Autore: 
Marco Chistolini

   Conoscere la propria storia, essere informati sugli eventi significativi che l’hanno caratterizzata, costituisce un ingrediente assai importante per garantire un’adeguata crescita psicologica della persona. La conoscenza degli avvenimenti che hanno fatto di noi ciò che siamo rappresenta, infatti, un fattore molto importante perché si possa avere con gli stessi una “relazione” caratterizzata da equilibrio e consapevolezza (Fonagy e Target, 2011; Wallin, 2009).

Quando una persona ha vissuto esperienze che “non conosce” consapevolmente perché era troppo piccola per ricordarle o perché sono stare rimosse dalla coscienza, avrà pensieri ed emozioni di cui non gli sarà possibile individuare l’origine e tali pensieri ed emozioni gli risulteranno estranei o, addirittura, minacciosi. Se questo è vero per tutti gli esseri umani, lo è ancor di più per coloro che hanno avuto un’esistenza travagliata, caratterizzata da eventi drammatici ed insoliti, da rotture e separazioni, che rendono assai più complesse la comprensione e l’attribuzione di senso a questi stessi eventi. I figli adottivi appartengono sicuramente a questa classe di persone, avendo dovuto, in modi assai diversi in quantità e qualità, confrontarsi con l’esperienza della separazione dai genitori biologici e, spesso, con altre vicende dolorose e difficili da significare. Da quanto fin qui affermato consegue chiaramente che conoscere la propria storia è molto importante e richiede l’integrazione di due diversi livelli:

  • quello della conoscenza degli avvenimenti salienti della propria vita;
  • quello dell’attribuzione di un senso agli stessi.

L’abbandono

   Tra gli avvenimenti importati che colpiscono i bambini adottati, vi è senz’altro quello dell’abbandono.

Si tratta di un termine comunemente utilizzato nel campo dell’adozione, sul cui significato conviene fare qualche riflessione. Il Dizionario Devoto – Oli (2007) riporta alla voce abbandonare: “lasciare con l’animo di non tornare più alla cosa o alla persona che si lascia”. Ebbene, sappiamo che in un numero importante di casi, i bambini dichiarati adottati non sono stati abbandonati, ma piuttosto sottratti ai loro genitori per le gravi condizioni di pregiudizio in cui si trovavano. Così come è noto il fatto che le circostanze che precedono e accompagnano l’abbandono sono solitamente molto diverse tra loro.

È quindi evidente che utilizziamo, tutto sommato impropriamente, lo stesso termine “abbandono” per indicare situazioni tra loro molto differenti. Eppure questa generalizzazione ha una sua motivazione: quale sia il modo in cui la separazione dai genitori biologici si realizza (e non vi è dubbio che si tratta di differenze importanti), essa, la separazione, segnala un grave deficit nelle capacità di cura dei genitori. Ritengo, infatti, che sia le condotte che nuocciono alla crescita di un bambino (abuso, maltrattamento, trascuratezza, ecc.), sia la decisione di rinunciare a lui, costituiscano (salvo casi, particolari e minoritari, di assoluta impossibilità oggettiva), degli indicatori di una seria difficoltà dei genitori ad investire affettivamente (o a farlo in modo corretto) nei confronti del figlio.

Rinunciare a crescere il proprio piccolo, infatti, quand’anche lo si faccia in modo da garantirne la massima tutela possibile, come nel caso di coloro che decidono di non riconoscerlo dopo il parto in ospedale, lo priva, di fatto, di quelle cure che sappiamo essere un nutrimento relazionale fondamentale per la sua crescita psichica (Bowlby, 1989; Attili, 2007).

Sapere e capire

   Ci troviamo, quindi, con un bambino che ha vissuto una vicenda difficile e dolorosa che solleva interrogativi (“perché sono stato lasciato?”) e attiva sentimenti di dolore, rabbia, inadeguatezza, colpa. Che fare? Come è possibile aiutarlo?

Molto è stato detto e scritto a questo proposito a partire dal concetto di “verità narrabile” proposto da Donatella Guidi (1997). Spesso, però, il dibattito sul tema non ha saputo distinguere con sufficiente attenzione le due dimensioni fondamentali che lo caratterizzano: quella del sapere e quella del capire. Entrambe fondamentali per aiutare il minore a sperimentare un percorso di una pacificazione interiore che gli consenta, al termine di un cammino spesso lungo e doloroso, di accettare serenamente la propria storia.

