Articolo pubblicato nel Marzo 2013 nella rivista di Genitori si diventa "Adozione e dintorni" col titolo "Imparare in tempi di crisi".
<< Non temere i momenti difficili, il meglio viene da lì. >>
Rita LeviMontalcini
Sovente si parla delle difficoltà di inserimento a scuola del bambino adottato. Molto meno si è discusso finora delle difficoltà scolastiche dei giovani adolescenti con storia adottiva, ovvero dei problemi che insorgono nella scuola secondaria. L'esperienza di molte famiglie adottive però testimonia le difficoltà a scuola di molti ragazzi, adottati ormai molti anni prima. Anzi, sovente i problemi iniziano proprio gli ultimi anni delle scuole medie e ancora di più alle superiori.
Ma queste difficoltà possono esser tutte ricondotte al particolare percorso di abbandono / adottivo, o non possono invece essere determinate da fattori propri di quel ragazzo, quella famiglia, quella scuola, al di là dell'adozione?
Lo specifico adottivo
Credo che prima di ogni ragionamento, bisogna quindi chiedersi se riteniamo opportuno trattare l'adottato come una ‘categoria' che caratterizza i figli negli anni; e se si fino a quando? Ovvero,mi chiedo: esiste uno specifico adottivo? Ovvero,si rimane adottivi per sempre? Sempre figli, sempre fragili, e quindi sempre da tutelare?
E quindi, i problemi scolastici che eventualmente un ragazzo può presentare a 12-19 anni in che misura possono essere ricondotti ancora alla dimensione adottiva, ed è giusto farlo?
Sono dell'idea che l'essere stato adottato non può e non deve essere ritenuto un handicap. Pertanto pretendere a scuola un trattamento differente per questo, rispetto a quello messo in atto verso gli altri alunni, può veicolare un pericoloso messaggio di diversità che non è d'aiuto né per il ragazzo in sé, né per la sua crescita ed integrazione nel gruppo classe. Ritengo che l'essere adottati sia un elemento proprio della identità, non invece un elemento di fragilità.
In verità non è neppure una risorsa. E' una condizione.Che come tale caratterizza alcuni aspetti della vita. A volte spiega molto di quanto accade, soprattutto nella fase dell'adolescenza. Sono infatti d'accordo con Winnicott che afferma che "durante l'adolescenza i figli adottivi non sono come tutti gli altri, per quanto invece si faccia finta che lo siano". Pertanto sono portata a pensare che si, esiste uno specifico ‘adozione' nei problemi scolastici dei figli nelle scuole di secondo grado, anche se l'esperienza abbandono/adottiva non può essere naturalmente l'unica chiave di lettura di tutti i problemi che si possono presentare, né in sé una condizione necessariamente limitante.
Ottimi percorsi scolastici, resilienza
E' evidente in svariati studi, al contrario, che molti adottati hanno degli ottimi percorsi scolastici, a volte anche migliori di figli non adottivi. Eppure gli operatori dell'adozione sanno bene che la domanda di consultazione da parte delle famiglie adottive arriva sovente proprio a seguito di difficoltà scolastiche, a conclusione di un ciclo con lo spauracchio della bocciatura, o all'inizio dell'anno quando - nonostante le promesse dell'estate - iniziano le prime assenze o si scopre che i figli marinano la scuola.
Quindi, seppure i ragazzi che presentano problemi a scuola non rappresentano grandi numeri, in quelle situazioni dobbiamo riconoscere che la famiglia vive uno stress davvero notevole e quindi merita delle risposte, delle chiavi dilettura, delle strategie. Inoltre, va anche rilevato che sovente la buona riuscita scolastica di un figlio adottato è l'effetto di un impegno eccezionale in termini di tempo, di forze ed anche di spese economiche da parte della famiglia, per sostenere a casa questi ragazzi con ripetizioni, o con un accompagnamento ai compiti da parte dei genitori stessi o (in casi nient'affatto rari) con l'attivazione di percorso privato di studi.
Quindi se moltissimi giovani con storia adottiva riescono negli studi è anche perché loro stessi e le loro famiglie rendono possibile, con grandi sforzi, il miracolo della cura delle ferite e del superamento del gap iniziale. Questo per tutta la durata del percorso di studi, e non solo nella scuola primaria.
Questo impegno eccezionale va riconosciuto alle famiglie dalla scuola e quei ragazzi vanno maggiormente compresi nei loro sforzi. Diventa allora importante poter comprendere quali possibili difficoltà questi giovani più frequentemente affrontano.
Tre chiavi di lettura
A mio parere tre diversi aspetti giocano un ruolo importante nella riuscita scolastica dell'adolescente con storia adottiva nelle scuole secondarie:
- La specificità del percorso scolastico - formativo prima dell'adozione e le sfide derivanti dalla perdita della L1 (Linguamadre) a vantaggio della L2 (seconda oingua acquisita)
- La persistenza di fragilità proprie della storia di abbandono e diistituzionalizzazione subita
- Il dover fare i conti con il passato
Analizzeremo ciascun aspetto traendone indicazioni di intervento.
Primo Focus: La specificità del percorso scolastico-formativo prima dell'adozione e le sfide derivanti dalla perdita della L1 a vantaggio della L2.
Come prima generica riflessione, è evidente che una inadeguata o del tutto assente scolarizzazione impone un recupero faticoso e lento al figlio adottivo, tanto da compromettere la performance anche alcuni anni dopo l'arrivo. In secondo luogo va tenuto conto che anche i bambini che sono stati scolarizzati devono affrontare degli ostacoli nel cambiamento.
