contare per nessuno, di non esserci. La rabbia raccontata a se stessi che si traduce in un atto d’impulso e senza ritorno. Dolore subito, dolore inflitto a chi ci ama.

Passiamo la vita ad evitare la morte a negargli spazio e spesso ci consegniamo alla morte come presi alla sprovvista e impreparati perché abbiamo vissuto preoccupati a schivarla e rimuoverla dal nostro quotidiano, accantonarla. Tutta la nostra struttura sociale è complice in questo. Viviamo in una grande struttura di evitamento: scegliamo attentamente il cibo, curiamo il nostro corpo, controlliamo e miglioriamo le nostre funzionalità convinti di poter evitare i limiti della nostra fisicità. Eppure nessuna struttura sociale, nessun ordine può preservarci dalla nostra propria morte. Nessuna palestra, vitamina, nessuna buona prassi o magia della medicina può salvarci. Quando improvvisamente la morte irrompe nel reale, nella vita, con tutta la violenza di ciò che non vi ha posto, dobbiamo rimuoverla e allontanarla il più possiblie e la affoghiamo in un nubifragio di parole. Quasi si trattasse di un rito magico, un esorcismo. Ne parliamo tanto dopo di quella morte che troppe volte manchiamo di nominare prima, di dirla, farla apparire, come pensiero, come timore o desiderio. Eppure, a volte, consentire che si dica, lasciarla attraversare la nostra esistenza, potrebbe diventare l’unica forma reale di prevenzione. L’immagine della morte è sfuocata per molti giovani perché è passata sotto silenzio o caricatura. La morte nei film, nei fumetti, nei videogiochi è contesto quotidiano. La morte degli anziani, di chi ci è accanto, quella vera, è negata, nascosta, taciuta, confinata agli ospedali, a pochi minuti di funerale. Una bara tirata a lucido. 

La volontà di morire in un bambino o in un ragazzo  può affacciarsi più volte e restare più a lungo di quanto non si pensi ma poiché è un pensiero che fa orrore non consentiamo che trovi uno spazio di espressione. La nostra società non è in grado di fare entrare la morte nella vita neanche come parola, come detto,  laddove invece fa parte dei pensieri dei ragazzi. E a volte un desiderio di morte, nella depressione per esempio, trova il modo di manifestarsi solo attraverso la mancanza di autostima, disprezzando se stessi e le persone che si prendono cura di noi. Ci si può sentire in colpa perché si è sopravvissuti, e a volte lo si è fatto anche a dispetto del desiderio della propria madre o padre. Così disprezzandomi, io li posso salvare. Ma ci si sente ancor più disprezzati quando  questo desiderio non ha diritto di esistenza non viene compreso, riconosciuto, umanizzato e restiamo soli.
Perché siamo noi adulti che non riusciamo a parlare della morte, del desiderio di morte, del vuoto, ma solo della morte avvenuta per riallontanarla.

La morte interviene come una rottura del senso, nel suicidio si avverte ancora di più questo disorientamento completo, la perdita totale di un ordine. Mette alla prova lo stesso legame sociale. Perfino  le statistiche sul suicidio sono alterate perché in genere si preferisce parlare di incidente e non si nomina il suicidio se proprio non è inevitabile. Si preferisce lasciare dei dubbi, si dice, per non affliggere la famiglia..
La morte di un giovane e di un figlio è qualcosa di inconcepibile ed indicibile. Siamo solo in grado di affannarci intorno alla ricerca di cause. Darsi ragioni. Rintracciare la causa perché ostinatamente continuiamo a cercare qualcosa che ci possa preservare dall’irruzione  dell’insensato: E’ stato un attimo, ho vacillato ma adesso tutto è passato. Non era niente. Perché nell’epoca che viviamo tutto deve essere dominato, amministrato gestito, anche il dolore, la sofferenza, la morte.

Il suicidio di un giovane è una tragedia che fa male, su cui tutti dovremmo sentire un pudore estremo a penetrare. Qualcosa che ci priva di una luce, sempre e comunque. Invece fa notizia, va sui giornali, e siccome in realtà nessuno ha voglia di ascoltare, di guardare per davvero quello spicchio di notte che ha inghiottito una persona giovane, si preferisce commentare, si cercano delle soluzioni facili e banali. Un brutto voto a scuola. La società che non guarda. Il gruppo dei pari. Gli insegnanti. Il colore della pelle. L’adozione. Etichette etichette per allontanare da sé. Per vederli un po’ malati tutti questi giovani d’oggi. Un etichetta vale l’altra, sono sostituibili, interscambiabili: adolescente uguale malato, problema, bullo, stupratore, vittima, abusata, gioventù senza scopi e speranze. 
Siamo una società guardona, pruriginosamente interessata al male degli altri, agli orrori quotidiani di alcuni di noi: stragi, assassini, serial killers, madri che uccidono figli, figli che uccidono genitori, figli che si uccidono.

Guardiamo la morte ma evitiamo di pensare alla nostra. Guardiamo il dolore degli altri e teniamo ben segreto il nostro. Guardiamo anche la gioventù e abbiamo paura anche di quella, dimenticando la nostra.

Per dimenticare ed allontare la morte dalla nostra esistenza la si esibisce senza rispetto. Nella somministrazione continua di narrazioni toccanti o sconvolgenti, immagini crude, diventiamo spettatori, la allontaniamo prima da noi e poi la dimentichiamo velocemente. La società dello spettacolo dimentica facilmente, la commozione dura quell’attimo, il dolore viene facilmente obliato, messo da parte. Colui che ne è stato travolto accantonato, resta solo, nuovamente isolato. Siamo senza memoria. Per un momento quel dolore è stato di tutti per convincerci che in fin dei conti non è mai stato il nostro.

Il suicidio non è una notizia, il suo posto su un giornale è solo un alibi per chi resta. 

Simone Berti, psicoanalista

Anna Guerrieri, caporedattrice


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Data di pubblicazione: 
Sabato, Giugno 5, 2021

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Monica Nobile – pedagogista, tutor dell’apprendimento, counselor.
Sonia Oppici
Marina Zulian
Sonia Oppici
Monica Nobile – pedagogista, tutor dell’apprendimento, counselor.
Sonia Oppici, psicologa giuridica e psicodiagnosta