Mi occupo di diritto di famiglia e dei minori da ormai più di quindici anni, ma la domanda più comune, e certamente quella che mi viene rivolta con tono maggiormente accorato, resta sempre: “Avvocato, ma non è che poi i Servizi Sociali mi portano via mio figlio?”. I casi di cronaca che a vario titolo coinvolgono i minori allontanati dalle famiglie, spesso raccontati con leggerezza quando non addirittura strumentalizzati con evidenti finalità politiche, esasperano purtroppo questa pervicace preoccupazione. Senza pretesa di esaustività, mi permetto allora di attingere dalla mia esperienza di “addetta ai lavori” non con l'arroganza di chi pensa di poter dare risposte o soluzioni, ma nella speranza di fare almeno un po' di chiarezza.
Occorre premettere come la promozione del diritto del minore a crescere ed essere educato prioritariamente nella propria famiglia, costituisca uno dei capisaldi del nostro ordinamento tant'è che lo prevede a chiare lettere – e la circostanza può forse apparire paradossale - anche l'art. 1 della legge 184/83 dedicata all'adozione. Vi sono, tuttavia, situazioni di particolare fragilità – minori maltrattati, vittime di abusi, figli di genitori tossicodipendenti o con gravi patologie psichiche, solo per citare alcuni esempi - che possono rendere indispensabile, proprio per garantire al minore una crescita serena, l’attivazione di percorsi di protezione offerti da una famiglia diversa o da una comunità di tipo familiare.
L'obiettivo in questi casi, non sempre concretamente realizzabile, ma ben presente negli intenti, resta il reingresso in famiglia (nulla a che vedere, dunque, con l'adozione che, pur con le possibili sfumature legate ad esempio al fenomeno delle adozioni aperte, ha come suo presupposto l'impossibilità di un pieno ed effettivo recupero della famiglia di origine).
A decidere dell'allontanamento di un minore dalla sua famiglia e, quindi, del suo collocamento in ambito eterofamiliare non sono, però, i Servizi Sociali bensì il Tribunale per i Minorenni o anche il Tribunale ordinario ad esempio nel contesto di una separazione giudiziale dove l'esasperata conflittualità tra i genitori abbia portato a “dimenticare” o addirittura a strumentalizzare la sofferenza dei più piccoli. Sebbene il collocamento eterofamiliare, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale coerente del resto con il citato dato normativo, resti comunque “l'ultima spiaggia”, la sua necessità non sempre discende da situazioni macroscopiche di violenza o devianza, come si potrebbe credere, ma può essere, appunto, anche l'esito di un conflitto genitoriale esasperato anche là dove i genitori, separatamente considerati, non siano privi di risorse affettive o competenze sul piano educativo.
Ad essere centrale è (o almeno dovrebbe essere) sempre e solo l'interesse del minore che però va accertato in concreto, caso per caso, rinunciando alla tentazione di dedurlo da principi o teorie astratte. Bisogna capire, insomma, come sta quel minore dentro a quella specifica famiglia, quali sono le risorse in gioco, i limiti invalicabili e quelli che, all'opposto, con interventi mirati, possono benissimo essere rimossi. Le occasioni di contatto tra il giudice – cioè chi è chiamato a decidere, se pure di regola in veste collegiale - ed i protagonisti della vicenda (genitori e figli), sono, tuttavia, limitate (una o due udienze, come ordine di grandezza).
Per formulare in un giudizio le proprie richieste, ma anche per raccontare la propria versione dei fatti, nonché dare voce alle proprie preoccupazioni, ci sono ovviamente gli avvocati, ma, per definizione, l'avvocato rappresenta una visione, un modo di sentire, di porsi, “di parte” e, quindi, per il giudice, non obiettivo e potenzialmente forviante.
Se pure, soprattutto nella cause che coinvolgono i minori, sia opportuno se non necessario che il legale mantenga uno sguardo bifocale, non sposando acriticamente la prospettiva dell'assistito, il suo ruolo non è – nè deve essere – neutrale o valutativo. In questo scenario si inseriscono, o meglio possono eventualmente inserirsi, i Servizi Sociali che operano come una sorta di longa manus del giudice.