Per i bambini adottati‘grandi' (un numero sempre maggiore) nell'adozione internazionale, questo aspetto si presenta come molto rilevante, almeno negli anni delle medie - primosuperiore. In particolare ritengo utile tener conto:
- a. della diversità dei metodi di insegnamento utilizzati nelle varie materie nella scuola italiana ed in quella di provenienza. Un esempio è la diversa concezione in paesi come la Russia nell'apprendimento della matematica: il diverso utilizzo dell'apprendimento basato sui problemi, dell'esplorazione e dell'indagine, così come dell'utilizzo di contesti di vita reale per rendere la matematica più pertinente all'esperienza degli studenti o l'utilizzo di strategie di memorizzazione.
- b. della notevole diversità nelle regole che definiscono lo ‘stare in classe' nonchè il rapporto ‘insegnante - docente'. Esempio banale è quello dei ragazzi provenienti da scuole rurali dei piccoli villaggi africani, in cui l'insegnamento si svolge prevalentemente all'aperto, che si ritrovano a confrontarsi con una concezione scolastica in cui la ‘classe' è il luogo privilegiato dell'apprendere. O, di diverso tenore, il notevole disorientamento di quei ragazzi che hanno studiato nella scuola russa, caratterizzata da una impostazione molto severa, in cui si da grande importanza alla disciplina, in cui gli insegna ti tendono ad avere un rapporto con l'alunno basato sulla autorità, sul distacco e sulla costante valutazione dell'apprendimento. O anche,sempre a titolo di esempio, la difficoltà di quei ragazzi che nel Paese di provenienza erano stati inseriti nelle scuole speciali (perché portatori di un disagio o di un handicap), che si ritrovano ora inseriti (finalmente, ma anche con qualche difficoltà) in contesti basati sulla integrazione e sulla valorizzazione delle differenze;
- c. del cambiamento dei riferimenti: avvenimenti, luoghi, nomi di popoli e personaggi proposti nelle nostre scuole sono molto distanti rispetto a quelli appresi nel Paese di origine. Quello che devono riuscire a fare questi ragazzi già scolarizzati, è un difficile ri-orientamento, troppo spesso sottovalutato nell'impegno cognitivo che richiede. Per comprendere cosa intendo, posso fare un semplice esempio: non c'è da stupirsi se un ragazzo che proviene dall'India, arrivato in Italia da pochi anni, fa fatica a trovare il suo paese di origine su una cartina geografica (percependo di rimando una notevole confusione), essendo stato abituato per molto tempo ad una diversa rappresentazione del mondo, non eurocentrica, ma con il continente Asiatico al centro del planisfero.
Infine merita una riflessione particolare l'esperienza di aver lasciato la propria lingua madre primaria in sostituzione con la lingua madre secondaria.
Imparare la L2+
Sappiamo bene che l'apprendimento delle nuova lingua nell'adottato è molto veloce. Gli adottivi dimenticano quasi completamente la propria lingua d'origine nel giro di poche settimane, prima ancora di acquisire la lingua adottiva. E quasi tutti gli adottivi apprendono la nuova lingua così bene da non presentare un accento che tradisce la loro provenienza.
A differenza dei bambini di famiglie migranti gli adottivi non sono affatto bilingui, se non per un brevissimo periodo all'inizio dell'adozione. La capacità ricettiva può perdurare a lungo, ma in capo ad un anno ogni uso funzionale della lingua d'origine viene a perdersi, e a volte anche prima. Molti studi hanno analizzato le ragioni di questo oblio, concludendo che dimenticare la lingua madre è premessa indispensabile dell'integrazione nella famiglia adottiva e nella nuova cultura.
Non appartenere più - nuova appartenenza
Madrelingua, è la definizione che "universalmente" si da alla prima lingua che gli individui cominciano a parlare. Queste immagini verbali esprimono suggestivamente l'idea che "la funzione del linguaggio venga ‘presa' e appresa attaccati al seno materno, insieme al latte". L'esperienza di cambiamento catastrofico che l'adozione rappresenta ha in sé un elemento di grande vitalità che si esprime proprio inizialmente nella necessità di apprendere la lingua familiare sostituendola del tutto alla prima, tanto da poter essere definita lingua materna secondaria (che preferisco distinguere dalla seconda lingua chiamandola L2+).
La lingua materna secondaria (L2+), andandosi a sostituire del tutto alla L1, diventerà anche la lingua interiore; quell'unica lingua che può dare parole alle esperienze della vita, successiva ma anche precedente l'adozione. La nuova lingua, emblema del sistema difensivo che il bambino mette in atto rispetto alla sua vita precedente, diventa significante della nuova appartenenza. Offre l'opportunità di stabilire un nuovo autoritratto che può soppiantare le antiche immagini: E' ‘nuova identità'.
Ma c'è un prezzo da pagare per questo. Il rischio che si corre è quello di una scissione che si opera proprio attraverso la lingua, e che riguarda l'identità: la lingua adottiva viene a delimitare proprio quella frontiera tra il se e il non-se, può diventare la protezione dietro cui difendere la propria identità profonda e quindi può essere un espediente per mutilare il proprio mondo interno (seppure contemporaneamente rappresenta un'ancora di salvezza, un rifugio per ‘rinascere'), le immagini a cui non si vuole - può più accedere.
