L'esperienza della pedagogista Greta, condivisa con gli insegnanti nel lavoro svolto in classe, è un aiuto prezioso per genitori, docenti e bambini.
Narrarsi è l’azione più antica, spontanea e preziosa di sempre che ha permesso così di tramandare le storie.
Quando pensiamo alla narrazione ci vengono in mente le parole “dette”, per mezzo della voce, o della scrittura in modo da lasciare traccia. Ma in fondo quanti modi esistono di narrarsi? E, come lo fanno i bambini?
Varcando le soglie della scuola si può conoscere da vicino il variegato mondo della narrazione, sperimentando i molteplici significati che può assumere; scoprendo così, che alle volte le parole non sono abbastanza.
Stando a fianco dei bambini si apprende come ci si possa raccontare in molti modi; per esempio, alcuni hanno bisogno di silenzio, altri mescolano la loro storia nel frastuono, alcuni ci parlano di Sé saltando da una parte all’altra, altri ancora si trincerano in un angolino sperando di non essere notati. Così scopriamo che dentro la narrazione, ancor prima della parola, ci sta il corpo che sa raccontare di noi in modo immediato. Se ci pensiamo, già i nostri tratti raccontano di noi, il colore della pelle richiama un’origine, l’espressione del nostro volto ci racconta un’emozione. E così, fisicità e movimento sanno essere un connubio per iniziare un racconto, spesso spontaneo, di chi siamo e, soprattutto, come stiamo.
Come stiamo
Ebbene sì, “come stiamo” è indispensabile in tutto ciò che facciamo, perché definisce “come” siamo in grado di stare in quella situazione, in quel preciso momento, e “quanto” siamo in grado di apprendere da ciò che sta al di fuori di noi. Alcune volte, quando “testa” e “cuore” sono troppo pieni, si fa fatica a far spazio ad altro.
Per questo, diviene fondamentale il rispetto del “tempo”, che per ciascuno sa essere diverso, soprattutto tra adulti e bambini. Ci sono bisogni del “qui ed ora” che spesso contrastano, che laddove l’adulto vorrebbe, il bambino sembra non cogliere, o meglio, non sente che è ancora arrivato quel tempo e quello spazio per lasciarsi andare. Questo ci aiuta una volta di più a riflettere su come i “nostri tempi” non coincidano sempre con i “tempi” di chi abbiamo di fronte e forse la cosa più difficile, ma necessaria, è sapersi mettere a fianco senza sostituirsi.
E così, credo che sia importante tessere giorno dopo giorno uno spazio di narrazione in cui possano essere messi in circolo degli stimoli, in cui ciascuno possa riconoscersi, nella libertà di donarsi. In tutto questo, le storie, attraverso gli albi illustrati, possono divenire validi mediatori per permettere a ciascuno di trovare la propria “giusta distanza”. Penso che se voglio affrontare in classe un argomento specifico, come l’adozione per esempio, non sia necessario portare storie che dirompono subito nell’argomento, quanto piuttosto essere consapevole, dapprima, che l’adozione è composta da tanti “ingredienti” che mano a mano mi sapranno condurre verso quel tema specifico; pertanto si potrebbero proporre storie che raccontano di diversità, di relazione con l’altro, di cura, di fragilità, di resilienza, di empatia. In questo modo ciascuno saprà prendere parte al racconto, trovando il proprio posto per dire di Sè.
Si pensi così ad un albo, come “I 5 malfatti” di Beatrice Alemagna, che porta il lettore a scoprire come, ciascuno nella propria “imperfezione” possa divenire “perfetto” e unico; o ancora come il grande classico “Piccolo blu, piccolo giallo” di Leo Lionni possa venirci in aiuto per mostrarci come le storie di vita sappiano “contaminarsi” divenendo ricchezza per chi le sa accogliere.
E se poi, l’adozione ha come ingredienti essenziali “la cura” e “l’empatia”, il signor Amos dall’albo “Il raffreddore di Amos Perbacco” di E. Stead accompagna il lettore, pagina dopo pagina, verso la delicatezza del donarsi all’altro con amore e pazienza nella specificità di ciascuno.