Si tratta ovviamente di una semplificazione e forse anche un po' di una forzatura, ma l'efficacia dell'immagine, penso, compensi l'imprecisione. Attraverso le relazioni dei Servizi (sia quanto il minore, pur collocato presso i genitori, sia affidato all'Ente territorialmente competente sia quando l'incarico sia di mero monitoraggio), il Tribunale entra nella vita quotidiana del nucleo familiare, ne indaga le fatiche, le fragilità, ne scopre, si auspica, anche i punti di forza così da poter decidere se davvero, in quel caso concreto, l'allontanamento del minore, per quanto doloroso e disposto in via temporanea, sia necessario o non si possa, invece, ricorrere a strumenti meno radicali ed invasivi, ad esempio l'individuazione di una c.d. famiglia di appoggio, l'attivazione di un supporto psicologico per genitori e/o figli, di un percorso di accompagnamento alla genitorialità o ancora del sostegno educativo domiciliare.
I Servizi, nelle molteplici occasioni di confronto, ma a volte anche di vero e proprio scontro, che ho avuto, per lavoro, con loro, mi hanno spesso ribadito come non siano loro a prendere le decisioni. Se questo è senz'altro vero, e quindi, tecnicamente, i Servizi non possono affatto “portare via i bambini alle famiglie” come l'immaginario comune tende a credere, al contempo il loro ruolo è importante, le loro relazioni pesano, e non poco, sulla decisione del Tribunale, e, per le ragioni che qui ho cercato di sintetizzare, è inevitabile che sia così. Anche questo, per onestà e trasparenza, credo, vada detto. Altrimenti si rischia di cadere nell'equivoco opposto, altrettanto pericoloso, ossia, nel tentativo di respingere il forviante ritratto che ne propongono sovente i media, minimizzarne il ruolo e, di riflesso, le responsabilità.
Una buona relazione dei Servizi, là dove per buona intendo attenta, equilibrata e non superficiale, anche se non per forza in linea con le richieste della parte che eventualmente rappresento, può rafforzare o sconfessare gli argomenti svolti dai legali negli atti di causa, confermare o all'opposto indurre il Giudice a riconsiderare, anche solo parzialmente, le conclusioni di una consulenza tecnica d'ufficio (altro tema delicato che meriterebbe un approfondimento a parte). La “voce” dei Servizi, insomma, in sé può non essere determinante né si sostituisce a quella del Giudice a cui spetta giustamente l'ultima parola, ma sarebbe forviante affermare che sia ininfluente nella sua decisione.
Gli operatori dei Servizi, così come chiunque altro (giudici, avvocati, genitori), possono, ovviamente, commettere dei reati, ed è indubbio che, là dove siano coinvolti dei minori, si tratterà di crimini particolarmente odiosi e che, una volta accertati, i responsabili andranno severamente puniti. Tuttavia, quando vi sia un'inchiesta in corso (come in questi giorni quella dell'Emilia Romagna ormai sulla bocca di tutti) occorrerebbe lasciare che gli inquirenti svolgano il loro lavoro anziché cogliere l'occasione per demonizzare tutto un sistema che, pur con i suoi molti limiti, resta una tutela ed un argine per i minori che vivono situazioni di disagio o violenza familiare.
Nella maggior parte dei casi i minori (tutto sommato per fortuna. mi viene da dire) non sono, infatti, vittime di violenze o abusi da parte degli operatori dei Servizi, ma di un sistema lento ed inefficiente, che soffre una costante carenza di organico, di risorse, perfino di spazi, un sistema che interviene troppo tardi ed inadeguatamente a tutela di bambini che l'inferno, spesso, lo vivono in famiglia.
Ho in mente il caso di un intervento educativo domiciliare disposto con urgenza dal Tribunale, ma che è stato rinviato di mesi (mesi!) in quanto la figura professionale con le caratteristiche richieste non si trovava. Credo che chiunque faccia il mio lavoro potrebbe portarne decine di esempi come questo. C'è poi anche un altro rischio da non sottovalutare ossia che la sfiducia nel sistema, in parte motivata, ma comunque sapientemente inoculata dai media, possa indurre a nascondere abusi sessuali su minori, violenze domestiche, problemi di disagio psichico o di dipendenza di un genitore nel timore che la segnalazione porti quasi certamente all'allontanamento del minore e comunque ad interventi di tipo punitivo anziché di sostegno per il nucleo familiare, con inevitabile incancrenirsi del disagio se non esiti tragici (penso a molte madri, vittime di violenza, che non denunciano il proprio compagno per la paura di essere giudicate inidonee e di perdere quindi i figli).