La L1 rappresenta per il figlio adottato l'origine perduta, il radicamento impossibile, "la memoria a perpendicolo, il presente in sospeso" si esprime - percosì dire- con il silenzio, attraverso la mancanza di parola.
Diviso tra due lingue, quella materna tenuta nascosta ed inaccessibile, e quella nuova, appresa ma a volte inefficace a descrivere il pensiero piuttosto che il mondo, il ragazzo preferisce non parlare. Un silenzio, dunque, che mette anche al riparo dall'imbarazzo di non essere capiti o di commettere degli errori.
Dice Igor, 20 anni, V° superiore: "a volte mi mancano le parole. Mi piacerebbe disegnare, a volte è quasi più facile scrivere che parlare" Dice Anica, 16 anni, 1° superiore: "dottoressa ti posso scrivere su facebook, mi viene meglio. "Io non so parlare" Dice Violeta, 16 anni, II° superiore: "Se mi fanno fare il compito scritto capisco meglio, le parole scritte hanno più senso .... Puoi chiedere al professore se mi interroga per iscritto?"
Forse diventa piu' facile scrivere che parlare perché per alcuni bambini adottati in età pre-scolare o mai/malscolarizzati, la scrittura è esperienza ‘primaria' nel post adozione, non ha concorrenti, e quindi può essere più facilmente depositaria di emozioni altrimenti indicibili nelle nuove parole.
Ma quale italiano parla?
La letteratura sull'argomento distingue tra le basic interpersonal communicative skills, ossia il vocabolario di base e la padronanza delle espressioniquotidiane - abilità linguistiche usate nella conversazione comune che gliadottati padroneggiano molto bene -, e le cognitive/academic linguistic abilities, usate in un linguaggio più astratto e necessario per l'apprendimento scolastico: per queste sono necessarie una grammatica più raffinata e un vocabolario più ampio, che padroneggia sinonimi e contrari.
A questo proposito rilevo, dopo circa un anno di scolarizzazione, il ricorso frequente alla richiesta di intervento logopedico, proprio quando al bambino sono richieste competenze linguistiche più avanzate perché inserito a scuola. Ma è soprattutto nelle classi superiori della scuola dell'obbligo che queste difficoltà emergono massicciamente, a causa di una maggiore pressione all'utilizzo di un lessico specialistico, spesso lontano dalla lingua comune. Alcuni adolescenti con storia adottiva evidenziano inoltre difficoltà nello studio delle singole materie, più in generale, per la fatica di intendere concetti astratti e per il gap nella comprensione del significato globale di un testo.
Le cause sono la presenza nei testi scritti, sempre più articolati, di termini polisemici o delle sinonimie[1] o, per alcune materie specifiche come nel caso della storia, per le particolari caratteristiche morfo sintattiche: una sintassi molto complessa, che vede l'uso frequente del gerundio, del participio passato, di forme passive ed impersonali. Quegli stessi ragazzi sono invece capaci di gestirsi molto bene in situazioni di linguaggio comune.
Si può pensare che queste difficoltà nell'uso scolastico della L2+ riguardi i ragazzi adottati più tardivamente. Gli studi da più parte ci dicono che il gruppo di adottivi più a rischio nell'apprendimento della nuova lingua sono,al contrario, i bambini adottati tra i quattro e gli otto anni, e non i bambini adottati ‘grandi'. Quando l'adozione è avvenuta prima dei quattro anni, i bambini hanno davanti a sé un periodo lungo di apprendimento prima di entrare a scuola, mentre i bambini di più di otto hanno già imparato a leggere e a scrivere nella lingua madre e possono pertanto trasferire alcune abilità cognitive nella nuova lingua.
Mentre gli adottati tra i quattro e gli otto anni si trovano in una fase in cui il linguaggio dovrebbe essere consolidato, ampliato, mentre si trovano ‘a dover ricominciare da capo'. Spesso i genitori adottivi, stupiti e soddisfatti per i rapidi progressi in abilità comunicative di base, non si rendono conto del bisogno di un supporto linguistico ulteriore. Quando il problema diventa evidente, questo richiede uno sforzo di recupero maggiore. E il tempo in cui ci si pone il problema, sovente coincide con le maggiori richieste di prestazione proprie della scuola media o ancor più superiore. In quegli anni, a volte lontani dall'evento adottivo, lo sforzo richiesto ai ragazzi, sia a scuola sia a casa (nei percorsi di recupero pomeridiano) facilmente trascura una analisi del percorso affrontato (in termini di apprendimento, di sviluppo linguistico, di competenze cognitive e di gap relativi) e centra invece sulle singole materie da apprendere e sul rendimento conseguente.
Quali interventi, quali strumenti, quale modalità?
I genitori adottivi sono molto interessati alla vita scolastica del figlio, certamente perché (come spesso si dice) ne fanno anche un metro della adeguatezza del ragazzo alle aspettative di una vita ‘sana' e di loro stessi in quanto genitori ‘adeguati'. Ma obiettivamente chi rileva delle fragilità nel figlio non può sottrarsi al grande impegno in termini di tempo, energie e costi per sostenerlo al fine di una riuscita adeguata. Tutto questo andrebbe maggiormente riconosciuto dal sistema scolastico, affinché la famiglia si possa sentire sostenuta in un percorso CONDIVISO. Occorre dal canto suo che la scuola possa uscire da una logica del ‘profitto' e in alcuni casi (e gli adottivi sono tra questi) premiare il movimento, prima ancora che il risultato. Chiediamoci: da dove partono questi ragazzi? Quale percorso hanno svolto sinora? Che risultati hanno ottenuto e, in previsione, quali risultati ci aspettiamo? Quanto tempo hanno ancora? Questo significa fare un progetto condiviso scuola - famiglia.
