L’idea di proporre un’esperienza di “condivisione del libro” alle famiglie adottive, è nata grazie all’incontro con un programma educativo molto interessante che due professori dell’Università di Oxford e Reading, Lynne Murray e Peter Cooper, stanno svolgendo da alcuni anni a Khayelitsha, un’area peri-urbana nella periferia di Capetown in Sudafrica (Vally et al. 2015; Murray et al. 2016).
E’ molto importante comprendere come il “book sharing” si differenzia dalla semplice lettura del libro, in quanto non vi è l’obiettivo di coinvolgere il bambino solo attraverso la storia narrata, le parole o la drammatizzazione del lettore, ma piuttosto l’idea è proprio quella di condividere con il bambino le emozioni e ciò che narrano le immagini, rispettando al massimo i tempi, il “ritmo” e le modalità del piccolo. In questo modo è facilitata una sorta di circolarità e scambio emozionale, che favorisce lo sviluppo di una relazione intersoggettiva e di un attaccamento sicuro.
Murray e Cooper, avendo anche come obiettivo quello della ricerca sul campo, hanno comparato due gruppi di madri e bambini residenti nella baraccopoli: uno ha ricevuto il training del “Book sharing” mentre l’altro gruppo ha avuto un “addestramento” diverso, che non implicava l’utilizzo di un libro. Dopo alcune settimane, i genitori del gruppo che aveva ricevuto l’intervento erano diventati più sensibili nelle loro capacità di condivisione del libro con i loro figli, ma in particolare, parevano accresciute in modo significativo, le interazioni reciproche. Inoltre, rispetto al gruppo di controllo, i bambini il cui genitore aveva ricevuto questo training, risultavano avere dei miglioramenti nell’apprendimento del linguaggio, e nell’attenzione, con chiari benefici in diverse aree dello sviluppo tra cui l’empatia e la comprensione sociale.
Grazie a questo lavoro incredibile, questi ricercatori hanno compreso quanto un programma così semplice e accessibile a tutti, possa portare cambiamenti molti significativi nella relazione genitori/figli, ma in particolare hanno incominciato a riflettere, insieme ad altri operatori, sul fatto che interventi di questo tipo potrebbero essere utili anche in paesi definiti come “sviluppati”, ma che stanno soffrendo di altri tipi di “deprivazioni”. Oggi, vi è, infatti, la consapevolezza che una vita caotica, la fatica a decentrarsi dai propri bisogni di adulti e la distrazione indotta dai social network, inducono un impoverimento delle relazioni primarie e dell’attenzione alla comunicazione sensoriale e corporea. Vi è dunque l’esigenza di trovare delle modalità per aiutare i genitori a riscoprire il piacere di stare con il proprio figlio, uscendo da una visione stressata e prestazionale.
Inoltre, se pensiamo ai bambini adottati, e alla fatica che i genitori possono vivere nel trovare una consonanza con loro, in quanto portatori di tempi e linguaggi molto differenti, la possibilità di fare un’esperienza di questo genere potrebbe essere veramente un’occasione unica.
Si è, dunque, pensato di provare a proporre a un piccolo gruppo di genitori adottivi, con figli in età compresa tra i 2 e gli 8 anni, un’esperienza “pilota” di “book sharing”. Abitualmente questo intervento è riservato a genitori di bambini in età prescolare, ma nel caso dell’adozione si è pensato di poter allargare la fascia di età, considerando come variabili importanti l’arrivo del bambino in famiglia e i suoi vissuti. Se, infatti, un bambino nato e cresciuto nella stessa famiglia si trova a vivere fin da subito codici relazionali verbali e non verbali condivisi, nel bambino adottato vi è stata sicuramente un’esperienza breve o lunga, in cui ha sperimentato qualcosa di molto differente, e, spesso, poco consona ai suoi bisogni.
L’obiettivo di tale proposta era quello di capire se questa modalità poteva effettivamente essere utile ed efficace, immaginando in un futuro di poter costruire un programma specifico rivolto alle famiglie adottive, con la finalità di facilitare e accrescere la relazione fra genitori e figli, costruendo fra loro un linguaggio emozionale e corporeo condiviso e favorire lo sviluppo di competenze sociali e cognitive, in bambini che hanno vissuto abitualmente scarse o inadeguate esperienze di relazione primarie.
Alle famiglie coinvolte sono stati consegnati dei questionari da compilare prima dell’inizio del percorso, finalizzati, prima di tutto, a creare una sorta di auto-riflessione sulla propria genitorialità, mettendo in evidenza alcuni aspetti della relazione con i figli e quelle che erano le abitudini rispetto alla lettura di libri.
Gli incontri svolti sono stati quattro, di cui tre di vero e proprio training e uno finale di sintesi e confronto sull’esperienza fatta.
