Autore: 
Francesco Vitrano, neuropsichiatra dell'età evolutiva
Questo articolo è la trascrizione dell’intervento di Francesco Vitrano (neuropsichiatra dell’età evolutiva e psicoterapeuta) a una serata d’incontro, organizzata dalla sezione di Como dell’associazione Genitori si diventa, il giorno 8 ottobre 2021. Il titolo originale dell’incontro è Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro. Al centro dell’intervento, il rapporto tra figli e genitori adottivi nei momenti di crisi, come riuscire a comprendere e gestire le crisi e soprattutto come interpretarle nella giusta ottica. Abbiamo riportato in modo integrale l’Intervento di Francesco Vitrano, mantenendo il tono di conversazione e insieme l’immediatezza e l’incisività nel trattare l’argomento.

Credo vi sarete posti delle domande sul titolo che ho dato a questo incontro. In realtà si tratta di un verso di una bellissima poesia di Wislawa Szymborska che si intitola, “Disattenzione” e che è stata pubblicata nel libro “Due punti” edito dalla Adelphi.
Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande, senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane, come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle, e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché – e da dove è saltato fuori uno così – e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro (e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti perfino nell’ambito ristretto d’un batter d’occhio.
 
Wislawa Szymborska, “Disattenzione”
Mi è piaciuto utilizzare questo verso per due motivazioni. Il primo è che l’autrice in questa poesia rappresenta la difficoltà che ciascuno di noi manifesta nel fare attenzione, che è poi nel prendersi cura delle persone che ci sono vicine: impegnati come siamo nella quotidianità e nelle attività in cui siamo giornalmente coinvolti. Dice la Szymborska che coinvolti dalle cose giornaliere finiamo per esprimere disattenzione per le persone che ci sono vicine. Il rischio è di diventare assolutamente ciechi rispetto a tutto quello che sta accadendo accanto a noi, ciechi rispetto a chi ci sta vicino, ciechi rispetto alla possibilità di dare un significato e un senso alle cose che ci accadono. E’ come se non fossimo più in grado di acquisire consapevolezza, rispetto a ciò che definisce le nostre esperienze, anche relazionali e rispetto alle nostre sensazioni interne, intrapsichiche.
C’è un’altra frase di questa poesia che secondo me è molto bella e dice: “Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti perfino nell’ambito ristretto d’un batter d’occhio” Questa frase rappresenta in maniera puntuale quanto tutto ciò che ci sta attorno, ma vorrei dire anche tutto ciò che sta dentro di noi muta velocemente in un dinamismo perpetuo che ci pone nella posizione di perdere molti dei movimenti evolutivi e trasformativi, nostri e delle persone a cui siamo legati.
Basta un batter d’occhio e tutto muta. Siamo in grado di cogliere i movimenti trasformativi di chi ci sta attorno? Dei nostri figli? Siamo in grado di mutare l’immagine che abbiamo di loro in maniera sintonica con i loro processi evolutivi? Siamo capaci di interpretare le loro crisi? Senza averne paura? Senza lasciarci sconvolgere dalle loro crisi che spesso non sono altro che l’epifenomeno del cambiamento?
E ancora, quanto è importante la nostra reazione rispetto a questi processi evolutivi dei nostri figli? Non siamo forse noi, con i nostri movimenti a dare loro quei significati che dovrebbero restituire ai figli il senso delle loro crisi, e non siamo noi che, disattenti, non cogliamo i cambiamenti fino al punto di mostrare timore quando vediamo poi cose che non riusciamo a riconoscere ma che sono semplicemente l’esito ultimo di questi processi trasformativi?
La crisi è espressione di disagio oppure segno del cambiamento e di processi evolutivi di svincolo e di autonomia; quei processi che consentono ad ogni persona di individuarsi e di costruire una propria identità intrapsichica e interpersonale. Voglio sottolineare questo aspetto perché in una diffusa letteratura specialistica si utilizza il termine crisi per parlare di fallimenti: si parla di crisi adottive per rappresentare i fallimenti adottivi.
Ma è possibile e giusto rimanere fermi? E’ possibile e giusto immaginare che un bambino adottivo non debba attraversare processi “di crisi” per mettere insieme le molte “anime” che compongono la sua storia? Oppure il bisogno di non vedere i cambiamenti per la paura che essi ci evocano, deve per forza costringerci a rifiutare ed evacuare ogni cambiamento di cui non comprendiamo il senso. Come il colibrì sprechiamo una immane energia per rimanere fermi. Io e altri, e cito tra gli altri Leonardo Luzzatto, stiamo cercando di lavorare sull’idea che utilizzare il termine crisi o utilizzare il termine fallimento adottivo non è soltanto un gioco di parole ma è un cambio di prospettive epocali e significa dare una interpretazione alle cose che apre prospettive, di intervento e di significato, completamente diverse.
Ma torniamo alla poesia: “Ero come un chiodo piantato in superficie nel muro” è la sensazione che io ho percepito e sentito nel mio lavoro terapeutico incontrando degli adolescenti che vivevano una crisi adottiva e che improvvisamente sembravano aver perso la loro funzione all’interno di quel sistema familiare. Un chiodo noi lo piantiamo nel muro perché può servire per appendere un quadro, perché può servire per tenere il muro, perché può tenere una funzione; ma se arrivati ad un certo punto perde la sua funzione, è qualche cosa che non è più attaccato al muro, che è in superficie, che si può staccare, che non ha più la capacità di reggere le cose che avrebbe dovuto tenere; allora a quel punto perde il suo ruolo, il suo significato e diventa solo una intrusione inutile all’interno di un sistema a cui non serve più. Si trasforma in una screzio sul muro, in una piccola crepa che a poco a poco può allargarsi fino a sovvertire la stabilità dell’intero muro. Qualcosa quindi che è fuori dal sistema, giustapposto, che non serve, e che quindi va soltanto allontanato.

