Quelle che stai per leggere sono le domande sulla guerra in Ucraina che ha fatto mio figlio dopo aver appreso la notizia a scuola. Mentre lo rassicuravo, mi chiedevo quali fossero le parole giuste da usare per spiegare la guerra ai bambini.
La guerra in questi giorni ci ha travolti con immagini, suoni, notizie e parlarne è diventato urgente e difficile. Per questo assieme al mio co-autore de Il Filo di Arianna, abbiamo deciso di provare, nello stile del libro a raccontare la domanda di una madre e la risposta di uno psicologo. Abbiamo quindi scritto questo articolo per condividere alcuni possibili consigli con tutti voi. I consigli sono stati scritti da Franco Carola, psicologo e psicoterapeuta.
Il contesto
Mio figlio ha 8 anni e come la maggior parte dei coetanei non si è mai confrontato con ciò che significa la guerra. Invece, noi genitori – come molti della nostra generazione - oltre ad averla studiata sui libri, l’abbiamo sentita raccontare da chi in famiglia l’ha vissuta direttamente – o indirettamente - e conserviamo il ricordo delle immagini viste in TV dei conflitti in Libano, in Siria, in Iraq, in Afganistan, in Bosnia, in Kosovo, ...
C’è di più: i bambini non hanno una percezione reale dei riferimenti geografici e ciò implica il sentire gli eventi come fossero qui e ora, con la stessa urgenza di quegli imprevisti che richiedono una soluzione.
Ed infine, le domande avvengono all'improvviso, a casa e a scuola, con noi genitori ma anche con insegnanti e compagni. In questo momento bisogna riconoscere che siamo tutti smarriti.
Le domande
"Mamma, c'è la guerra: mi spiegate cosa sta succedendo? - mi ha chiesto con lo sguardo triste e smarrito - Perché non imparano ad andare d'accordo?”.
Spesso noi adulti pensiamo che i bambini, qui, siano troppo piccoli per questioni così grandi, che siano da proteggere e tener lontani da simili notizie. Eppure loro, sebbene siano lontani da questa guerra, ne stanno percependo l’orrore attraverso i racconti degli adulti e la narrazione mediatica a cui stanno assistendo. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile.
Dopo le prime risposte e rassicurazioni, il giorno seguente ha ripreso l’argomento domandando: “E se scoppia la Terza Guerra mondiale? E se l'America entra in guerra contro la Russia, l'Italia deve aiutare? Mamma, io ho paura che la guerra arrivi anche qui".
In quelle domande ho avvertito forte la sua preoccupazione e il mio bisogno come genitore di raccogliere le idee sul come parlargli di cosa è la guerra.
I consigli
Il termine “guerra” deriva dal germanico “werra”, mischia. Il significato arcaico ci rimanda da subito ad un aspetto di tale concetto molto particolare: l’improvvisa e disordinata miscellanea di persone su un medesimo territorio.
Cosa distingue dunque la guerra da una lotta, una rissa o da una festa? Qualcuno sobbalzerà pensando alla banalità di tale quesito, eppure, se il nostro interlocutore è un bambino, potrà essergli utile declinare al meglio un tema tanto ampio per renderlo maggiormente accessibile al piccolo. La guerra per un bambino è un concetto forse meno complesso da comprendere di quanto si possa credere.
Proviamo a procedere a ritroso coinvolgendo i più piccoli in un processo induttivo: conduciamoli, dalla loro specifica e personale esperienza, ad una comprensione profonda. Il bambino necessita di un ancoraggio alla propria realtà per poter formalizzare nuovi concetti, anche i più complessi, per ragionarli e per farli dunque propri. Ma, come proposto, andiamo per gradi.
Per meglio comprendere come approcciare la questione coi più piccoli, proviamo a ragionare su una nostra esperienza, su una situazione simile accaduta tra persone adulte. Pensiamo ad un litigio che non si è risolto o che ha lasciato in noi quella sgradevole sensazione di insoluto, e magari ha condotto alla fine di una conoscenza o di un’amicizia. Immaginiamo una situazione in cui si sia “persa la testa”: una persona a noi cara ci ha fatto tanto arrabbiare da snaturare il nostro comportamento, da farci reagire con improvvisa ed inaspettata, incontrollata rabbia. Magari ci è accaduto di avere anche l’impulso di reagire fisicamente o siamo stati verbalmente violenti, dicendo frasi di cui ci siamo poi pentiti.
