Autore: 
Anna Guerrieri

Quando ho letto la prima volta un pezzo scritto da Heidi era un racconto che lei aveva pubblicato su un social media. Riguardava lei, riguardava suo figlio, riguardava lei in rapporto a suo figlio. Raccontava della difficoltà di trovare un punto di contatto con un figlio incontrato da poco, della sua incertezza, della sua paura forse, e poi di una palla, di una partita e di un vestito schizzato di fango. Leggendola ho sentito il sole, l’aria, la palla avanti e indietro, la stoffa sulla pelle e la palla che rimbalzava nel fango, schizzando tutto e tutti. E ho avvertito lo sguardo con cui guardava il sorriso di suo figlio.

 Non so cosa sia avvenuto davvero e cosa avvenga davvero nel cuore di Heidi, la donna, la madre, la moglie, l’amante, l’amica, la figlia. Però ho sentito la sua voglia di guardarsi, di sentirsi, di intrecciare storie, di guardarsi di nuovo. Ho sentito la donna “in cerca”. E per questo, quando ho saputo che aveva tenuto un diario, un diario che andava indietro nel tempo, sono stata felice di proporle prima di leggerlo e poi di pubblicarlo. Ho pensato che come aveva parlato a me avrebbe potuto parlare ad altri, altre donne, altre madri, altre figlie, altre mogli, altre amanti. 

Ed Heidi lo fa, tessendo una trama di passato e presente, di qui e là, di ora e allora. Ricorda. Racconta. Ed è proprio questo racconto che sono felice di presentare "in stampa" (su carta e in e-book).

Quelli che seguno sono due brevi estratti di 2140 giorni di noi, nuovo libro della Collana editoriale Genitori si diventa. In fondo troverete tutte le indicazioni per acquistare il libro. 

Contro ogni logica e previsione, te lo si leggeva in faccia che eri pronto ad affidarti a quei due sconosciuti che ti era stato detto di chiamare mamma e papà. C’era in te la forza istintiva di un gattino che miagola in una strada fangosa, caparbiamente fiducioso che prima o poi qualcuno lo sentirà e verrà a prenderlo. Non somigliavi per nulla all’idea che mi ero fatta di te. Ma i figli – tutti quanti e non solo quelli che diventano tali per adozione – pare abbiano proprio questo preciso compito, di scardinare le fragili certezze dei loro genitori, di costringerli a ripensarsi dentro a un ruolo che non è mai come se lo erano immaginato.

Mi ero preparata a parare i dardi della tua diffidenza, ad arginare la tua rabbia. La rabbia è territorio “mio”, la conosco, la capisco, quella tua muta richiesta di essere amato, invece, era inattesa e prematura e mi faceva sentire inadeguata. Avevo una paura tremenda di deluderti, di commettere un qualche errore grossolano e irreparabile e così, nel timore di sbagliare, non facevo niente e, paradossalmente, sbagliavo lo stesso, probabilmente anche di più.

Non mi era mai capitato di sentirmi così vulnerabile di fronte a qualcuno, spogliata dei miei sofisticati meccanismi di difesa dallo sguardo schietto e disarmato di un bambino di sei anni. Di notte, mentre dormivi, scivolavo nel tuo letto facendo attenzione a non svegliarti, appoggiavo la mano sul tuo petto per guardarla sollevarsi sospinta dall’alito lieve del tuo respiro, infilavo il naso nei tuoi capelli per fare mio il tuo odore di zucchero a velo.

“Mamma, non puoi dire sul serio, dai, non profumo davvero di zucchero a velo” puntualizzi adesso quando ti racconto questa storia. “Invece sì” insisto io. Tu scuoti la testa, rassegnato, ma in fondo lo so che sotto sotto la mia ostinazione ti gonfia di tenero orgoglio.

In quelle lunghe notti indiane dormivo pochissimo, ascoltavo la pioggia cadere incessante e monotona (era appena iniziata la stagione dei monsoni) e facevo l’inventario delle cose che durante il giorno avevo imparato di te. Ad esempio che ti piacciono i colori sgargianti, soprattutto il giallo ed il rosso, che sai apprezzare l’elegante rigore del nero, ma disdegni le tonalità pastello, l’incertezza delle tinte sfumate. O che non ami la frutta, ma fai eccezione per mango e banana. Cose così insomma.

Mio figlio,questo è mio figlio” ripetevo sottovoce nel buio per convincere me stessa che era vero. Volevo conoscerti, avevo fretta di farlo, ma ho dovuto attendere i tuoi tempi.

La cosa buffa è che più cose scoprivo di te, più imparavo a conoscere me stessa. Non è che prima non sapessi chi fossi, ma non mi conoscevo nella relazione con te. Non mi aspettavo che per te sarebbe stato così difficile imparare pressoché ogni cosa né che per raccontarti non avresti chiesto ausilio alle parole che tutt’ora, capricciose, a volte ti sfuggono. Non sospettavo il terrore che mi avrebbe allagato il cuore al pensiero di ogni tuo inciampo. Mi sono ritrovata in testa pensieri inaspettati, che avrei voluto respingere perché non volevo credere che parlassero di me. Non riuscivo a capire le tue fatiche e troppo spesso ho sottovalutato le tue risorse.

Quante volte mi hai stretto la mano e mi hai sorriso, rivelando un buon senso inaspettatamente adulto: “va bene così, mamma, va bene lo stesso”. L’indulgenza che non ho mai saputo accordarmi me l’hai insegnata tu. Adesso non ho più paura, non così tanta almeno. So che siamo destinati, almeno qualche volta, a deluderci a vicenda, ma non ha poi tutta questa importanza. 

Non sono diventata più sicura di me, ma mi fido del legame che ci unisce. Siamo entrambi imperfetti, ma nessuno di noi due – ora lo so – è sbagliato.

 

Riconoscere che il passato ha importanza, anche quello che non abbiamo condiviso e appartiene solo a te, non significa negare valore al nostro tempo insieme. Tu sei la somma di ogni tuo singolo giorno, anche tu, come tutti, sei un puzzle meraviglioso e complesso e, paradossalmente, a comporlo concorrono anche le tessere mancanti. Mi capita a volte di guardarti, un po’ di sottecchi, magari fingendo di fare altro, perché se mi becchi poi ti imbarazzi: c’è tanto di me in te, per certi versi mi somigli davvero, ma per altri con me non c’entri nulla. 

In tutta sincerità non posso neppure dire che mi dispiaccia o che mi spaventi, forse perché scoprirsi diversi non significa che non ci si possa riconoscere nell’altro, l’appartenenza non passa attraverso la negazione delle differenze, ma è amare anche ciò che non si comprende, che si sente irriducibilmente altro da sé. Nella tua diversità non mi sei estraneo, se capisci cosa voglio dire.

 

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Data di pubblicazione: 
Domenica, Luglio 11, 2021

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