Chi parla di fallimenti adottivi, mette in primo piano una condizione che per me rappresenta un grande paradosso. Lo spiego così: io ho dei figli, con questi figli ho incontrato nella mia vita delle crisi, perché non esistono legami che non presuppongono crisi. Avere un legame, significa concedere uno spazio mentale all’altro, immaginando che questo lo possa abitare esprimendo una sua autonomia. Questo spazio deve essere cosi capiente da contenere i processi evolutivi e trasformativi dell’altro e deve essere così dinamico da adattarsi a questi. In sintonia con i cambiamenti della persona a cui siamo legati si strutturano e si definiscono dei continui aggiustamenti del legame che non può, quindi, che essere pensato in divenire, frutto di continui aggiustamenti e trasformazioni. Se questo processo diventa statico ciascuno dei membri del legame segue un suo processo evolutivo e questo disaccoppiamento dei ligandi crea tensione, incomunicabilità, separazione, fino al punto che l’altro diventa estraneo e pericoloso.
Nel rapporto con i figli bisogna sempre dare un senso alla crisi che non è fallimento o separazione ma esprime i continui riassestamenti che sono necessari quando si cammina in coppia: ad un cambiamento dell’uno bisogna sempre accoppiare un movimento dell’altro: come un treno che procedendo sulle rotaie deve continuamente adattarsi alla curvatura dei binari e alle asperità del terreno. Costruire questa sintonia significa fare in modo che la crisi diventi funzionale a mantenere il legame e non a metterlo in discussione. Parlare di crisi significa quindi mettersi in tutta una serie di snodi e di cambiamenti evolutivi durante i quali possiamo incontrare momenti critici. Noi, i nostri figli, il nostro legame di coppia, il nostro legame di genitori. Parlare invece di fallimento significa che le cose che accadono mettono in discussione il legame e possono romperlo. Bisognerebbe incominciare a ragionare sul fatto che l’idea del fallimento adottivo sembra riguardare soltanto il bambino che fallisce nella sua funzione di diventare figlio. Ma in realtà falliscono i genitori nella loro funzione di mantenere questo minore in uno spazio di figlio.
E allora se spostiamo l’idea del fallimento dall’adozione, potremmo ragionare di un fallimento e di una crisi di un intero sistema familiare. Perché il figlio adottivo fallisce nel suo ruolo, quando il legame è in crisi? Perché allo stesso modo non parliamo di “fallimento filiare” quando in un legame con un figlio naturale si manifestano delle dissonanze? Il sistema familiare non è soltanto definito dagli individui che lo compongono ma è un insieme di legami e di parti, reali e fantasmatiche, che noi nella relazione con l’altro mettiamo dentro di noi e strutturiamo ogni giorno. Se fallisce un legame, fallisce l’intero sistema, se il sistema non è in grado di sostenere e contenere i movimenti trasformativi non è in grado di definire alcun processo evolutivo. Se considerare le dissonanze motivi per mettere in discussione il sistema, significa che il sistema non è dotato di quella flessibilità che è capace di aprire i propri orizzonti ai processi evolutivi.
Io sono molto critico su questo aspetto, cioè sull’idea che quando una crisi adottiva si mostra anche con espressioni eclatanti non si riesca a spostare il focus dal bambino all’intero sistema familiare e qualche volta l’indagine o la possibilità di una valutazione o la possibilità di un intervento, finisce per riguardare tragicamente soltanto il bambino e il suo allontanamento.
Perché un bambino che va in crisi dentro una famiglia deve essere allontanato? Nella genitorialità in generale questo non accade o quanto meno solo di rado. Perché questo accade nelle famiglie adottive? Ce lo dovremmo chiedere. Perché immaginiamo che ad un certo punto quel chiodo, è un elemento esterno rispetto al muro? Anzi un elemento che non solo rappresenta qualcosa di posticcio che può staccarsi, ma anche qualche cosa che intrude e che diventa fastidioso all’interno del muro stesso.
L’altro passaggio su cui voglio ragionare è che se la crisi è un momento di snodo e di cambiamento che riguarda le singole persone, e i legami che loro costituiscono all’interno del sistema familiare, la crisi ha una funzione evolutiva importantissima. Un esempio assolutamente banale: quante sono le coppie in crisi che possono ragionare sulla loro crisi e trovare una modalità differente di costruire il loro legame? Non tutte le crisi coniugali finiscono in una rottura del legame. Quanto una crisi può essere un momento di cambiamento evolutivo? Quando ho scelto la poesia di Wislawa volevo sottolineare anche questo aspetto: certe volte noi nella disattenzione della quotidianità non ci rendiamo conto che all’interno della nostra famiglia, i singoli membri della famiglia, ma anche le relazioni che si interconnettono tra di loro, vanno incontro a piccoli momenti di trasformazione e di cambiamento. La poesia ci dice che ci sono tanti cambiamenti che noi non riusciamo a cogliere: un bambino piccolo diventa un bambino che va alla scuola primaria, che comincia ad avere molteplici relazioni, poi diventa un adolescente che ha ancora prospettive diverse. Se pensate alla vostra vita, essa non è fatta di un percorso lineare, ma da una serie di crisi che vi hanno portato dove siete oggi e nessuno di voi ha considerato quella crisi come un fallimento, ovvero come un momento per mettere un punto e dire da questo punto non vado più da nessuna parte.
