Autore: 
Francesca Ancidei

“Il passato giace sul presente come il corpo morto di un gigante”

(Nathaniel Hawthorne)

Esiste un bisogno psicologico di conoscere la propria storia, che normalmente vediamo nei bambini quando costantemente e ripetutamente chiedono ai genitori di raccontare loro quando sono nati, come erano da piccoli, come sono stati accolti, cosa facevano ecc.. Il bisogno di scoprire la propria origine risponde in realtà ad un più latente bisogno di appartenenza e di identità.

Perché mi hanno abbandonato?” “Quali sono le mie origini?” sono domande fisiologiche nell’esperienza adottiva che si intrecciano strettamente con la costruzione dell’identità dell’adottato. La perdita inclusa nell’adozione influisce a livello identitario perché stabilisce una differenza rispetto ai coetanei non adottivi nella costruzione dell’identità (Brodzinsky, 1990). L’abbandono è un evento che il bambino subisce e anche se non ha ricordi ben precisi di cosa sia successo prima dell’adozione, ciò che resta sono storie sfumate di sensazioni e ricordi precedenti all’abbandono e sono questi i tratti che condizioneranno il suo sviluppo. Secondo Brodzinsky (1984) il bambino (adottato in età prescolare) inizia a comprendere che l’adozione porta in sé l’abbandono quando fa il suo ingresso a scuola, con lo sviluppo del pensiero più maturo e con il confronto con i suoi coetanei.  Inizia, così,  a porsi delle domande sulla sua condizione e sperimenta, spesso, un senso di disorientamento.

Non sempre i bambini esprimono il loro dolore e la loro frustrazione, perché hanno timore di turbare i genitori adottivi o perché sono convinti che a questi non piaccia sentir parlare della loro storia e della loro sofferenza interna (Brodzinsky, Palacios, 2011). Anche se non ancora in grado di decodificare in modo adeguato gli eventi, questi bambini hanno la consapevolezza dell’enorme differenza fra “questo mondo” e “l’altro”.

I bambini, quindi, nel primo periodo post adottivo, sentono il bisogno di rimuovere il passato e di sentirsi parte del nucleo adottivo. Questo bisogno, intrecciato col timore di vivere un nuovo abbandono e di essere rifiutato, si manifesta nel silenzio e spesso nell’apparente “dimenticanza” delle origini. I bambini adottati portano con sé due appartenenze vissute, il più delle volte, come scollegate, incompatibili o antagoniste. Diventa, dunque, difficile appartenere a entrambe e non è facile fare una scelta poiché la scelta potrebbe rappresentare un tradimento per una di queste (Vadilonga, 2010). Spesso in questa visione fanno paragoni fra il modello da cui provengono e quello in cui stanno vivendo ed è facile che si arrivi alla conclusione che la cultura adottiva sia migliore di quella di provenienza e il bambino, così,  si sente portatore di frammenti interni di una cultura biologica a cui associa emozioni contrastanti: amore- rifiuto, orgoglio- vergogna.

In molti casi i bambini appena arrivati sono molto performanti e spesso presentano la loro storia come perfetta, quasi magica. L. aveva 7 anni quando è arrivata in Italia e la sua era una storia di abbandono e negligenza, era stata trovata in strada a litigarsi gli avanzi della spazzatura con altri bambini e commentava qualsiasi cosa accadesse con la famiglia adottiva dicendo “quando ero in Colombia era meglio”, “a tavola c’erano più cose da mangiare”, “i regali della signora (la mamma biologica) erano più belli”.  

Essere adottati, conoscere i “nuovi” genitori e, come nel caso dell’adozione internazionale, cambiare paese significa uno stravolgimento di tutto il proprio sistema di vita. Metaforicamente è come se i bambini arrivassero nel nuovo paese con una valigia contenente un nome… il loro nome di battesimo, la loro lingua (che spesso viene apparentemente dimenticata), la  cultura in cui sono stati immersi prima di conoscere i genitori adottivi e la loro storia, il loro passato. Prima, in un modo o nell’altro, erano qualcuno, ora bisogna cominciare di nuovo tutto daccapo.

