Autore: 
Monica Nobile – pedagogista, tutor dell’apprendimento, counselor.
Ho letto con interesse l’articolo di Luigi Ballerini che ben descrive la necessità di orientare i figli senza caricarli delle nostre aspettative, spostando il centro da noi a loro.
 
Propongo in questo articolo un approfondimento sull’orientamento – scolastico ma non solo – che coinvolge molteplici attori: famiglie, insegnanti, adulti vicini ai ragazzi.
 
In questi ultimi mesi ho accolto diverse richieste di confronto su questo tema, da parte di genitori e da parte di ragazze e ragazzi.
 
Giulio ha appena compiuto 16 anni. Lo conosco dall’anno scorso, quando frequentava la seconda nel liceo più rinomato della città. Era in piena fase ribelle, saltava spesso le lezioni, usciva tutte le sere, consumava alcolici e fumava canne. La madre mi chiedeva di sostenerlo nella scuola perché era preoccupata delle tante insufficienze che collezionava. L’ho incontrato una prima volta chiacchierando su tutto, tutto tranne che scuola. Volevo capire come stava, cosa pensava, cosa lo agitava. È stata una chiacchierata fitta, come aver aperto lo sfiato della pentola a pressione. Mi ha chiesto di rivedermi perché desiderava continuare a raccontarmi e così ci siamo incontrati altre volte, durante le quali ho accolto il suo bisogno di riordinare emozioni e pensieri. La madre mi ha chiesto poi un appuntamento, per chiarire che si aspettava da me un intervento di orientamento e supporto scolastico, che per altre cose, mi spiegò, a tempo debito avrebbe individuato uno psicologo adatto al figlio. Che ora la priorità era un’altra.
 
Ecco vorrei proporre una riflessione su cosa significhi orientamento. È scattata, in questo periodo, la fase della scelta delle scuole superiori e ritengo che su questo tema gli approfondimenti non siano mai abbastanza.
 
Cosa significa orientamento? Generalmente viene inteso come guida verso la consapevolezza delle proprie inclinazioni, affinché la scelta del percorso formativo sia coerente e azzeccata.
Il MIUR (Ministero Istruzione) riporta: ... mettere a disposizione degli studenti le informazioni necessarie a scegliere consapevolmente e con l’aiuto della propria famiglia la scuola ed il tipo di indirizzo di studio più vicino alle proprie potenzialità, ambizioni e aspettative…
Credo sia importante sottolineare che per orientare occorre conoscere la persona che si ha di fronte. Non è affatto scontato che abbia chiare le proprie ambizioni - termine che mi risuona comunque stonato - non è affatto chiaro che ritenga di avere delle potenzialità. Soprattutto se si tratta di una persona giovanissima, che sta intraprendendo il non semplice percorso di ricerca della propria identità. La letteratura pedagogica indica, come pratica necessaria per accompagnare nel percorso formativo, quella di definire il sistema di attribuzioni della persona.
Ovvero la percezione delle cause rispetto agli eventi. Ad esempio, l’andare bene o male in una materia può essere riferito alle proprie capacità o al proprio impegno, ma al contrario la causa può essere ritenuta “esterna” come l’antipatia dell’insegnante, i compiti troppo difficili, un gruppo classe di secchioni con cui è difficile competere…
 
Il sistema di attribuzioni è importante perché ci dice qualcosa rispetto a quanto la persona si senta padrona del proprio destino, in grado di controllare gli eventi attraverso le proprie strategie e comportamenti. Questo riguarda non soltanto la scuola ma più in generale l’approccio verso la propria vita. Così l’orientamento assume un respiro più ampio, non si ferma nell’ambito scolastico ma si apre alla possibilità di aiutare le persone giovani a sentirsi protagoniste, gradualmente responsabilizzate rispetto alla loro vita, destinatarie di una progressiva fiducia nel loro sapersi destreggiare, fuori dalla famiglia. In quest’ottica assumono significato anche le tappe quotidiane come farsi la lavatrice o gestire i soldi della spesa e quelle della crescita responsabile come gli orari di rientro, le frequentazioni amicali, i primi viaggetti in autonomia...
 
Per poter orientare dobbiamo, dunque, tenere a mente la complessità della persona, non solo le sue qualità cognitive ma anche quelle emotive, non solo il modo di vivere nella scuola ma anche le relazioni con i pari, con la famiglia, con gli adulti di riferimento. Dobbiamo capire quanto un ragazzo si senta davvero in grado di agire consapevolmente le proprie scelte, di poterle controllare e di poter raggiungere buoni risultati attraverso le proprie qualità.
 