Secondo Focus: La persistenza di fragilità proprie della storia di abbandono e di istituzionalizzazione subita prima dell'adozione
Il secondo aspetto che va tenuto in conto per comprendere lo sforzo di alcuni adolescenti con storia adottiva nel percorso scolastico, riguarda l'effetto che può avere anche dopo anni l'esperienza traumatica subita, sia sul rendimento (capacità di apprendere) che nella partecipazione alla normale vita scolastica (capacità di svolgere compiti, di essere interrogati, di lavorare in gruppo), sia sulle relazioni con i pari (capacità di stare in relazione e non isolarsi). Parlo di ragazzi svogliati nello studio, facilmente distraibili, che sembrano funzionare solamente con una persona accanto, che li guarda, che da loro l'energia per procedere, che funge da IO ausiliario.
La scarsa consapevolezza del proprio valore
Sappiamo la capacità resiliente degli adottivi nel far fronte alle proprie fragilità grazie alla cura ed al sostegno dei genitori adottivi. Gli studi sugli stili di attaccamento ci rassicurano sul fatto che una adeguata cura da parte di un genitore (ed in particolare la madre) sufficientemente buono, permette al figlio adottivo di recuperare quel gap emotivo, acquistando una maggiore capacità di relazione, apertura al mondo e fiducia in sé e negli altri. Eppure questo è un percorso che richiede a volte del tempo. A volte molto tempo.
Alcuni genitori adottivi possono testimoniare delle difficoltà che i figli, ormai grandi, continuano ad avere: la scarsa fiducia in sé, la difficoltà a pensarsi capaci, l'affanno nell'affrontare le sfide proprie della vita.
Queste fragilità diventano più evidenti nella scuola secondaria, perché meno attenta della primaria agli aspetti di relazione e più invece centrata sugli aspetti di prestazione, di performance. Ci viene raccontato di giovani che possono impegnarsi anche molto a casa, ma che quando si trovano a scuola si rifiutano di essere interrogati e raccontano al professore, mentendo, di non aver studiato affatto. Ci viene raccontato di giovani che riescono ad andare all'interrogazione solamente se hanno accanto l'amica del cuore: la presenza di una figura rassicurante, che crede nelle proprie capacità e nel proprio valore, diventa un elemento che fa da volano rispetto alla possibilità di esporsi. E quante altre storie simili potrebbero raccontare tanti genitori adottivi. Tutto questo parla di una fragilità dei figli rispetto alla consapevolezza del proprio valore.
La particolare sensibilità alle separazioni
Alcuni bambini che arrivano in adozione hanno sviluppato inoltre una sensibilità speciale per le separazioni, perché ne hanno subite tante nella loro breve vita: questo aspetto caratterizzerà alcuni adottati anche da adulti. Fattore principale di rischio è l'assenza di una figura stabile che abbia dato cure nella prima fase della vita: uno studio ha stimato che un bambino cresciuto i primi tre anni in istituto arriva a incontrare 50 o più differenti figure educative di riferimento!
Pensiamo anche all'adozione stessa come ad una grande fatica che il bambino deve fare per passare da una condizione di equilibrio ad una di nuova solidità, attraversando un tempo di grande - traumatica - terribile instabilità. Queste esperienze hanno una rilevanza anche nel percorso scolastico.
In primo luogo ci interessa focalizzare sulla delicatezza del passaggio dalle elementari alle medie. Ed ancora dalle medie alle superiori. L'entrare in una nuova scuola, con nuove persone e nuove regole, sollecita proprio quella particolare reattività ai cambiamenti, tanto da richiede una attenzione speciale da parte della famiglia e della scuola. Capire quanto sia forte il bisogno di tenere uniti i pezzi della propria vita, può essere evidente in un fenomeno osservato in alcuni ragazzi, evento che sollecita l'immagine di una separazione difficile e/o impossibile perché vissuta come ‘catastrofica': nella scrittura di alcuni giovani con storia adottiva può capitare (anche solo per brevi periodi) che non vengano lasciati spazi tra le parole, un insieme/catena di lettere unite, confuse, appiccicate, contigue, senza possibilità di distinguere ciò che è legato da ciò che è separato.
La testa altrove
Seppure la letteratura evidenzia come gli stili di attaccamento (ovvero il nostro ‘modo di essere con l'altro') possano modificarsi nel tempo, grazie alle esperienze sostitutive con adulti sani, gli effetti traumatici di un inadeguato accudimento e delle tante separazioni possono però richiedere percorsi a volte molto lunghi per essere ‘sanati', impegnando il bambino, l'adolescente e sovente anche il giovane adulto. Pur sottolineando il ruolo trasformativo e riparativo svolto dai genitori adottivi, i danni precoci dell'istituzionalizzazione prolungata o di relazioni primarie inadeguate possono continuare a manifestarsi a lungo termine nel corso della crescita, presentandoci, con incidenza maggiore nei pattern di attaccamento di tipo disorganizzato, ancora in adolescenza.