I bambini impattano con un mondo totalmente diverso dal loro, in cui il sistema di cura, il modo di dedicare attenzioni, di parlare, muoversi, mangiare e condurre la propria esistenza è totalmente diverso da quanto hanno conosciuto fino a quel momento e rispetto al quale erano abituati ad interagire.

Questi “guerrieri di cristallo” si trovano di fronte all’ennesima enorme sfida. Spesso si sono trovati, nelle prime fasi della loro esistenza, a dover adattarsi ad una realtà a dir poco scomoda per sopravvivere e di colpo quelle abilità e risorse acquisite non servono più. Ma tutto quanto hanno vissuto fino a quel momento fa parte di loro, è la loro più intima essenza e sono messi di fronte al difficilissimo compito di integrazione fra un prima e un dopo. Devono riuscire a conciliare un passato rappresentato da sofferenza e confusione e un presente costituito dalla nuova famiglia che offre amore e protezione, ma che, all’inizio, è anche sconosciuta e può generare incertezze. 

Per loro esiste, allora, un “prima” e un “dopo”, un “là” e un “qua” e spesso per la paura di perdere ciò che hanno nel presente tendono a eliminare (almeno idealmente) il passato. In molte situazioni, inoltre, il loro passato è composto da eventi per i quali gli amorevoli adulti, che ora sono intorno a loro, non hanno categorie mentali di comprensione. La loro è un’identità mista che all’inizio non è armonica e spesso traccia il confine fra loro e il resto del mondo, coetanei compresi. Anche se non hanno un ricordo nitido, le sensazioni ed emozioni connesse ad esperienze traumatiche di abbandono, incuria, quando non di violenza sono pronte a riemergere con forza in ogni momento. Il corpo mantiene memoria di carenza di attenzione e della violenza e reagisce di conseguenza. Quindi spesso i bambini nel loro sforzo di spostare dall’attenzione cosciente il passato vengono “traditi” dal corpo che risponde e reagisce esattamente come fossero tornati indietro nel tempo. 

Il bambino non riesce a dare senso e significato alle vicende che gli sono accadute nella vita. E non riesce neanche a metterle in continuità con quanto gli sta accadendo nel presente. Le emozioni che tutto questo origina dentro di lui sono inizialmente intraducibili e lo possono portare a sviluppare reazioni e comportamenti come crisi di rabbia, rifiuto, depressione, ecc… che non sono adeguati alla realtà in cui vive ma che sono per lui necessari. I bambini piccoli, peraltro, non posseggono competenze linguistiche e cognitive per esprimere con pensieri e parole adeguate i loro sentimenti.

Al tema dell’abbandono e della perdita sono spesso associati nel bambino sentimenti di colpa, inadeguatezza personale e di rancore: il dolore e la rabbia che l’adottivo sperimenta trovano difficile identificazione nella sua mente e nella verbalizzazione (Paradiso, 2002). 

Un’emozione che merita particolare attenzione è la vergogna. La vergogna è accompagnata dalla percezione di un fallimento totale o parziale della propria dignità e dalla sensazione del pericolo dell’abbandono affettivo. Quest’emozione mina l’integrità del sé (che viene percepito come negativo) e delle proprie capacità. Ha a che fare, quindi,  con l’immagine di sé e soprattutto con l’autoconsapevolezza. E’ anche legata alla competenza sociale, in quanto connessa alla valutazione e alla comprensione degli standard culturali a cui il piccolo cerca di aderire.