Quando parliamo di orientamento, penso, dobbiamo prima entrare nel mondo di una persona, considerata nella sua interezza e accolta in tutte le sue diverse dimensioni: emotiva, relazionale, cognitiva. Per guidarla dobbiamo calarci nella sua storia e per farlo credo che dobbiamo partire dall’ascolto attivo. Proprio perché l’ascolto attivo si configura come strumento fondamentale nella relazione educativa in quanto investe non solo la sfera cognitiva della personalità, ma anche quella sociale e affettiva.
 
Di fronte a un ragazzo che chiede di essere supportato e guidato non possiamo limitarci a fare domande a risposta chiusa sulle sue inclinazioni, chiedere le materie preferite o cosa immagina di fare da grande. Dobbiamo ascoltarlo, lasciarci coinvolgere nella sua narrazione. Prima di giungere alle conclusioni dobbiamo saperne di più sulla sua vita e sul suo modo di stare al mondo.
 
Questo è ciò che ho cercato di spiegare alla madre di Giulio, precisando che il mio lavoro, quello pedagogico, non si sovrappone a quello psicologico, ma è finalizzato a far emergere le questioni importanti che orientano le scelte. Se poi dall’ascolto emergono criticità tali da richiedere l’intervento di uno psicologo, le due differenti professionalità si integrano. L’una – pedagogica – favorisce il passaggio all’altra – psicologica.
 
È un tema su cui desidero tornare, poiché mi accorgo che frequentemente non siano chiari i ruoli e le funzioni dei diversi professionisti: l’educatore, il pedagogista, lo psicologo, il neuropsichiatra.
 
Quello che ora mi preme spiegare è che Giulio ha raccontato di sé e mi ha fornito elementi fondamentali per poterlo aiutare rispetto al suo progetto formativo, mi ha svelato qualcosa sulla propria autostima, su come si senta influenzato dalla famiglia, sul suo desiderio di frequentare una scuola molto quotata per non passare da sfigato, sulla frattura netta che vive rispetto alle sue relazioni con i compagni di scuola al mattino e i suoi compagni di bevute alla sera, sospeso nella sua identità non ancora ben definita.
La costruzione di una relazione autentica con lui, basata sull’ascolto non giudicante e la comprensione empatica, mi ha permesso di definire gli obiettivi educativi all’interno di un progetto formativo, condiviso con lui, che tocca le qualità cognitive ma nel contempo dà rilevanza allo sviluppo di competenze relazionali e di intelligenza emotiva.
 
Desidero proporre una riflessione sul mio incontro con una ragazza che è stata adottata a due anni e che, giunta alle scuole superiori, ha vissuto un momento di profonda crisi, tanto da arrivare a un passo dall’abbandono della scuola. È arrivata da me perché aveva scoperto la documentazione sulla sua adozione, di cui i genitori non le avevano parlato. Era arrabbiata con loro ma anche molto scossa per ciò che aveva scoperto sulla sua famiglia originaria. Certamente questo particolare evento le aveva provocato un terremoto interiore, ma in lei si intersecavano anche altri nodi da sciogliere. Nell’ascoltarla ho colto tanti fattori che influivano sulla sua crisi: la ricerca delle origini, il conflitto con i genitori, la scelta di una scuola che non la convinceva e non la motivava, la sua prima storia d’amore finita male, le sue emozioni e i suoi pensieri rispetto alla storia pesante della sua madre originaria . Penso che la concomitanza di tanti eventi abbia contribuito a renderla confusa e che lei avesse bisogno di attenzione e ascolto a trecentosessanta gradi.
Un passo alla volta abbiamo delineato un percorso, coinvolgendo la famiglia, confrontandoci con gli insegnanti, attuando progressive scelte concrete che la facessero stare meglio, abbastanza da poter affrontare questioni più spinose. Quando il nostro rapporto di fiducia si è fatto più saldo le ho proposto di conoscere un collega psicologo che avrebbe potuto sostenerla nell’elaborazione della sua storia. Credo che orientare sia anche questo: comprendere quali siano le risorse a cui attingere.
 
In spagnolo la domanda cómo estás? è generica e richiama alla risposta altrettanto generica bien. In realtà esistono moltissime altre forme per chiedere come stai, a seconda della situazione in cui ci si trova e soprattutto del reale interesse per la risposta.
Chi studia spagnolo apprende le alternative al cómo estás. Per rendere l’idea di come possa essere una scelta linguistica formale e vuota, un amico spagnolo mi ha insegnato una risposta ironica che ho fatto mia: Cómo estás? Todo bien! O quieres que te cuente? Come stai? Bene...o vuoi che ti racconti?

Quando incontro una ragazza o un ragazzo chiedo: come stai? E desidero autenticamente che mi raccontino.

Dopo, solo dopo, provo a sostenerli e guidarli.

Data di pubblicazione: 
Domenica, Gennaio 14, 2024

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