Quali sono le condizione che aggravano una crisi? La prima, lo abbiamo visto, è quello di mettersi in una posizione di disattenzione e di non cogliere quelli che sono i percorsi di cambiamento che i singoli membri di una famiglia fanno, sia ciascuno di loro, sia nella relazione fra di loro, e non rendersi conto di quelli che possono essere gli effetti di tutto questo. Ritorno all’esempio banale delle relazioni di coppia: a me capita molto spesso di lavorare su persone che sono in fase di separazione; l’aspetto importante è che loro fanno un’opera di interruzione della reciprocità. Io di solito rappresento questo in maniera molto semplice, dicendo: “immaginatevi due treni che camminano paralleli su due binari, poi c’è uno scambio, uno arriva a Palermo l’altro arriva a Como; ma ci rendiamo conto dello scambio?” Ma ci siamo resi conto che è intervenuta l’azione di uno scambio determinando distanza e separazione? Ci siamo resi conto sempre di come le trasformazioni che ciascuno di noi attraversa nella propria quotidianità, portano il legame verso un’evoluzione? E se la relazione e il legame non viene co-costruito, in un processo di consapevolezza e di crisi continua, le persone improvvisamente si riconoscono “sconosciute” e straniere, non riescono più a capire il percorso che avevano fatto prima.
A volte io mi trovo davanti a genitori adottivi e a figli in crisi che raccontano di storie che non si sono mai costruite come se volessero cancellare la storia adottiva come mai avvenuta, eppure ci sono stati i momenti d’amore; ci sono stati momenti di costruzione positiva nella loro storia, tutto sembra assolutamente cancellato come se il bambino adottivo potesse ritornare magicamente al suo passato e ai fantasmi che in esso albergano e cancellare tutto quello che è avvenuto nella famiglia adottiva. In realtà come nell’esempio dello snodo ferroviario le loro storie si sono divise perché non si è riconosciuto il cambiamento dell’altro portando i “ligandi”, cioè le persone che costituiscono il legame, in due posizioni diverse e distanti.
Nel lavoro pubblicato su MinoriGiustizia[1], io ho cercato di esemplificare una serie di situazioni di crisi adottive incontrate nella mia esperienza, che forse avrebbero potuto risolversi in una condizione positiva e invece sono diventati fallimenti. Ve le racconto non perché siano esemplificative di tutte le storie, ma perché possono aiutare a comprendere. La prima situazione è quella di una ragazzina adolescente che improvvisamente comincia ad essere particolarmente violenta; una esperienza spesso presente in molte famiglie.

Nelle domande che un genitore si pone c’è il disagio psichico con questo tratto ricorrente: i nostri figli adolescenti incominciano a non rispettarci, incominciano a non seguire le regole, incominciano a non riconoscere la nostra genitorialità e improvvisamente sembra quasi che ci attacchino, agendo tutta una serie di comportamenti che noi non riusciamo a capire. Qualche genitore mi domanda se il figlio ha un disturbo oppositivo provocatorio; io non andrò sul disturbo oppositivo provocatorio, però tendo molto a sottolineare come uno degli errori che più significativamente si fa nell’analisi delle questioni che riguardano i percorsi adottivi, è quello di incasellare comportamenti e azioni dentro una diagnosi nosografica (ovvero che identifica malattie), dentro una etichetta che spersonalizza i problemi, cancella le peculiarità adottive di quell’adolescente, mette distanze tra il minore e i genitori, rende oggettiva e ineludibile la separazione. Ma tutto questo può essere considerato secondo aspetti completamenti diversi. Il disturbo oppositivo provocatorio è una categoria nosografica specifica che ha una caratteristica specifica e che si definisce e si caratterizza per una condizione in cui un minore che ha vissuto in una famiglia senza alcuna esperienza traumatica incomincia ad avere una disfunzione comportamentale; spesso il disturbo oppositivo provocatorio è legato anche a patologie che riguardano l’organizzazione del sistema nervoso centrale del minore stesso, intendo, quindi, che vi sono alla base situazioni che hanno una marcata causa organica.
Cos’è invece, ad esempio,  la storia che vi racconto dell’adolescente di 12 anni che incomincia improvvisamente a non riconoscere i genitori, incomincia a diventare oppositiva, incomincia a provocare i genitori su una serie di comportamenti e comincia ad attivare tutta una serie di agiti e di fughe che vengono considerati il più delle volte dai genitori come attacchi al loro ruolo e alla loro funzione? Se mi permettete farò io ora una serie di considerazioni provocatorie, farò io in questo caso l’oppositivo provocatorio. Ma voi vi ricordate la vostra adolescenza? Vi ricordate quanto siete stati oppositivi e provocatori anche da figli naturali nella vostra adolescenza. Nessuno di voi ha mai detto ai suoi genitori “non ti riconosco come genitore”, “vorrei un’altra famiglia”, “vorrei andare via”? Io penso di si; ciascuno di noi ha cercato di trovare un sistema per non accettare le regole e per trovare delle espressioni e dei comportamenti che andavano fuori dalle regole che venivano proposte. Nessuno di voi ha cercato di dire delle bugie per ottenere cose che gli andavano e i genitori non volevano sostanzialmente concedergli? Io non sto banalizzando la crisi dell’adolescente adottivo, sto dicendo che però dentro questo elemento noi dobbiamo riconoscere alcune peculiarità.