L'essere stati lasciati causa pensieri ed emozioni intensi relativamente a sé stessi ed al proprio valore. Quello che Chistolini definisce un ‘grumo' di pensieri ed emozioni che influisce sulla serenità del bambino, sulla sua capacità di concentrarsi e sulla possibilità di investire le sue energie nello studio, anche per molti anni.
Essendo l'apprendimento "un'attività esplorativa" del mondo esterno, chi non possiede una base sicura da cui partire dimostrerà quella che Bowlby definiva ‘la fatica del pensare'. Ad un QI nella norma si possono associare difficoltà nel ragionamento, di attenzione, di concentrazione, che si ripercuotono necessariamente sulla prestazione scolastica.
Dunque ciò che rende alcuni ragazzi incapaci di affrontare i compiti scolastici non è la mancanza d'intelligenza ma le complesse dinamiche emotive e relazionali vissute. E l'insufficiente rendimento scolastico, in un circolo perverso, può rappresentare un'ulteriore pesante conferma della già bassa autostima, rinforzandone l'autosvalutazione: "non valgo niente, non capisco nulla", che può trasformarsi nel fatidico "nessuno mi capisce". L'esperienza può essere descritta come "la testa altrove, sospeso tra due sponde, tra disperazione e speranza, tenendo a bada la paura di perdersi e di perdere l'altro, cercando di rassicurarsi e di essere degno di attenzione".
Bambini corazzati, ricci spinosi
Mentre alcuni adottati stanno volentieri al centro dell'attenzione tra i compagni, o più in generale trovano piuttosto facile socializzare, per altri un elemento che a volte viene riportato a corollario delle difficoltà scolastiche è l'isolamento rispetto al gruppo classe, la difficoltà a costruire relazioni privilegiate ed a volte anche la tendenza a non interagire adeguatamente con alcuni docenti. L'estraneità si può esprimere infatti in alcuni casi anche attraverso atteggiamenti provocatori o poco sintonici. Accade quindi che l'apprendimento risenta anche del clima di tensione (note, richiami etc.) che si viene a definire intorno al ragazzo.
E' facile rifarsi alla storia di deprivazione relazionale subita da alcuni di loro e tradurre questi atteggiamenti come una difficoltà a fidarsi, affidarsi. Ma non è affatto scontato che il sistema scolastico sia in grado di affrontare questi aspetti e che li possa/voglia considerare rilevanti ai fini della valutazione o tantomeno che sia interessato a lavorarci sopra.
Mi chiedo se i docenti abbiano chiaro, quando parlano di relazioni, la specificità dell'esperienza di quel ragazzo, che è stato ‘mal-trattato' dal mondo. Ragazzi cresciuti, sono ‘senza pelle'. (si parla chiaramente di pelle psichica, ma l'immagine rende molto bene il senso dell'esperienza), con le ferite scoperte e doloranti che, per sopravvivere nonostante tutto (perché l'uomo ha mille risorse, anche nelle avversità più terribili), si sono costruiti delle armature. Ricci Spinosi, a volte respingenti alle relazioni.
Sappiamo che possono servire tempi molto lunghi per imparare a fidarsi dell'adulto, dell'altro, dei coetanei. Compito dei genitori adottivi e quello di dare il tempo e l'occasione al figlio di fare contatto pian piano con le varie emozioni, passando attraverso la collera, la rabbia, il bisogno di distruggere, di fuggire, di provocare, per arrivare al dolore, attraverso la relazione affettiva: per poter voler bene occorre prima poter credere ancora che amare fa bene. Ed allora si avrà la possibilità di vedere oltre quella corazza, oltre quelle spine, quel bambino bisognoso e tenero (non più spinoso e respingente), assetato - forse più di chiunque altro - di legami.
In questo sta il compito dei genitori adottivi, certamente. La scuola come si inserisce in questo processo?
Quali interventi, quali strumenti, quali modalità?
Mentre i ragazzi nuotano nel mare del ‘non senso' gli insegnanti rischiano di ridurre la loro funzione a quella di ‘informatori', in una scuola basata sui contenuti, che diventano nozioni e test di valutazione. L'ambiente delle scuole secondarie meno contiene, meno comprende, meno si relaziona rispetto alle scuole materne ed elementari. Va al contrario sottolineata la necessità, per alcuni ragazzi con storie di abbandono di un rapporto affettivo preferenziale con un adulto, anche nella scuola secondaria, di un adulto che sia in grado di dimostrare una preoccupazione responsabile, personalizzata, verso di loro.
La presenza di bambini e ragazzi con storia di adozione ci spinge ad una interpretazione affettivo - relazionale della scuola. Per quanto riportato sinora ritengo importante sottolineare l'opportunità di accompagnare questi ragazzi nel percorso scolastico attraverso una didattica che tenga conto, accanto all'aspetto propriamente formativo, anche dei loro bisogni evolutivi, sostenendo e valorizzando il singolo percorso di crescita. In primo luogo mi riferisco ad una crescita emotiva - affettiva, che per quei bambini e ragazzi che hanno subito l'abbandono è una ‘sfida esistenziale'.
Per questo la scuola va sostenuta dai genitori e dagli operatori del settore, nel leggere i comportanti che alcuni ragazzi adottati mettono in atto, perché si possa uscire da una semplice schematizzazione: il rendimento non è adeguato perché non studia, perché non ha voglia, perché non sa stare nel contesto classe (sfida, iperattività, ricorso alle bugie o in alcuni casi anche piccoli furti) o perché addirittura ha dei problemi cognitivi. Credo che primariamente vada tenuto presente del cammino che ciascun figlio fa per costruire (dalle base di un passato che l'ha tradito e dalla forza della famiglia che ha trovato nei genitori) la sua autostima.