Quando si “perde la testa”, si cede al richiamo di emozioni tanto violente da doverle agire in qualche modo, evacuarle da sé. Il vuoto che tale massa emotiva appena esplosa all’esterno lascia in noi ci fa sentire l’urgenza di ricomporci, così come di giustificare tali esagerate reazioni a noi stessi. Sentiamo forse che un equilibrio è andato perso in noi, qualcosa si è rotto, nella deflagrazione. Alcune persone, quando il danno fatto è avvertito come troppo grave, pur di non sentire i propri sensi di responsabilità, di colpa o di vergogna, si rifugiano in considerazioni concettuali, allontanandosi dalla sfera emotiva, ricercando una sensazione di controllo mentale che riporti una parvenza di equilibrio. “A freddo”, infatti, quando ci si è calmati e si potrebbe provare, ad esempio, a scusarsi per l’esagerazione, alcuni scelgono invece di arroccarsi sulle proprie posizioni, formalizzando una spaccatura comunicativa ancora più profonda con la persona con cui si è in conflitto. Insomma, non si comunica più e non si riesce più a fare la pace.
Quest’ultima può accadere solo quando si sia presa una sufficiente distanza interna dalle proprie emozioni più distruttive, dando loro un nome, soppesandone gli impatti interni ed esterni, e facendo giusta ammenda per i danni che possono aver arrecato all’altro.
La tregua, la pace dopo un conflitto, accadono solo a fronte di una sincera trasformazione interna. È necessario fare leva su una complessa alchimia psicologico-emotiva grazie alla quale le energie spese in rabbia ed odio, e tutta la sovraeccitazione emozionale, ritrovano la loro naturale tranquillità ed equilibrio. Tale processo interno è una sorta di interruttore, di “click”, che può accadere solo a fronte di un’auto-lettura ed onesta comprensione di Sè.
Aiutare il bambino a pensare le proprie emozioni più violente, a ragionarci sopra, è un modo per spiegargli quel turbinio emotivo che, in certi frangenti, impedisce di fare la pace, anche agli adulti. Potremmo cominciare col chiedergli: “Secondo te, come e perché nasce un conflitto tra più persone? A te, è mai capitato di litigare con qualcuno (anche con noi genitori ad esempio) e perché l’hai fatto?”.
Il primo intento che ci si dovrebbe porre, quando vogliamo aiutare i più giovani in un ragionamento, sarà sempre favorire un processo di tipo narrativo, creare un filo logico tra il loro mondo interno e ciò che del mondo esterno non gli è ancora chiaro o sia da chiarire. Potremmo quindi, proseguendo nel colloquio, provare a chiedergli di spiegarci per bene come si siano svolti i fatti in quella determinata circostanza: “In quell’occasione, chi ha cominciato a litigare secondo te? Di chi era la colpa? Ma, soprattutto, tu come ti sei sentito prima, durante e dopo la lite?”.
Aiutare un bambino nel comprendere i concetti più complessi significa innanzitutto tradurre quegli eventi in un linguaggio a lui più vicino, quello delle emozioni. Supportare l’associazione di quello specifico ricordo con le emozioni che l’hanno accompagnato, e le loro evoluzioni, diventerà un primo passo per farlo ragionare su un qualcosa di molto intenso e vissuto in prima persona, di più facile accesso per lui.
Il bambino di Sara si domanda “perché non vadano d’accordo”, e potrebbe essere utile, a questo punto, rigirare la domanda a lui stesso: “Secondo te perché non si va d’accordo? Come ci si sente quando non si è amichevoli gli uni con gli altri?”.
Se il bambino manifestasse difficoltà nell’esprimere a parole ciò che pensa, potremmo sempre fornirgli carta e colori e chiedergli di disegnarci la risposta o, ancora meglio, creare una storia a fumetti su una situazione di conflitto, dalla sua origine, alla sua risoluzione. Chiediamogli un disegno dove siano tracciati in maniera chiara i tre momenti salienti: il “prima” del conflitto, il “durante” ed il “dopo”. Poi potremmo chiedergli: “Mi scrivi o mi dici come si sentono i personaggi che hai disegnato, o come ti senti proprio tu, osservando i disegni che hai fatto? Come ci si sente prima? E durante? E dopo?”.