Il bambino adottato prova spesso vergogna per la sua storia e l’esasperazione di questa emozione avviene quando “utilizza” elementi molto forti per catturare l’attenzione altrui o per colpire particolarmente qualcuno. V. un bambino di 9 anni porta cicatrici sulla schiena delle percosse ricevute dal padre biologico e per queste prova grande vergogna. A scuola non ama fare ginnastica e non va d’accordo con l’insegnante. Un giorno durante l’ennesimo confronto con lei si gira e tirando su la maglietta le mostra le cicatrici, ottenendo esattamente il risultato che voleva in quel momento, ovvero zittire l’insegnante. Durante il lavoro terapeutico emerse come V. si fosse identificato con quei segni in maniera negativa “io spavento gli altri…..io sono strano”.

La maggior parte delle volte la via interna diretta che viene percorsa è colpevolizzare sé stessi per quanto accaduto, sentendosi cattivi, disfunzionali e meritevoli di abbandono e di tutto quanto è loro capitato, identificando, in sostanza, il loro essere con le caratteristiche degli eventi vissuti in passato.  Questo accade soprattutto quando le esperienze traumatiche sono avvenute in un fase iniziale della vita in cui il bambino è in una fase di egocentrismo integrale (Piaget) che è uno stato indifferenziato interno – esterno e quindi, se la realtà esterna è stata negativa il bambino ha introiettato la percezione di esserlo anch’egli.

Nel neonato esiste un sé presimbolico che si forma in base all’esplorazione del proprio corpo e del mondo circostante e che dipende dalla presenza di una persona adulta che dà continuità al sé per portare alla costruzione di un sé interpersonale (condivisione di esperienze ed emozioni). Così alla fine del primo anno il bambino inizia ad “attribuire menti ad altri corpi” (James).  Dai 9 mesi l’emergere della consapevolezza di sé innesca un processo che porterà alla crescente determinazione nel far valere la propria volontà e all’autocontrollo (capacità di resistere ai propri impulsi per soddisfare le richieste degli adulti). I neonati sviluppano emozioni con funzione adattiva secondo Izard (1978), quindi le emozioni si sviluppano a partire da strutture più primitive nel primo anno, periodo in cui la regolazione delle emozioni dipende soprattutto dai genitori.

La socializzazione infantile e la formazione della personalità sono processi durante i quali il bambino si rivolge a modelli privilegiati che trova nell’ambiente sociale in cui vive. Questa “socializzazione secondaria” è soprattutto un fenomeno di identificazione. 

Da un punto di vista neuro scientifico, i processi imitativi, sembra si sviluppino grazie a una classe di cellule neuronali chiamate “neuroni specchio”. Questi neuroni si attivano nel bambino quando egli osserva un adulto compiere un’azione su un oggetto e spingono all’imitazione. I neuroni specchio sono coinvolti in molte funzioni complesse come la comprensione delle azioni e delle emozioni altrui, nell’empatia, nel linguaggio e nell’imitazione. Queste funzioni della mente sono indispensabili agli uomini per instaurare rapporti di interazioni sociali con i loro simili. La formazione dei neuroni specchio ha luogo durante l’interazione reciproca. 

I bambini che vengono adottati provengono da situazioni in cui ci sono stati adulti non in grado di assolvere alle loro funzioni e, quindi, tutto quanto affermato finora si è formato in un modo difficoltoso, quando non distorto ed i primi apprendimenti si sono basati su una realtà insidiosa, intermittente, negativa, aggressiva, negligente. 

Anche per questo motivo sarà difficile per loro creare una narrazione continua e lineare, che lascerà il posto, invece, ad espressioni “mordi e fuggi” in cui i bambini verbalizzeranno piccoli frammenti della loro storia, a volte senza apparente attinenza con quanto sta accadendo e senza neanche attendere la risposta da parte dei genitori e spesso senza tornare sull’argomento anche per mesi.