La prima questione peculiare è: qual’é la resistenza di un genitore adottivo nel sentirsi dire “tu non sei nessuno”? E qual’è la resistenza di un genitore naturale? Perché alcune volte c’è una differenza. Quanto ci si sente s-confermati in questa posizione? La verità è che più siamo saldi nel nostro ruolo meno temiamo che le parole di qualcuno ci possano sconfermare: più siamo insicuri, più anche un refolo di vento può metterci in crisi. Allora bisogna chiedersi quanto sia necessario lavorare affinché un genitore adottivo percepisca con sicurezza il suo ruolo genitoriale.  Altro elemento importantissimo: la crisi adolescenziale di un minore che proviene da un’adozione ha una caratteristica particolare che cercherò di spiegarvi: i bambini che vanno in adozione sono sempre bambini che hanno subito storie traumatiche, questo non lo dobbiamo dimenticare, perché se noi dimentichiamo questo, finiamo per non considerare quello che è l’origine di tutto e facciamo per primi noi una operazione di cancellazione e di scotomizzazione che non ci permette di essere concreti; ritorniamo proprio a quella che la Szymborska diceva “disattenzione”, cioè non vediamo e non diamo significato a delle cose che sono importanti.
Cos’è il nucleo principale di una situazione di trauma o di abbandono? Il nucleo è la possibilità di aver sperimentato un tratto depressivo senza riuscire a mentalizzarlo; mi spiego meglio: sarà capitato a ciascuno di voi di avere o di sentire una sensazione di tristezza senza riuscire a capire da dove derivi, c’è una parola siciliana che deriva da un termine arabo che esprime molto bene questa sensazione, la parola è cutugno, qualcosa che sta nello stomaco che dà una sofferenza che non riusciamo a digerire e che non riusciamo ad elaborare. Immaginatevi che un ragazzino che ha subito esperienze sfavorevoli, è sempre un minore che ha subito un trauma di abbandono, l’aver esperito esperienze sfavorevoli coagula elementi di consistenza depressiva, vissuti che per altro essendosi sperimentati in una fase preverbale in cui non è possibile per l’età o per l’assenza di figure di riferimento che questo contenuto depressivo sia elaborabile in pensiero, percepibile, rappresentabile, trasformabile come un processo che possa essere integrato in una costruzione narrativa. L’abbandono ha creato, quindi un nucleo depressivo che non riesce a diventare pensiero. Come elaboriamo gli elementi negativi? Se perdiamo una persona cara c’è una prima fase di sofferenza e di dolore poi cominciamo a ricordare, a costruire una serie di pensieri che ci ricordano quella persona che non c’è più; sublimiamo il dolore dell’assenza nel ricordo e in un pensiero che ci riconnette con la persona amata che abbiamo perso. E’ proprio questa trasformazione dell’elemento luttuoso di tristezza in pensiero, che ci preserva dalla sofferenza e ci permette di volta in volta di costruire una possibilità in più rispetto all’andare oltre, rispetto all’ esperienza luttuosa provata. Ma se questa cosa capita in una fase della vita in cui si è molto piccoli e non si è capaci di fare quest’operazione, questo nucleo di tristezza, di abbandono, di negatività, rimane come una specie di nucleo irrisolto. E che cosa succede quando noi non riusciamo a mettere pensiero alla nostra tristezza? Ci arrabbiamo!

Quanto è difficile riuscire ad arrabbiarci nel momento giusto con la persona giusta, nelle condizioni giuste! Cosa è allora l’attacco che l’adolescente adottivo fa ai suoi genitori? L’attacco alla famiglia è l’attacco alla famiglia che ti ha abbandonato, l’attacco al genitore adottivo è il rifiuto rispetto al genitore che non ti ha voluto, l’attacco alla famiglia è la possibilità di sentirsi dire da questa stessa famiglia “io ti voglio”, “io ti accetto per come sei”, “sono accanto a te”, “sono capace di comprendere quello che stai attraversando”, “sono capace di dare pensiero a questo tuo dolore e farlo significare qualcosa che può diventare per me e per te più accettabile”. Ora io lo so che questa cosa è una cosa difficilissima, è, ritornando alla mia battuta iniziale, una cosa che presuppone l’assenza della disattenzione. Presuppone anche la possibilità di significare, di volta in volta, tutti questi segnali, che a poco a poco cominciamo a cogliere nel nostro figlio nel momento in cui incomincia ad esprimere questa sua sofferenza. L’importante a questo punto è fare in modo che questa sofferenza possa diventare un elemento di comunicazione, di condivisione, di elaborazione reciproca. Ritornando alla mia stupida metafora dei due treni che arrivano in due posti diversi, significa poter evitare che lo scambio porti in due binari differenti e in due luoghi diversi, in differenti stazioni ferroviari. E’ chiaro che quando questo accade, anche quando il ripristino dei tentativi di comunicazione/condivisione arriva tardi, dopo molto tempo, la lontananza dei luoghi e delle posizioni in cui siamo arrivati, la lontananza della rappresentazione di sé e dello spazio mentale nell’altro, porta l’uno contro l’altro ed è facile in una condizione come questa, non considerare gli aspetti della crisi e invece far passare l’idea che l’unica soluzione è quella di considerare una rottura del legame, un fallimento.