La dimensione del sapere

Cominciamo, allora, a porci la domanda su cosa è opportuno che un figlio adottivo sappia della sua storia personale. Vi è una pluralità di opinioni rispetto a quali informazioni, tra quelle disponibili sul suo passato, è giusto fornire ad un bimbo adottivo. Sappiamo che i singoli casi divergono significativamente in merito a questo aspetto, con situazioni in cui i genitori adottivi non conoscono nulla e altri che hanno una messe rilevante di notizie.

Ebbene, da quanto scritto all’inizio di questo articolo, non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di informare il bambino relativamente a tutto ciò che è conosciuto della sua storia personale raccontandogli quanto è accaduto a lui e alla sua famiglia di origine. Infatti, se consideriamo che dire bugie, nascondere o distorcere gli eventi importanti che lo riguardano è fonte di pregiudizio per la sua crescita ne consegue che si debba sempre dirgli la verità.

Questo in termini generali e di principio. Quando, però, ci si misura con la concretezza delle situazioni le cose appaiono immediatamente più complesse. Ci sono, infatti, storie molto tristi e cruente ed è, quindi, ragionevole chiedersi se, quando ed in che modo, sia giusto parlarne al figlio adottivo. Si tratta di capire quali informazioni trasmettere e come farlo, utilizzando dei criteri che possono esserci di aiuto nell’individuare quali fatti vadano portati alla conoscenza del minore. Per valutare quali informazioni debbano essere condivise propongo alcuni criteri (Chistolini, 2008):

  • Il criterio di attinenza o coinvolgimento. Si riferisce a tutti quegli avvenimenti che riguardano direttamente dal minore nel senso che sono stati da lui stati vissuti o sono a lui riferibili.
  • Il criterio di rilevanza. Attiene ad una valutazione dell’importanza dei fatti accaduti secondo dei principi condivisi di carattere generale.
  • Il criterio di impatto. Indica l’effetto, diretto ed indiretto, che gli avvenimenti in questione hanno avuto sul soggetto o che potrebbe derivare dalla loro conoscenza.
  • Il criterio di congruenza. Chiama in causa il fatto che, molto spesso, sui fatti accaduti, giungono al bambino altre comunicazioni che rivelano l’esistenza di un segreto e/o contraddicono le spiegazioni “ufficiali” fornitegli. Tali comunicazioni contrastanti possono essere di tipo verbale o non verbale. Sovente il bambino ha avuto diretta esperienza degli avvenimenti che gli adulti vogliono celargli, oppure ha altre informazioni che contrastano la spiegazione ufficiale. Si verifica, dunque, una situazione di incongruenza tra diverse fonti di informazione che genera una dannosa confusione nel minore.
  • Il criterio di sostenibilità. Se si omette di raccontare un fatto o si dice qualcosa di diverso dalla verità, bisogna domandarsi fino a che punto e per quanto tempo la versione prescelta sia sostenibile. Ovvero se non è possibile, o probabile, che giungano al minore altre informazioni che smentiscano la versione fornitagli.

Quanto più le informazioni in esame soddisferanno questi criteri, tanto più sarà opportuno trasmetterle al bambino. Una volta individuate le informazioni da comunicare, ci si deve porre il problema di come farlo, soprattutto quando i bambini sono molto piccoli. In questo senso può essere utilizzato il concetto di verità sostanziale (Chistolini, 2006, 2008, 2010), intendendo con questo una modalità comunicativa che:

  • Riferisce i fatti salienti chiamando le cose con il loro nome o con termini comprensibili e realistici;
  • Omette, anche in base all’età del bambino, i dettagli più crudi e dolorosi che nulla tolgono e nulla aggiungono alla comprensione dei fatti medesimi;
  • Fornisce delle attribuzioni di significato coerenti con la natura dei fatti raccontati in base all’esperienza comune e a valori generalmente condivisi;
  • Consente successivi approfondimenti e precisazioni da calibrarsi sulla progressiva metabolizzazione delle informazioni date, sulla crescita del bambino e sul suo soggettivo bisogno di saperne di più.