Negli incontri sono state date alcune nozioni di base sull’applicazione della tecnica, centrando poi l’attenzione su temi importanti come la capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro, l’empatia, l’importanza di leggere le intenzioni degli altri, la trasmissione dei valori, la sintonizzazione. Ogni volta è stato consegnato e presentato un libro specifico, su cui si è lavorato nel corso dell’incontro e che, poi, portato a casa, è stato condiviso con i propri bambini con la modalità del book sharing.
Nel confronto, i genitori hanno confermato come tale modalità di condivisione del libro, abbia realmente aiutato i propri figli e la relazione. Uno degli aspetti più interessanti è stato quello di avere avuto, nell’esperienza concreta, la possibilità di incontrare il mondo interno dei propri bambini, i codici e le rappresentazioni per potersi poi sintonizzare con loro, accompagnandoli, talvolta a dare un nome, talvolta ad immaginare altri possibili punti di vista. Il percorso di condivisione è divenuto un punto d’incontro in cui, non solo i genitori, ma anche i figli hanno potuto raccontare le proprie storie. Una mamma ha portato l’esempio del proprio figlio, adottato in Russia a 5 anni, che davanti ad un riccio alla ricerca di un abbraccio ha avuto l’urgenza di condividere: “Ma se ci fossero stati i suoi genitori, loro, un abbraccio glielo avrebbero dato”. Oppure la costruzione di un dialogo sul sentire un personaggio che alla mamma pareva “buono”, ma alla figlia invece sembrava “cattivo”.
In questa esperienza, i genitori hanno raccontato di avere sperimentato l’importanza dell’attesa e dell’ascolto, il valore della sincronizzazione e del contagio emotivo, così come l’importanza di riconoscere sempre la legittimità dell’emozione di ciascuno, come lo sforzo fatto per comprendere e condividere. Questo atteggiamento ha consentito anche di osservare e sentire la fatica fatta dai propri figli ad indentificarsi con alcune emozioni, a condividere vicende drammatiche dei personaggi, in quanto profondamente evocative dei propri vissuti, ma nel contempo l’importanza e la potenza trasformativa del poter condividere.
Infine, ciò che i genitori hanno raccontato tra la sorpresa e la soddisfazione è stato, non solo di avere sentito il piacere di questa esperienza, ma anche di avere fatto propria la valenza educativa di tale approccio. Il book sharing, infatti, invita a rinforzare in modo positivo il bambino, a ritenere sempre importante ciò che nota e sente e a rispettare i suoi tempi, ma in particolare aiuta a comprendere il valore del mettersi in gioco e della sincronizzazione, specie con bambini che possono avere altri linguaggio o far fatica a fidarsi. Tutto questo, in modo assolutamente non “controllato” e deciso a priori, pare essere scivolato nella vita quotidiana, offrendo reali possibilità d’incontro e cambiamento.
Le parole di Ada
Ho sempre letto molto per me stessa e per le mie figlie, convinta che le storie aprano mondi possibili e divengano attivatori di curiosità. Ho sempre pensato che leggere un libro insieme al proprio figlio sia una esperienza che vada al di là del semplice momento narrativo. La percezione che dietro ci fosse un importante momento di relazione mi ha sempre accompagnata. Il percorso del book sharing, cui ho avuto il piacere di partecipare, è stato dunque una naturale prosecuzione di un cammino già avviato personalmente, ma al contempo, nonostante la dimestichezza sviluppata in questi anni, mi ha aperto visioni di mia figlia e del nostro stare insieme profondamente diverse. Ho avuto infatti l'opportunità di spostare lo sguardo, di imparare come leggere una storia non sia solo utile strumento per veicolare visioni, prospettive ed emozioni al proprio figlio, creando per lui/lei strade da percorrere possibili. Nel book sharing ho imparato a "fermarmi" e a stare realmente in ascolto attivo, senza nessuno scopo preciso se non quello di divenire io stessa contenitore per quello che mia figlia in quel momento aveva voglia di dirmi. Sono stata in grado di trasformare il senso di leggera frustrazione che spesso accompagnava la fatica di arrivare in fondo ad un albo o l'impossibilità di stare sedute vicine e ferme per più di cinque minuti, nella possibilità di guardare e ascoltare mia figlia in quella sua irrequietezza, di accoglierla e farle capire che "va bene così". Ciò che ho imparato ad esercitare, accanto allo spostamento del punto di vista, è stata la sospensione, del tempo, del giudizio e della valutazione di quanto stavamo facendo. È stato un poco come fare un esercizio di libertà estrema, una avventura in cui i confini delle cose dovevano abbattersi per lasciare spazio a me e a lei di poter vagare ovunque perché il libro a volte indicava direzioni ma non ce n'era una giusta, ce ne erano infinite possibili.