Un’altra situazione che io ho esemplificato sempre nello stesso articolo di MinoriGiustizia, racconta di una storia che è molto particolare. È una storia che mi è capitata qualche anno fa quando lavoravo in un servizio in provincia di Trapani: parliamo di un ragazzino che era stato adottato all’età di cinque anni e che improvvisamente ha incominciato a raccontare che aveva visto i suoi genitori naturali a scuola. Lui raccontava che la madre naturale lo aspettava in macchina fuori la scuola: “mi guardava e mi guardava come se io l’avessi abbandonata, mi guardava come se mi chiedesse di andare con lei, mi guardava e io sentivo che lei soffriva perché desiderava vedermi e avermi e io invece ero qui”. Dopo qualche giorno e dopo che questa storia era diventata un significativo allarme per la famiglia adottiva, questo ragazzino sparì per due giorni. Ora immaginatevi l’angoscia di un ragazzino adottato a cinque anni - credo che quando questo evento è accaduto avesse tredici o quattordici anni - che sparisce per due giorni; fu allertata la polizia, si cercò di capire dove fosse, si cercò di capire perché il cellulare spento e così via. Dopo due giorni questo ragazzino, che nell’articolo chiamo Davide, fu ritrovato in mezzo alla strada in uno stato di semi incoscienza. Teniamo conto che il territorio a cui mi riferisco è un territorio dove ci sono molti chilometri di spiaggia che in inverno sono sostanzialmente semi deserti.
Davide fu ritrovato in una situazione di totale confusione e di agitazione psicomotoria grave. La cosa molto particolare è che quando fu portato al Pronto Soccorso, parliamo di un paesino molto piccolo, quindi alcuni lo riconobbero e lo riconobbero con il suo nome e cognome, lui, che era in questo stato di semi confusione ed era stato sedato, quando si svegliò e l’infermiere lo chiamò con il suo nome e cognome adottivo sconvolse tutti dicendo che lui non si chiamava così, che non aveva mai sentito dire questo nome e questo cognome, ma che si chiamava diversamente e disse il nome e il cognome della sua famiglia di origine.
Ora, perché io racconto sempre questa storia? Perché rappresenta in maniera evidente una delle difficoltà più grosse che un ragazzino ha con la sua una storia adottiva, che è quella di mettere in fila tutti i pezzi della sua vita e dargli una collocazione che possa consentire la definizione di una identità coerente. Mi spiego meglio. Quando noi parliamo di identità, se io chiedo a ciascuno di voi di definirsi, voi in maniera assolutamente automatica e più o meno consapevole finirete inevitabilmente per ripassare nei vostri pensieri la vostra storia: vi ricorderete di quando siete nati, vi ricorderete della relazione con i vostri genitori, della scuola che avete frequentato, dei primi amori, delle relazioni che avete costruito, delle esperienze che avete vissuto, e ve lo ricorderete in una progressione che cercherete di rendere quanto più lineare possibile. É come se noi richiamassimo dal nostro mondo interno le nostre sequenze esperienziali e i vissuti ad esse connesse; vissuti, che, però, hanno anche una dimensione inconscia che è quanto maggiore quanto è stata minore la possibilità di processare e di elaborare tali esperienze in una dimensione di pensiero. Ora non voglio entrare su cose molto tecniche, ma c’è uno psicanalista argentino che si chiama Matte Blanco, che diceva che il nostro inconscio non ha né spazio né tempo, nel senso che tutte le cose che noi mettiamo dentro non sono messe dentro in una logica cronologica, come se vedessimo più puntate di un film, ma sono messe in una maniera confusa per cui l’abbraccio che abbiamo ricevuto quando eravamo piccoli e l’abbraccio che stiamo ricevendo dalla nostra compagna oggi, stanno dentro uno spazio e un tempo che può essere anche molto vicino.
Voi comprendete, però, che quando le storie, le storie di ciascuno di noi, si sono costruite su elementi che evidenziano rotture, fratture, abbandoni elementi come dire di chiusura, di frammentazione, di dissociazione, o elementi anche molto negativi, è veramente molto difficile per noi mettere tutto dentro una linearità e dentro una sequenza narrativa sufficientemente lineare. Ognuno di noi ha il desiderio inconscio e spesso quasi sempre realizzato, di dimenticare delle cose che vorrebbe dimenticare.
Ma si può veramente dimenticare qualcosa che noi vogliamo dimenticare oppure inevitabilmente il fatto che cerchiamo di dimenticarla ci riporta invece al contrario, ci riporta a ricordarla, a fissarla, a renderla ancora più significativa? Questa condizione di frammentazione e confusione è tipica di molti bambini che hanno vissuto storie che non riescono a mettere in una linearità narrativa, cioè in una storia che abbia un senso. Orbene i pezzi della storia che risultano scissi e frammentati possono costruire pezzi narrativi secondari scollegati tra loro che si connettono ad altri abbozzi di altre identità narrative come se si costituissero tante identità e tante personalità a se stanti, come se ci fossero dentro di noi tanti individui che ragionano in maniera scissa secondo il filone della storia identitaria che rappresentano. Immaginatevi come se noi prendessimo una serie televisiva e la mischiassimo con scene di altre serie, ogni volta i personaggi e i pezzi che aggiungiamo o togliamo sembrerebbero non avere senso e alla fine la storia stessa non avrebbe senso, ponendosi come incapace di fornire chiari punti di riferimento. Questo aspetto è un aspetto di grande criticità nella stabilità, nella costruzione narrativa e nella definizione dell’identità di un figlio adottivo.
Quando ci sono pezzi della nostra storia che non riusciamo ad integrare, si creano cortocircuiti. I “pezzi critici” per un bambino adottivo sono diversi, possono essere le origini, l’abbandono, la paura di cose che gli stessi non riescono ad attribuire ai loro genitori naturali ma a se stessi: loro ci hanno abbandonati … noi li abbiamo abbandonati; loro ci stanno cercando … noi non vogliamo essere trovati … noi vogliamo cercarli: “mi guardava e sperava che andassi da lei ma io volevo restare qui”.