I genitori conoscono le belle qualità che caratterizzano il proprio figlio, ed in parte immaginano (sperano e sognano) il suo futuro con tutte le occasioni che la vita vorrà porgli davanti e che lui saprà cogliere. Ma questa lettura è ben lontana dall'esperienza che quel ragazzo fa di sé stesso. L'immagine che quel figlio ha di sé è ancora molto fragile, eccezionalmente sensibile ai messaggi che gli vengono dall'esterno. Per questo ha bisogno di una guida educativa (docenti - insegnati - educatori) che sappia essere assertiva e sicura (come ben sanno i genitori) che lo stimoli a non nascondersi rispetto ai suoi limiti ed anzi lo porti ad affrontarli con energia volta al cambiamento.
Ma anche al contempo occorre una coerenza educativa che supporti l'immagine di Sé in quanto persona positiva, capace, che può riuscire. Il suo vissuto "gli pesa sulle spalle come una zavorra che rischia di tirarlo giù" se non lo sosteniamo nel vedere ogni giorno le sue qualità e le sue opportunità, per poterlo aiutare a credere che nessun obiettivo gli è precluso. Ritengo importante che queste riflessioni possano esser quindi condivise nell'incontro costante tra la famiglia e la scuola, poiché questa è luogo privilegiato per poter sperimentare il successo e l'abilità personale, ma anche contesto - purtroppo - in cui a volte si fa esperienza della frustrazione, del fallimento, dell'incomprensione.
Pertanto, per fare un esempio, in una lettura condivisa scuola - famiglia, può essere considerato utile per un ragazzo (alla luce del suo percorso scolastico e dei vissuti con i quali ancora combatte) poter essere preservato eccezionalmente da esperienze fallimentari con carattere di immutabilità (la bocciatura, ad esempio) che avrebbe ancora grande difficoltà a comprendere, a metabolizzare, a utilizzare come occasione per una maturazione evolutiva. Avendo concluso (insisto, in una lettura condivisa scuola - famiglia) al contrario, che esperienze di questo tipo per quel giovane rischierebbero di avallare la sua convinzione di non essere accettato, di valere davvero poco, di essere ‘il peggiore': pensieri sempre in agguato nella giovane mente di chi è stato ferito dalla vita. Quelle esperienze, anziché spingerlo ad un miglioramento di sé, potrebbero, in quel particolare caso, al contrario nutrire le emozioni della rabbia e dell'insoddisfazione.
Troppe volte negli anni ho visto giovani adolescenti adottati soccombere sotto giudizi che non potevano (non erano attrezzati per) comprendere ed accogliere. La famiglia quindi si fa portavoce con la scuola della specificità dei bisogni del proprio figlio, aiutando il corpo docente a vedere con sguardo ampio al percorso scolastico che quello sta facendo, non focalizzandosi unicamente sulla prestazione, che non dubito possa comportare delle mancanze.
In questo vaso la normativa sui BES rappresenta, finalmente, strategie particolarmente utili da seguire.
Terzo Focus: Fare i conti con il passato
Il terzo ed ultimo aspetto che voglio proporvi per comprendere lo sforzo di alcuni studenti con storia adottiva, riguarda la difficoltà a fare i conti con il proprio essere adolescenti, che per un adottato significa anche dover affrontare il tema delle origini.
Per alcuni ragazzi questo percorso rappresenta una difficile battaglia. A volte in consultazione i genitori riportano l'angoscia per un percorso scolastico molto critico: l'imminente bocciatura o addirittura l'abbandono della scuola. Il confronto tra un ‘prima' ("solo un anno fa tutto andava bene ...") ed un ‘adesso', è disarmante: improvvisamente i figli si sono rivelati diversi, quasi degli sconosciuti: mancanza di motivazione allo studio, frequenti assenze da scuola (come rifiuto a frequentare o il marinare le lezioni), comportamenti sanzionabili in classe (tenere il cappuccio o le cuffie durante la lezione, uscire per andare in bagno e non rientrare fino alla fine dell'ora etc.).
In alcuni casi, alle difficoltà scolastiche si aggiungono difficoltà di relazione con i coetanei, in un quadro di isolamento che vede il giovane per lo più chiuso in casa, ritirato dalle usuali attività che sino all'anno prima lo impegnavano (scout, sport, musica, etc.) o inserito in gruppi amicali nuovi e generalmente poco rassicuranti per i genitori.
Il quadro che emerge nei colloqui spesso è anche molto più complesso: accanto alle difficoltà scolastiche si rilevano altri eventi dirompenti, come furti in casa, conflitti violenti (in alcune situazioni con vere e proprie aggressioni fisiche ai genitori) menzogne, uso di sostanze stupefacenti. Atti che sembrano tagliare ogni legame con il pensiero, che stanno ‘al posto del pensiero' in un ‘cortocircuito del funzionamento psichico'. E' evidente come questa particolare situazione emotiva - esperienziale non favorisca, anzi sia antagonista, della disponibilità ad apprendere, ossia a percorrere nuove strade di conoscenza. E' evidente che in queste situazioni le difficoltà scolastiche rappresentano un campanello d'allarme o un sintomo aggiuntivo del disagio psichico di un giovane impantanato nella sua crisi adolescenziale.