Ma quando invece troviamo quel bambino che vuole raccontarsi, che vuole far partecipi tutti del suo vissuto… cosa si può fare?
Ci sono altre situazioni, quelle in cui c’è quel bambino, che è più pronto di noi, che vorrebbe raccontare aneddoti della sua vita, anche difficili; magari in quel frangente è l’adulto a non “sentirsi adeguato”, ed allo stesso tempo gli altri bambini saranno pronti ad accogliere quel vissuto?
Fermarsi...accogliere...fare spazio
Non sempre la narrazione avviene come la si è pensata, a volte ci coglie di sorpresa, perché è nato un bisogno che dev’essere accolto. Fare l’insegnante in queste circostanze, è un po’ come essere un equilibrista in un circo, sai che un passo sbagliato può portarti a cadere, ma in questo caso non sei il solo a farti male. Bisogna essere attenti, far spazio, sapere che probabilmente ci si dovrà fermare, che quello che si era pensato di fare non lo si farà e che forse arriveranno domande, o forse solo silenzi. Ricordo bene, quando in classe, quella mattina, è arrivata lei a dirci: “Io penso che tutto ciò che mi è successo sia per colpa mia!” … Ricordo lo sguardo dell’insegnante che mi guardava, ricordo le mie emozioni che stavano entrando in gioco, ricordo lo sguardo di tutti quei bambini che avevano captato e volevano sapere da noi. In quel momento lei aveva trovato spazio per dirci di quel macigno che sentiva dentro, e noi lo portavamo con lei, consapevoli che un abbraccio era necessario ma non abbastanza. Così abbiamo fermato tutto, e abbiamo tirato fuori quella paura, perché con quella in testa, non ci sarebbe stato spazio per fare altro. Ci siamo confrontati su quanto alle volte dietro ai bambini ci possano essere adulti che sbagliano, forse perché ancor prima qualcuno ha sbagliato con loro; e che per saper dare amore bisogna averlo sperimentato, coltivandolo ogni giorno…
Vedevo che mano a mano la sua paura si scioglieva, forse non è stata del tutto esaurita, ma quel che conta è che abbia trovato la possibilità di tirarla fuori. Credo che questo sia il compito più complesso e necessario per chi vive la scuola oggi, sapersi mettere a fianco delle specificità di ciascuno, consapevoli che non sempre andrà come avevamo immaginato.
In questo episodio mi ha colpito come il resto della classe abbia agito, mettendosi in ascolto, provando a trovare una soluzione per quella compagna che stava male. Questo ci fa riflettere su come sia necessario il lavoro con il gruppo classe, perché il movimento di narrazione, talvolta involontario, ha necessità di un movimento di accoglienza e di ascolto che invece necessita di un allenamento costante.
Dare forma
La narrazione, se allenata, sin dai primi anni di vita, può essere di grande aiuto per sviluppare un clima di benessere in classe. Quest’anno sono stata accolta in una sezione dell’infanzia con bambini di 3 anni per svolgere dei laboratori sul tema dell’accoglienza e del benessere delle storie in classe; inizialmente avevo qualche dubbio, mi pareva che la sfida fosse davvero grande; eppure nel giro di qualche incontro ho compreso, invece, quanto fosse importante già a partire da quell’età, poterci fermare e costruire mano a mano una rete fatta di storie e specificità; attraverso i racconti proposti, i bambini hanno saputo raccontare ciò che li appassiona e fa venire loro il sorriso.
Ancora, penso all’importanza della flessibilità, perché se alle volte gli albi illustrati ci possono aiutare, altre volte c’è chi ha bisogno d’altro; con i più grandi la musica può condurci nel loro mondo. Abbiamo sperimentato che canticchiando una canzone si possono dar forma a tasselli di esistenza, ognuno può fermare la melodia su un pezzo, quello che sente risuonare meglio dentro di Sé per dargli forma. Alcune volte la parola si può unire alla melodia, e se non è abbastanza ci possono aiutare sale, farina, caffè, sassi, sabbia, foglie per raccontare una storia… la propria!