Possiamo vedere come la psiche di questo ragazzino improvvisamente è stata tirata da elementi così difficili e così in tensione e in rottura fra di loro, che è come se si fosse improvvisamente rotto, é come se arrivato ad un certo punto la parte di sé bambino e della sua storia naturale fosse uscita fuori in maniera assolutamente, come dire, dirompente tumultuosamente, non riconoscendo più la parte attuale. Lui arriva in ospedale, dice di non sapere, di non conoscere il nome dei genitori adottivi e di chiamarsi esattamente come si chiamava prima di andare in adozione. Anche qui allora si ritorna alla parola disattenzione: quante volte dentro le storie e le crisi adottive ci sono disattenzioni di richieste di origini, di richieste di confronto, rispetto a tracce che il bambino adottivo lancia nel tentativo di capire e di cogliere risposte, di far si che i genitori adottivi possano dare significati, possano costruire continuità, possano costruire linearità dentro una storia personale che è fatta invece di confusione, di disorganizzazione e in cui diventa veramente impossibile dare significato a tutte le emozioni che di volta in volta si accendono all’interno di queste prospettive sconnesse. Siamo veramente capaci, come genitori, di dare sempre questa continuità? Di accoglierla, di contenerla, di sostenerla, di favorirla con la costruzione di percorsi di mentalizzazione che consentirebbe a questi bambini di avere consapevolezza dei loro stati psichici consci e inconsci.

Se la storia e le domande ci mettono in crisi favoriamo la loro crisi. Se invece possiamo pensare che il figlio con le sue provocazioni e le sue domande, ci sta chiedendo di mettere in discussione delle cose che noi diamo per scontate, possiamo immaginare che il bambino sta parlando della sua storia naturale perché in qualche modo è in crisi la sua illusione che il contatto con i suoi genitori adottivi avrebbe risolto ogni sua sofferenza; o ancora che i genitori adottivi hanno perso l’illusione che il figlio si senta di appartenere esclusivamente a loro, del fatto che lui è ancora legato ai suoi genitori naturali e che non si sente pienamente figlio e che lascia emergere in maniera dirompente come agito la sua storia pregressa.
Guardate io ho iniziato a occuparmi di adozione ormai un po' di anni fa e guardando le attività dell’associazione, ragionavo che mi fa molto piacere che voi abbiate organizzato un incontro sull’adozione aperta, perché l’adozione aperta è poco definita sul piano giuridico e ognuno cerca sostanzialmente di realizzarla come può. Quando io ho iniziato ad occuparmi di adozione, però, i concetti che riguardavano l’adozione andavano molto in una logica che io definisco ancora “potestativa”. Cioè il figlio veniva tolto ad una famiglia e diventava figlio quasi come fosse il trapianto di un organo, c’erano dei libri allora che parlavano di trapianto: il bambino veniva tolto da un organismo inefficace e passava ad un altro organismo, ad un altro sistema familiare dove avrebbe potuto ricominciare a vivere. Adesso la possibilità di trovare le origini è un elemento importante che viene riconosciuto non solo sul piano giuridico, ma sul piano concreto, però la maggior parte dei bambini adottivi ricercano le loro origini con una modalità fai da te, tramite social. Cercano in qualche modo di capire da dove vengono, cercano di fare percorsi in cui trovare risposte, e questo è un processo difficile, ma è un processo che i figli dovrebbero perseguire accompagnati dai genitori adottivi; che dovrebbero fare non di nascosto rispetto ai genitori adottivi; che i genitori adottivi dovrebbero vedere senza disattenzione, che dovrebbero condividere, a cui dovrebbero partecipare.
A me è capitato frequentemente di trovare situazioni in cui i ragazzi hanno ritrovato i loro genitori e tutta la loro famiglia e il fatto interessante è che l’esito in questi casi non è per niente scontato; mi sono capitate situazioni in cui la forza attrattiva della famiglia naturale e anche una serie di scorrettezze, diciamo, sul piano dei servizi, del lavoro, hanno allontanato il figlio adottivo. Ma non sono queste le storie più frequenti, più spesso, quasi sempre, conoscere le origini ha consentito al bambino di attivare un percorso di valorizzazione dei genitori adottivi, di comprensione di quello che il genitore adottivo aveva rappresentato nella loro storia. Non semplicemente perché in questi casi si attivano delle differenze - non è soltanto una logica di differenza – (cioè non è soltanto una logica di bieca differenza fra quello che la famiglia naturale non avrebbe potuto dare e la famiglia adottiva ha dato) è una questione di qualità di relazione, di affettività, di funzionalità in termini di genitorialità e di significato. Il bambino si rende conto che ha goduto di un universo di relazioni e di affetti differenti. È come se arrivato ad un certo punto il bambino, confrontandosi con le origini, scoprisse quanto poteva essere disorganizzata e confusa la sua vita e come adesso si è riorganizzato. Conosco una ragazza che ora ha 20 anni, che l’altro giorno mi diceva “io ho deciso di bloccare mia madre (naturale) perché quando lei mi scrive, le cose che mi dice per me sono confusive; io non riesco più a capire se le cose che lei mi dice sono una situazione affettiva o se lei cerca di utilizzare questo contatto con me per tranquillizzarsi, per liberarsi dalle colpe, per cercare in qualche modo di mettere pace ad una situazione di sua vita che forse non ha funzionato”.