La dimensione del capire

Veniamo ora all’altra dimensione fondamentale che caratterizza il confronto con le origini: quella del capire. Abbiamo detto che il bambino adottato non può non porsi delle domande relativamente all’esperienza di abbandono subita; egli ha bisogno di comprendere perché gli è capitato un fatto del genere e cosa, l’essere stato lasciato dai suoi genitori, dice di lui, del suo valore e del mondo in cui vive. Si tratta di aiutarlo a trovare una spiegazione che dia un senso a questo evento, facendo attenzione a concentrarsi non tanto sui fatti specifici che hanno riguardato la sua storia, quanto sulla necessità di fornirgli una chiave interpretativa capace di dare un significato coerente all’evento centrale della sua esistenza: non essere rimasto con i suoi genitori naturali. Dobbiamo allora chiederci: è possibile trovare una motivazione generale capace di dare conto delle diverse situazioni in cui la rottura del legame tra il minore ed i genitori biologici si verifica?

Una interpretazione dell’incapacità genitoriale

Se è vero che abbandonare un figlio o accudirlo in modo così scorretto da provocarne la sottrazione per l’intervento dell’autorità giudiziaria costituiscono degli indicatori di una grave incapacità genitoriale, intesa come radicata difficoltà a riconoscere e rispondere in maniera adeguata ai bisogni di accudimento e di relazione del bambino e a stabilire con lui una legame di attaccamento che lo faccia sentire amato e protetto, dobbiamo domandarci quali cause sono alla base di questa incapacità.

Ebbene sono numerosi gli studi (Barudy, 1998; Attili, 2007) che indicano con chiarezza che le competenze affettivo-relazionali necessarie per svolgere efficacemente il ruolo paterno e materno si apprendono principalmente nella relazione con i propri genitori, o altri adulti, sui quali si è potuto contare. Non a caso si parla di trasmissione generazionale dell’attaccamento (Loriedo e alt. 1999) a partire dalla constatazione che la maniera in cui siamo stati accuditi influisce significativamente sul modo in cui ci prenderemo cura dei nostri figli. È evidente che questo fattore non è l’unico ad influire in modo significativo sulle competenze parentali di un individuo. Altre variabili che giocano un ruolo importante sono: i fattori biologici, la relazione di coppia, le motivazioni a diventare genitori, le relazioni con le famiglie estese, il contesto sociale e l’adattamento in esso, gli eventi casuali, il bambino e le sue caratteristiche.

   Tutti questi fattori concorrono nel determinare la capacità di cura e accudimento di un adulto, ma quello della storia personale resta il più importante. Ovviamente, questo assunto non deve essere inteso in termini deterministici, nel senso che ciascun individuo riproporrà meccanicamente ai propri figli quello che ha ricevuto dai suoi genitori. Non è così! È noto che anche persone che hanno avuto storie difficili possono diventare ottimi genitori se hanno la fortuna di sperimentare relazioni compensative e effettuare un percorso di sufficiente rielaborazione delle esperienze negative.

Quale immagine dare dei genitori biologici

   È molto diffusa, tra i giudici minorili e gli operatori psico-sociali, l’idea che sia importante per il bambino adottato avere una buona immagine dei suoi genitori naturali in quanto essi rappresentano le sue radici e permettergli di pensare che essi gli hanno voluto bene lo aiuterebbe a rasserenarsi e a meglio accettare la loro decisione di lasciarlo. Questa convinzione porta, non di rado, a fornire ai bambini delle spiegazioni dell’abbandono nelle quali i genitori vengono presentati come persone che non hanno potuto tenerli, pur desiderandolo ardentemente, a causa di problemi economici o comunque estranei alla loro volontà, fino a sostenere che la scelta di lasciarli è stata fatta nel loro interesse (dei figli), in un atto di estremo amore per dare loro la possibilità di una vita migliore.