Possiamo dire che in quella fase la strada verso la conoscenza del mondo (che la scuola cerca di indicare) rimane difficile da percorrere così come quel percorso verso la propria identità (chi sono, da dove vengo) risulta ancora poco elaborato o impercorribile.
La specificità dell'adolescenza adottiva
In ogni famiglia l'adolescenza è il tempo della confusione, della delusione, dell'instabilità, della preoccupazione, ma anche della riscoperta della soggettività, dell'esplorazione, dell'affermazione di sé. Per il figlio adottato questo è soprattutto il tempo per cominciare quel delicato processo di ristrutturazione della propria identità attraverso la rivisitazione delle tappe fondamentali della sua storia. E' il momento per provare a dare una continuità logica tra il tempo precedente l'adozione e quello attuale, ingredienti necessari per comporre un progetto di vita maturo.
Ragazzi sospesi, alla ricerca di capire ‘chi sono' e nella difficoltà di proiettarsi nel futuro, cercando una rilettura della propria storia che permetta, attraverso un processo di continuità, di riconoscersi nel presente e ricordarsi nel passato. Impegnati a trovare coerenza tra il vecchio ed il nuovo, tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che potrà essere. Alla ricerca di una coerente continuità tra il passato ed il presente, tra prima e dopo, tra genitori di nascita ed adottivi.
I cambiamenti somatici che il figlio adottato vive in questo periodo, idealmente lo rimandano a figure fisicamente assenti, ma identificabili attraverso il suo aspetto fisico. Cominciano a prendere sostanza domande come: "A chi assomiglio?", "Perché sono stato adottato?", "Perché sono stato abbandonato?", e questi quesiti, spesso non espressi, mettono quel/la figlio/a in diretto rapporto con la sua origine, con il suo abbandono, con la sua storia, con i suoi ricordi e con la sua adozione: temi tutti riconducibili con il processo di (ri)definizione della sua identità.
Nelle consultazioni cliniche che avvengono in questo periodo questi adolescenti raccontano di sentirsi dei "figli sbagliati": che non avrebbero dovuto nascere, che non sono degni dell'amore e delle attenzioni dei genitori adottivi, che per non essere stati ‘tenuti' dai loro genitori di nascita devono avere qualcosa che non va, che esprimono forti sensi di colpa per l'abbandono subito. Le risposte ricevute in precedenza dai genitori adottivi non sono più sufficienti per placare quella inquietudine interna che vive.
Questo stato d'animo lo/la porta a cercare risposte in maniera più autonoma. Il viaggio alla ricerca delle proprie origini comincia in questa fase ed è prevalentemente un viaggio interiore (che forse prelude a quello reale che verrà fatto in seguito) che ha come scopo quello di dare un senso alla propria vita, recuperando quei tasselli mancanti per la costruzione dell'identità. Questo percorso è anche deludente, doloroso, angosciante, confondente .... una ‘trasformazione rivoluzionaria' con alto potere evolutivo, ma anche molto rischiosa.
Cosa vedono questi figli allo specchio? Lo specchio spesso riflette la differenza con i genitori adottivi. A volte rimanda l'immagine dei genitori di nascita. A volte questa immagine è molto conflittuale. Dice Igor, 20 anni, scuola interrotta in 4° superiore: "Mio padre (di nascita) era uno ‘schifoso ubriacone'. L'adolescenza è anche il tempo del terrore di assomigliare al genitore di nascita dello stesso sesso, per quello che di quel genitore si sa (o si immagina) di negativo: alcolista, violento, incapace di assumersi responsabilità - ci ha lasciati a me e mamma ..., delinquente.
E' il tempo del terrore di essere portatori di una patologia psichica del genitore naturale. E in questo sconvolgimento, a volte .... "per paura di diventare come te, divento come te".. "per convincermi che magari proprio questo è il mio destino: così almeno riesco a dirmi chi sono" Dice Manuel, 15 anni, scuola interrotta in I° superiore: "Tutti gli uomini sono uguali, mettono incinte le donne e poi vanno via. Mia madre non mi ha potuto tenere per colpa sua (padre naturale)" .... "Sai ci penso spesso a mio padre (di nascita). Era un alcolizzato. Io ... sono come lui. Io l'alcool ce l'ho nel sangue".
Ed il pensiero allora diventa: "Se valgo poco come lui tanto vale toccare il fondo". Ed allora la strada, la notte, la droga, il gruppo ... diventano tentativi maldestri (ed a volte pericolosi, sempre dolorosi) per ritrovarsi o per trovarsi in una nuova identità ... ancora tutta da capire. Dice ancora Manuel: "io so cosa significa stare per strada, ci sono cresciuto ... chi vive per strada è mio fratello".
Il tempo perso
Ancora una riflessione sul tema del ‘tempo perso'. L'adolescente con storia adottiva è l'emblema del ‘perdere': perdere qualcuno (ciò che ha lasciato), perdere gli anni di scuola, ed ora addirittura (quando sembrava che il più era stato fatto!) perdere le competenze acquisite ("non ha voglia di fare più niente, ha lasciato gli scout, non legge più un solo libro..., non lo riconosco più, non sembra più lui...") per darsi al nulla. In una società basata sul successo, sul guadagno, sul vincere, l'adolescente ci sbatte in faccia il suo ‘perdere tempo', davanti ai videogiochi, dormendo, rannicchiato ore sul divano di casa, incontrando amici discutibili o passando il tempo a fare cose inutili o francamente riprovevoli.