Quindi un elemento importante che spesso porta alla crisi, è come all’interno della famiglia è possibile trattare il tema delle origini, e come è possibile dare significato e condividere con i figli adottivi il loro percorso di ricerca. Faccio anche qui un piccolo accenno a un’altra storia, scusatemi se salto nella mia funzione da psicoterapeuta a quella un po’ più medica. Per il ragazzino scappato che perde il senso del tempo e della sua identità identificandosi nel nome e cognome di origine, si sarebbe potuto fare diagnosi di esordio schizofrenico e trattarlo come un ragazzino psicotico, se tutta la sua storia non fosse entrata dentro una logica di significato completamente diverso. Lui non è un ragazzino psicotico, ma un ragazzino che ha avuto una rottura psichica temporanea rispetto ad una tensione del suo continuum psichico, e che poi ha saputo ricostituire questo aspetto nella logica della linearità all’interno della famiglia. Adesso questo ragazzino ha 22 anni, si sta laureando in filosofia e vive con la sua famiglia adottiva. In realtà non ha mai avuto alcun contatto con la famiglia di origine se non questo modo immaginato che ha rappresentato in questa fase critica della sua storia.
Riprendo questo ponte tra espressioni psichiche limite e psicopatologia. Quello che succede è che un bambino adottivo esprime spesso una serie di decalage e di disfunzioni sul piano della prestazione. Io sono molto critico su questo aspetto: la definizione clinica psicopatologica, la diagnosi a cui si fa riferimento può rappresentare uno spazio di grande mistificazione delle problematiche che riguardano i bambini adottivi. Ora vi spiego cosa voglio dire e vi spiego perché sono così duro in quest’affermazione che faccio. Se io, che ahimè per la vita professionale sto seduto in poltrona 10 ore al giorno e non riesco ad andare in palestra, dovessi correre i cento metri, farei un tempo terribile; ma questo non vuol dire che ho una malattia, significa semplicemente che non sono allenato! Se io ho vissuto i primi due anni della mia vita in un contesto in cui non ho avuto stimoli adeguati, in cui non ho costruito i prerequisiti dell’apprendimento in cui non ho costruito tutto quel mondo di intersoggettività che ha una funzione importantissima nella costruzione della nostra identità e delle nostre competenze, immaginatevi se mi si può chiedere di essere uno scolaro perfetto, di imparare a leggere e a scrivere, di diventare bravissimo. Allora: o si riconoscono le disfunzioni di funzionamento e di prestazione dentro la storia di quel bambino, oppure si cominciano a immaginare diagnosi. Allora: è un bambino che se gli faccio un test cognitivo avrà un deficit cognitivo. Ma che significa? Il deficit cognitivo risente anche in qualche modo dell’esperienza di vita che noi abbiamo fatto; se alcune cose non le ho apprese non posso esprimerle nel test. Allora: è un bambino che ha un disturbo specifico di apprendimento, ma il disturbo specifico di apprendimento è specifico perché non è collegato ad elementi che possono averlo generato. Allora: è chiaro che se io non ho fatto la scuola materna, o sono stato in un istituto o in una casa famiglia per i primi tre anni, e poi non so leggere e non so scrivere, non ho una dislessia, semplicemente sconto un gap di funzione, un gap di stimolazione che mi ha portato a partire nella corsa della vita, cinquanta metri più indietro rispetto a tutti quelli che stanno avanti. O ancora peggio dobbiamo davvero considerare in alcune situazioni questi quadri come francamente patologici dicendo “deficit cognitivo”, ”disturbo del comportamento”, o dobbiamo inquadrarli nella storia di quel bambino?
A me è capitato abbastanza frequentemente, che arrivati ad un certo punto la coppia adottiva non riuscisse più a riconoscere nel bambino l’immagine ideale che qualche volta i genitori adottivi hanno, e passano da una logica di illusione ad una logica di dis-illusione: “Quel figlio è il figlio che io avrei voluto. Ma quale figlio avrei voluto?” Tutti noi vogliamo figli sani, belli, che funzionano bene, che si laureano ad Harvard. Ma neanche tutti i nostri figli sono così; chiaramente nessuno di noi alla prima bocciatura dice “Eh ma forse non è quello che avrei voluto”. Comprendete che questo significa che l’insicurezza del legame che noi costruiamo, diventa subito non un aspetto propositivo per rafforzare il legame, ma diventa un aspetto invece per reciderlo, per dire non mi interessa più il legame con questa persona, non è più mio figlio, è un chiodo che sta nel muro e che adesso mi rendo conto di quanto sia superficialmente attaccato al muro, di quanto si può staccare, di quanto sia intrusivo rispetto al muro.

Un'ultima prospettiva a cui vorrei fare accenno è una situazione molto dolorosa: parlo purtroppo di esperienze abbandoniche o esperienze sfavorevoli infantili (che riguardano bambini che poi vanno in adozione), che qualche volta hanno modificato il loro sistema di attribuzione dei significati, cioè hanno modificato il loro modo di leggere le cose. È come se leggessero le cose secondo una prospettiva diversa, secondo una logica diversa, è come se vedessero il bianco verde, il verde giallo, il blu rosso, è come se sentissero amaro lo zucchero e così via.
In una situazione di questo tipo è possibile che i figli raccontino di aver subito esperienze sfavorevoli o di avere subito esperienze di abuso o esperienze di maltrattamento, all’interno delle famiglie adottive. Non voglio essere ipocrita su questo: nella mia storia professionale mi sono anche capitate famiglie adottive che avevano messo in opera comportamenti abusanti, anche sessualmente abusanti nei confronti dei figli. Quindi la prospettiva è molto varia, ma bisogna sempre capire che cosa sta raccontando il bambino: sta raccontando delle proprie esperienze, sta raccontando di quello che non è riuscito a rappresentare con chiarezza nella sua storia e lo sta proiettando verso la famiglia, o sta raccontando una verità?