Credo che questi messaggi siano scorretti e in contraddizione con l’esperienza fatta dal bambino. Ritengo che sia possibile ed utile aiutarlo a comprendere che i suoi genitori naturali hanno sbagliato a lasciarlo o, a maggior ragione, a fargli violenza (i bambini non si lasciano, non si picchiamo, non si abusano….), ma lo hanno fatto non perché fossero cattivi e volessero fargli del male, ma in quanto non erano capaci di fare diversamente. In questa accezione trova un particolare rilievo la distinzione dei comportamenti dalle persone che li mettono in atto: abbandonare e/o mal-trattare un bambino sono cose sbagliate, riprovevoli e da condannare (potremmo dire “cattive”); chi agisce questi comportamenti sbaglia, ma lo fa per incapacità non per la volontà di fare del male. In tale prospettiva l’immagine che verrà fornita al bambino dei suoi genitori di nascita è, pertanto, quella di due persone fragili, in difficoltà, che non sono riusciti a svolgere il loro compito genitoriale, che magari ci hanno provato, ma senza riuscirci. Due persone che, in base alla conoscenza dei fatti, possono avergli voluto bene, ma un bene che non era sufficiente a farlo crescere correttamente oppure che non erano proprio capaci di amarlo, sempre per le vicende da loro vissute in precedenza. Un’immagine che riconosce il danno inferto, ma favorisce un processo di perdono e riappacificazione. Relativamente all’appellativo da utilizzare per nominarli ritengo che sia opportuno usare i termini di mamma e papà accompagnati da una specifica che ne relativizzi il ruolo (la mamma di prima, il papà dell’India, la mamma che ti ha fatto nascere, la mamma Luisa, se si conosce il nome). Non mi sembra, infatti, che appellativi quali: la signora che ti ha fatto nascere o la donna che ti ha partorito, fino all’improbabile “procreatori”, diano conto della significatività del rapporto che il minore adottivo ha avuto e avrà, nel bene e nel male, con i suoi genitori biologici.

Quando le informazioni non ci sono

   Innanzitutto va detto che non esiste alcun caso in cui della vita precedente all’adozione non si sappia nulla. Infatti, sempre è nota l’informazione più importante: questo bambino non ha potuto rimanere con chi lo aveva messo al mondo. In questi casi si dovrà accompagnare i genitori adottivi a costruire un racconto ipotetico che, a partire da alcuni dati di realtà (l’età del figlio al momento dell’abbandono, il luogo in cui questo è avvenuto, il contesto socio-culturale, ecc.) dia conto di come potrebbero essersi svolti i fatti, applicando il criterio della ipotizzazione verosimile. È chiaro che i genitori dovranno esplicitare che si tratta di una loro ricostruzione che si basa sulla loro esperienza e le loro conoscenze, allo scopo di mettere a disposizione del figlio una storia verosimile coinvolgendolo attivamente in questa costruzione fantasiosa ma sensata.

Desidero sottolineare con forza la rilevanza del ruolo dei genitori quali “dispensatori di significati” che, credo, sia una delle funzioni che caratterizza il ruolo genitoriale in generale e non solo nell’adozione, ogni qualvolta si è chiamati a rispondere ai perché dei figli che vogliono capire quale significato ha un certo fenomeno, banale o fondamentale che sia.

Ai genitori adottivi spetta il compito di accompagnare i loro figli in questo difficile cammino, di stare al loro fianco, sostenendoli con pazienza e affetto, mettendo a disposizione la loro esperienza di uomini e donne che sono stati figli e poi, divenuti grandi, madri e padri. Ciò che i figli hanno bisogno di ricevere dai loro genitori, anche se non lo chiedono esplicitamente, è una “chiave di lettura” con cui interpretare la vita e quindi anche l’evento abbandono.

Bibliografia

Attili G. (2007), “Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. Normalità, patologia, terapia”, R. Cortina, Milano.

Barudy J. (1998), “El dolor invisible de la infancia. Una lectura ecosistémica del maltrato infantil”, Paidòs, Barcelona. •

Bowlby J. (1989), Una base sicura, Raffaello Cortina, Milano.

Chistolini M. (2010), “La famiglia adottiva. Come accompagnarla e sostenerla, F. Angeli, Milano.

Chistolini M. (2008), “La conoscenza della propria storia nei bambini, un diritto tutelato in ambito europeo?”, Minorigiustizia n° 2.

Fonagy P., Target M. (2001), Attaccamento e funzione riflessiva, R. Cortina, Milano.

Guidi D., Tosi M. N., “La verità narrabile al figlio adottivo", Minorigiustizia, 2/97, Franco Angeli.

Wallin J. D. (2009), “Psicoterapia e teoria dell’attaccamento”, Il Mulino.

Data di pubblicazione: 
Mercoledì, Febbraio 22, 2017

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