Fare i conti con il proprio passato, trovandosi ora in una situazione di agio, amore, attenzione, linearità e gioia può essere insopportabile. Allora la scelta è fra il presente, e il terrore di perdere quanto si sta vivendo, e il passato. Inizialmente la soluzione è spesso fuori discussione e così molti bambini sembrano dimenticare completamente quanto vissuto prima dell’adozione, alle domande anche dirette rispondono spesso con un “boh”, “non mi va”, “non lo so”. In realtà la loro fragile struttura interna sta come mettendo il passato in un cassetto per poter andare avanti, in attesa di un momento futuro in cui un’organizzazione personale più forte permetta di elaborare adeguatamente quanto accaduto.

I figli adottivi cercano di connettere passato e futuro nel presente, integrando diverse parti di sé che sono state lasciate nel passato. Il confronto con  la propria storia, il ritorno alle origini, si presenta, di solito, in adolescenza. Gli adolescenti rispondono al disagio del presente cercando riposte nel passato. Quando una persona non ha nessuna informazione che riguardi la propria storia prima dell’adozione si sente espropriata di una parte della propria esistenza, provando una profonda rabbia e sofferenza. Ricercare e collocare le proprie radici in un posto e in un tempo, è necessario alla persona per costruire un sicuro senso di sé: questa curiosità non ha età, ciò che cambia è il significato che la persona le attribuisce. 

 

I GENITORI

L’articolo 28 della legge 184/1983 e la legge de 2001 impone ai genitori adottivi di informare il figlio adottato sulle proprie origini. La letteratura internazionale è unanime nel pensare che sia fondamentale spiegare al bambino il suo status di figlio adottivo sin da subito e, con parole adeguate allo stadio di sviluppo, la sua storia (per quanto se ne conosce). 

L’importanza per la famiglia adottiva di accogliere il passato del figlio adottivo e le relazioni significative che ne hanno caratterizzato parte della sua esistenza, implica necessariamente un riposizionamento delle relazioni familiari. I genitori adottivi dovrebbero essere in grado di rendere possibile al figlio adottivo di non fare un doppio svincolo ma svincolarsi da un sistema familiare con una narrazione unitaria essendo essa il frutto di un processo di integrazione di eventi precedentemente sconnessi. 

Questo può avvenire solo se la famiglia adottiva riesce ad accogliere qualunque espressione provenga dal figlio rispetto alla sua storia (ed in qualunque modo questa avvenga) senza riserve, timori, blocchi. Normalizzando la narrazione si riesce ad integrarla con una nuova narrazione familiare.

Percependo serenità e tranquillità il bambino si sentirà rassicurato nel porre interrogativi fidandosi di quanto gli verrà risposto. Così potrà costruire una storia che sia narrazione della propria esperienza costruendo il senso di continuità necessario per lo sviluppo dell’identità adulta (Fruggeri, Panari, Caricati, 2008).

In questo difficile percorso i genitori non sono soli ma possono disporre di un sistema di supporto esterno composto da professionisti a cui rivolgersi.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bertrando, (1997) Nodi familiari, Feltrinelli

Bramati, D., Rosnati, R. (1998) Il patto adottivo. Milano, Franco Angeli

Brodzinsky, D.M., (1984) Children’s understanding of adoption. Child. Development, 55, 869-878

Izard, C., (1979) The psychology of emotions, Springer Science & Business Media

James, B.( 2011) Il linguaggio del corpo. Pearson Educational Limited, Gran Bretagna 

Palacios J., (2007) Interventi professionali nell’adozione internazionale: valutazione dell’idoneità, abbinamenti dei bambini alle famiglie e monitoraggio post adottivo, Università di Siviglia, 2007

Paradiso, L. (2002) Prepararsi all’adozione. Ed. Unicopli Milano

Piaget, J., (1967). Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia. Torino. Einaudi

 

Dott.ssa Francesca Ancidei Psicologa dell’età evolutiva, Psicoterapeuta sistemico – relazionale e familiare, Terapeuta EMDR, esperta in adozioni nazionali ed internazionali e in psicotraumatologia dell’infanzia e dell’adolescenza

Data di pubblicazione: 
Sabato, Gennaio 4, 2020

Condividi questo articolo