“Tutti i dolori possono venir sopportati se vengono messi in racconto” (Dinenstein)
Ho letto questa frase di recente ed ho sentito che mi corrispondeva, perché da sempre mi sono trovata a riflettere sul valore del raccontare se stessi, e sulla capacità di ascoltare le storie degli altri. Quando ci si racconta, quando si trovano le parole per dire cosa si è e cosa si è stati, si riesce a definire la geografia della propria anima. Si costruisce una mappa interiore, la si sistema con cura, si mette ordine insomma e si pongono le basi per voltare una pagina, per andare avanti.
Raccontarsi talvolta è “uno stato di grazia”, ma è importante che ci sia qualcuno disponibile ad ascoltarci e che sia pronto ad addentrarsi nel nostro paese interiore. Qualcuno che non ci respinga, che accetti di diventare testimone di quel che abbiamo da dire. Dove c’è un narratore deve esserci un ascoltatore, come per uno scrittore deve esserci anche un lettore.
Ascoltare, però, è faticoso, ci impone di andare oltre noi stessi. Bisogna, ad esempio, avere la forza di non mettersi a rincorrere gli echi che le parole degli altri suscitano in noi, inseguendo così le proprie emozioni, pensieri, paure, insicurezze, invece di riuscire a guardare la verità offertaci da chi parla.
Non è per nulla facile ascoltare il proprio compagno, la propria compagna cercando di non fermarsi alla superficie di una dialettica quotidiana in cui si crede sempre di sapere prima quel che sta per venir detto, come se non ci fosse più nulla di nuovo da dire o sentire. Incredibilmente faticoso ascoltare persone che ci dicono o raccontano cose che non ci corrispondono, che non faremmo mai, che disapproviamo.
E’ così facile sentirsi migliori degli altri e giudicarli, così semplice assolvere se stessi. Ed anche con gli amici, con i fratelli e le sorelle, con i nostri genitori, sembra a volte impossibile trovare il momento giusto per ascoltare, per guardare, per non lasciare da soli. Eppure c’è qualcuno per eccellenza per cui dovremmo saper fermare i nostri vortici interiori: i figli.
In effetti si da quasi per scontato che i genitori debbano sempre saper ascoltare i figli, siano essi bambini o già adolescenti. Sempre. Ma come può essere facile se non siamo abituati a farlo in altri contesti? Come sapremo decrittare le maniere di narrarsi dei figli, come impareremo a non perdere le occasioni preziose che ci daranno? Per raccontarsi un adulto usa soprattutto le parole, ma un bambino?
Come si racconta un bambino? Cosa significano i silenzi, le provocazioni, i creativi allontanamenti di un adolescente?
Una delle domande più frequenti da parte di chi deve ancora adottare è: “In che modo parlerò coi miei figli della loro adozione? Come chiamo la mamma d’origine: Mamma di pancia? Signora che ha fatto nascere?”. Quando poi vengono adottati bambini molto piccoli, i genitori talvolta pospongono fin troppo a lungo il momento del confronto sull’argomento: “Ma come faccio a dirglielo? Ne soffrirà? Come risponderò alle sue domande?”
Più di una coppia, prima dell’adozione, si sente letteralmente spaventata dal sapere “troppo” della storia dei figli. Quasi quasi si preferisce non sapere, si spera di incontrare un figlio “abbandonato alla nascita” da qualcuno prontamente scomparso all’orizzonte, qualcuno che resterà per di più idealmente confinato in un paese lontanissimo e straniero.
Sono tanti anni che si scrive, si legge, si parla di adozione, ma poi le domande e le paure sono sempre le stesse, si ripetono, ritornano. Queste incertezze ci dicono qualcosa di noi adulti, delle nostre proprie difficoltà a darci interamente ai figli. Della fatica che facciamo ad ascoltarli e prenderli per come realmente sono.
In realtà quando ci chiediamo “come raccontare la storia” pensiamo alle nostre personali difficoltà, siamo noi adulti a sentirci protagonisti, a sentirci i veri soggetti attivi. E i nostri figli sono oggetti passivi, subiscono il nostro dire o non dire, vivono per forza i nostri imbarazzi e le nostre reticenze, come anche, talvolta, il nostro inarrestabile parlare.
Siamo chi racconta, chi dice, chi svela.
E anche quando pensiamo di preoccuparci del “dolore” che diamo ad un figlio dicendogli di essere adottivo, e quindi frutto di un abbandono, in realtà quel che ci turba è il riflesso che il suo dolore avrà su di noi. Noi quel dolore, una volta nominato,dovremo poi ascoltarlo, accoglierlo.
Parlare dei genitori dei nostri figli, turba noi per primi. Ci ricorda soprattutto che noi siamo genitori adottivi, venuti “dopo”, genitori che non c’erano nel momento più cruciale per tutti: quello della nascita. Non riuscire a nominare l’adozione o nominarla ovunque, sono le due facce della stessa medaglia: è il genitore ad essere il protagonista.
E’ l’adulto che viene prima.
Raramente, almeno all’inizio, ci chiediamo chi sia il protagonista vero della “storia” e chi sia l’ascoltatore. Crediamo di essere noi quelli che devono dire tutto per primi. Ci aspettiamo dai figli racconti e ricordi fatti di parole e fatichiamo a comprendere che un bambino possa raccontarsi semplicemente vivendo, essendo, agendo. Non siamo pronti a ricevere i flash del passato e ci scopriamo sempre fuori ritmo, impreparati all’emergere della storia vera, quella del figlio.
Pensiamo alle risposte da dare, non cogliamo le occasioni di ascoltare, scopriamo troppo tardi che il più delle volte non serve una “risposta giusta” quanto piuttosto il saper stare vicino. Presi dai dubbi e dai timori o dal rumore del nostro continuo parlare dimentichiamo di coltivare la capacità di intrecciare umilmente le storie di ogni componente della famiglia: l’arte del tessitore.
Quando il genitore racconta la sua storia, parla di sé stesso, dice i suoi perché: “Perché ti ho voluto”. “Perché per adozione”. “Perché ho detto si”. Raccontando la sua storia dice “come” , e parla di incontri, di attese, di viaggi, di desideri.
Raccontando dona talvolta anche il proprio dolore.
Sono racconti fatti di parole, a volte, ma soprattutto di quotidiane emozioni. Una narrazione dell’anima che permette ai figli di trovare il proprio posto nella mappa del cuore dei genitori. E’ così che da narratori si diventa ascoltatori, perché un bambino che sente di occupare il suo proprio personalissimo posto nell’universo di un genitore, lo spazio giusto, ha la possibilità di diventare a sua volta un creativo narratore, riuscendo a trovare i gesti, i modi, le parole per dirsi, dire chi si è stati, dire cosa e come si è vissuto. Ricordi. Sogni e desideri. Incubi e paure. Domande e perché. Modi essere, repentini cambiamenti di umore, silenzi.
Il vero ruolo di un genitore è quello di chi ascolta, quello di chi è pronto a prendere su di sé la storia dei figli, ed i loro dolori se necessario. Il ruolo del testimone: “Così, figlio mio, saprai che d’ora in poi, c’è chi ti assolve e chi ti trova un posto e così tu, in futuro, saprai assolverti, perdonarti e trovare il tuo giusto posto nella vita”.
Ascoltare a volte è doloroso, vuol dire scoprire cose che non si volevano sapere, anche di sé stessi. Vuol dire far propria un’estraneità. Non solo a parole.