Il bambino ha il compito arduo di comprendere perché, anche come adulti, in alcuni momenti e circostanze, accada di cristallizzarsi nelle proprie rabbie ed emozioni distruttive, piuttosto che ricercare strenuamente quella soluzione alchemica, quella trasformazione delle rabbie che permetta una risoluzione al problema. Il mantenere volontariamente una tensione, un conflitto, è faticoso ed alcune persone lo fanno perché poco consapevoli del danno che recano innanzitutto a se stesse.
Stazionare nei climi di tensione interna affatica e amareggia: in fondo rende chiunque triste . “Quando sei arrabbiato, hai mai fatto caso che è più difficile pensare? Prova a rifletterci: in quei momenti riesci a pensare con chiarezza o hai più l’urgenza di fare cose tipo urlare, rompere tutto e via discorrendo?”.
L’allucinazione di potere, tipica in un clima interno che sedimenti nella rabbia, ci fa sentire sempre molto determinati e sicuri di noi stessi, ma ci rende anche altrettanto lontani da ogni sorta di profondo rilassamento, distanti dal nostro vero e naturale stato di quiete. L’organismo infatti è biologicamente orientato all’equilibrio ed al risparmio delle energie.
La rabbia e l’odio, per quanto possano infiammarci e farci sentire forti, ci allontanano dal nostro naturale stato di bilanciamento. “Ci hai fatto caso? Quando sei molto arrabbiato non ti senti forse anche molto stanco dopo? Ecco, alcune persone se lo scordano e fanno finta di non sentire quanto sia faticoso esser arrabbiati gli uni con gli altri. Anzi: si credono invincibili”. Cominciamo con concetti semplici per poi spingerci più in là.
L’appartenenza geografica ad uno Stato, ad esempio, comporta un ulteriore fattore di complessità, soprattutto nei bambini più grandi che da quella determinata Nazione dovessero essere originari. Il rischio è di sentirsi essi stessi oggetto di discussione solo in virtù delle proprie origini etniche. Diventa dunque fondamentale incoraggiare i bambini ad una profonda riflessione su quanto stia effettivamente accadendo, ricordando che la guerra origina nelle intenzioni dei singoli, di quelli che non hanno cura né di sé, né delle persone a sé vicine, accecati da emozioni che non sanno controllare o che non riconoscono.
Avere chiare le dinamiche emotive alla base dei conflitti potrebbe risultare utile ai bambini per argomentare con i propri pari, per scambiarsi informazioni. Eventuali critiche o attacchi verbali, legati all’essere russi o ucraini ad esempio, da parte dei propri compagni di giochi, possono generare grande disorientamento. I bambini tra di loro parlano e ragionano, a volte in maniera confusa ed asciutta. Avere però in proprio possesso delle giuste argomentazioni, plausibilmente valide, aiuta già di per sé il bambino a preservare il senso di appartenenza geografica senza sentirsi responsabile delle scelte violente di un proprio connazionale. La guerra appartiene a chi non ricorda il funzionamento alchemico del mondo emotivo, a chi si è dimenticato come, da bambino, il passaggio dalla rabbia al pianto e successivo rilassamento fosse benefico, e preferisce aggrapparsi con forza ad emozioni distruttive. La guerra non ha a che fare con i confini geografici, ma con quelli interiori, con l’incapacità di gestire emozioni a volte troppo intense.
Accogliere e trasformare le proprie emozioni, come fanno naturalmente i bambini, è il modo più saggio per sedare i conflitti. Aiutiamo i più piccoli a capire che loro non hanno nulla da comprendere che già in fondo non sappiano, anzi, …hanno davvero tanto da insegnare.
Le conclusioni
Quando abbiamo deciso di scrivere questo articolo su come spiegare la guerra ai bambini ho chiesto a mio figlio se potevo riportare quello che lui mi aveva chiesto. Lui acconsentendo ha aggiunto: "Quando sarà pronto, traducetelo anche in ucraino e russo per i genitori che sono lì con i loro figli".
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