L’altro giorno un ragazzino molto intelligente che seguo, mi ha detto: “io non riesco a vivere più così, e non riesco a vivere perché mi rendo conto che la mia vita è un’oscillazione fra due passaggi. Certe volte io immagino di non valere niente e in questi momenti anche se gli altri mi fanno del male è come se mi dessero un valore, e quindi io inconsciamente cerco che gli altri mi possano fare del male, perché è come se io improvvisamente riuscissi a sentire delle cose che normalmente non sono più abituato a sentire. E’ come se io passassi da una sponda a quella opposta, come se fossi una volta dalla parte di un pendolo e un’altra dalla parte opposta; questi sono i momenti in cui l’unica possibilità di esserci è data dalla possibilità di sentirmi onnipotente; è come se io potessi dire agli altri: potete farmi tutto quello che volete io comunque rimarrò vivo, rimarrò in piedi e saprò sostanzialmente difendermi dalle cose che voi mi farete e questo mi permette di avere verso gli altri atteggiamenti di sfida; mi permette di avere con gli altri comportamenti indifferenti, di non ascoltare i rimproveri, di non ascoltare niente, ma di pensare che io posso sfidare il professore, sfidare mio padre, rubare, provare la sostanza che mi propongono, tanto io posso essere immortale”
Questo ragazzo, in maniera abbastanza concreta, sostanzialmente mi diceva: sono stanco della possibilità di immaginare che l’unico modo di esistere è desiderare che qualcuno mi faccia del male fino a morire, o al contrario immaginare che io posso attraversare le fiamme senza bruciarmi. Perché racconto questo caso? Perché è emblematico di come certe volte nel gioco della costruzione della relazione, la disfunzione del figlio, la disfunzione che il figlio ha incontrato nella sua storia, porta elementi disfunzionali all’interno del sistema familiare, che se non vengono attenzionati, se non vengono significati, se non vengono lavorati, metabolizzati, digeriti, possono in qualche modo dare vita ad elementi il cui senso e il cui effetto può essere assolutamente dirompente e portare quindi ancora una volta, a quello che noi abbiamo considerato come fallimento, cioè la rottura di un legame.

Ora l’obiettivo principale che noi abbiamo nel far crescere i nostri figli, e dico noi perché non credo che questo aspetto sia differente fra genitori adottivi e genitori non adottivi, è far si che i nostri figli costruiscano una loro identità che li porti in una prospettiva - scusate il termine molto tecnico - in cui possano fare il passaggio, come noi lo definiamo, tra una libido narcisistica che proietta il piacere, il desiderio, solo su se stesso (quindi in una dimensione narcisistica) a una dimensione oggettuale, cioè nel desiderio che abbiamo di costruire un legame con l’altro, riconoscendolo come una persona che abbia un valore e un significato.
Lo so che questa cosa è molto tecnica, ma è come se io decidessi di investire solo su me stesso, che è un tratto significativo dell’adolescenza, e poi passassi al desiderare la possibilità di investire sugli altri; questo passaggio, che è un passaggio di crescita e di responsabilità, è un passaggio che noi abbiamo fatto con l’aiuto dei nostri genitori, se siamo riusciti a farlo, e che i nostri figli devono fare con il nostro aiuto, se riusciranno a farlo. Allora: fare questo passaggio porta alla possibilità di considerare l’idea che i legami dentro la famiglia possono diventare legami in cui ognuno investe sull’altro, piuttosto che legami in cui uno difende e cerca di trovare espressioni e difese soltanto per se stessi.
Guardate che è una prospettiva importantissima questa, perché oggi la dimensione verso una direzione narcisistica e autocentrata non ha soltanto una significatività sul piano individuale, ma anche sul piano collettivo e sociale; ciascuno di voi potrebbe stasera vedersi un film, andare a cena fuori, leggersi un libro: così avete deciso di investire nella relazione e nella costruzione con l’altro e lo avete fatto perché siete passati in un momento della vostra vita da una prospettiva di libido narcisistica ad una prospettiva di libido oggettuale; è questo che vi fa cercare relazioni, che vi fa cercare genitorialità.
Aiutare i nostri figli a fare questo passaggio è un lavoro difficile e che richiede molta attenzione. Ma è anche l’obiettivo per la nostra vita la possibilità di assumerci una responsabilità individuale e collettiva che finisca per travalicare la nostra stessa esistenza. Permettetemi di chiudere questo incontro in cui in maniera molto confusa ho rievocato i tratti salienti del piacere della genitorialità riportando un verso delle Coefore di Eschilo che recita così:
Perché i figli salvano e tengono vivo il nome dei morti, come i sugheri, reggendo la rete preservano il filo di lino dal fondo del mare.
 

 
[1] Francesco Vitrano, in "MINORIGIUSTIZIA" 2/2020, pp. 95-104, DOI:10.3280/MG2020-002008
 

 
La nostra associazione organizza attività dedicate alla famiglia adottiva e a chi intende avvicinarsi al mondo dell'adozione. Organizziamo conferenze e incontri dedicati ai temi a noi cari e molte attività dedicate ai soci.
Se lo desideri puoi diventare socio iscrivendoti presso le nostre sedi territoriali: cerca qui la nostra sede più vicina a te.
Puoi vedere tutti i nostri  eventi in programma (anche eventi online) seguendo questo link.
Data di pubblicazione: 
Martedì, Maggio 31, 2022

Condividi questo articolo