Dice Rimbraud che la profonda natura della giovinezza s'identifica con il tempo sprecato. Crocetti descrive l'esperienza della ‘noia' in adolescenza, come assolutamente normale e funzionale alla crescita. La noia viene definita come uno stato di tensione pulsionale trattenuta, e viene descritta in due forme: una caratterizzata dalla apparente tranquillità emotiva (dove prevale la solitudine impotente che blocca e paralizza) e la seconda caratterizzata dalla irrequietezza motoria (che prende forma nella rabbia di essere solo che spinge al protagonismo a tutti i costi).
Possiamo pensare che il ‘tempo fermo' di alcuni giovani adottati in crisi adolescenziale, sia in realtà l'espressione esteriore di un profondo movimento emotivo, di un percorso evolutivo che ha i suoi aspetti di rischio, ma che anche è la via di accesso al cambiamento che è crescita, maturazione, benessere. Anche se mi rendo conto che una lettura di questo tipo impone una fatica particolare di ridefinizione a quei genitori che vivono invece nella paura, nello sconcerto, a volte nella disperazione (mancanza di speranza) per quello che vedono accadere ai propri figli.
Quali interventi, quali strumenti, quali modalità?
Motivare questi ragazzi allo studio è un'impresa titanica. Come fare, se ciò che si muove ‘oltre' la scuola è di così vitale importanza?
Da parte dei genitori è frequente il tentativo di limitare i danni di un tempo perso (abbandono scolastico o bocciatura) attraverso l'iscrizione a scuole private. Si cerca di interrompere il processo del ‘perdere tempo', riguadagnandolo (2 anni in 1) o usando scorciatoie (promozione un po' più garantita). Spesso con pochi o nulli risultati.
Ma mi chiedo se è possibile, nel percorso di crescita che desideriamo per i nostri figli, mettere (in situazioni eccezionali) la scuola (la formazione) in secondo piano. Credo che in alcune situazioni sia necessario fare questo sforzo, poiché sono fermamente convinta che per quei ragazzi i problemi scolastici si affrontano solo spostando il focus dalla scuola e centrando invece sulle relazioni, all'interno del sistema familiare che viene preso in carico dallo specialista, secondo modelli flessibili ed efficaci: accompagnamento alla coppia genitoriale (il modello che preferisco), o terapia familiare o terapia dell'adolescente (questo, a mio parere, solamente in situazioni residuali). Mettendo questa volta in primo piano, quindi, al posto della riuscita scolastica, l'atteggiamento dei genitori di fiducia nel figlio.
Poter pensare che ce la farà, sperare al suo posto. Perché questi ragazzi hanno una grande paura di non riuscire a venirne fuori. Potergli dare la fiducia che non rimarrà impantanato per sempre, che ce la farà a costruirsi una vita piena e serena, magari anche finendo gli studi, realizzandosi nel lavoro. Evitando di fraintendere le crisi evolutive come equivalenti di rotture insanabili. Naturalmente i genitori (e quindi anche gli operatori) devono dare prova di particolare tolleranza, devono essere capaci di offrire conforto e di infondere speranza nelle situazioni che (ne sono consapevole) non potranno andare esenti da seri problemi.
Questa fiducia è possibile se non ci si fa travolgere dalla rabbia (parliamo di adolescenti che sollecitano molto la risposta rabbiosa, naturalmente) riuscendo a vedere sempre nel figlio il suo bisogno di relazione, anche quando è molto difficile (perché ad esempio sta fuori casa giorni, aggredisce, offende). Dice Crocetti che nell'adolescente, per quanto celato dietro difese ed atteggiamenti contraddittori, esiste sempre un profondo bisogno di incontrare l'adulto. Solamente se questi a sua volta investe di desiderio tale incontro, può permettere al figlio di evolvere verso la crescita e la salute mentale.
Ed accanto a questo atteggiamento sempre aperto all'incontro, accanto alla necessità di mantenere una speranza e la fiducia nelle possibilità di crescita sana del figlio, aggiungo anche il necessario tendere al piacere nella vita, al bello (tanto più importante se il proprio figlio è incastrato nel buio di alcuni atteggiamenti, nient'affatto vitali). E' evidente che questi percorsi richiedono un sostegno ai genitori, alla famiglia.
L'importanza dei percorsi di post-adozione è qui più cogente che mai. Per permettere ai genitori di continuare nell'impegno dell'accoglienza adottiva, nel crescere un figlio facendogli sperimentare (o ri-sperimentare) che ‘amare (gli altri, il mondo, la vita) fa bene'. Consapevoli che l'obiettivo di ogni genitore verso un figlio è, sempre .... ‘aiutarlo a (ri)trovare la sua strada, fatta di passato, rivolta verso il futuro'.
[1] Per terminipolisemini si intende quelle parole che possono assumere un significato diversoda quello che viene loro attribuito nel linguaggio comune - es. ‘scala' in geografia - e possonopresentare accezioni diverse a seconda del contesto e del tempo.
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L'autore: RobertaLombardi
Psicologa, Psicoterapeuta sistemico-relazionale e Giudice Onorario Tribunale per i Minorenni di Roma, si occupa da 20 anni di adozione. E' presidente dell'associazione "Contuttoilcuorefamiglie", per l'orientamento, il sostegno e la cura delle famiglie adottive (www.contuttoilcuorefamiglie.it)