Autore: 
Francesco Vitrano

I diversi materiali di cui sono composti

i mondi sono fabbricati insieme ai mondi. 

Ma fabbricati a partire da cosa?

Non dal nulla dopotutto, ma da altri mondi. 

Il fabbricare mondi come noi lo conosciamo 

è sempre partire da mondi 

già a disposizione.  

Il fare è un rifare. 

Goodman [1]

 

Il bambino costruisce il proprio sé psichico  attraverso  un processo in divenire  che lo porta dapprima ad avere consapevolezza del suo sé corporeo e poi  gradatamente a sviluppare una conoscenza del proprio mondo interno, intrapsichico,  ed esterno, interpersonale. 

Lo sviluppo della  competenza linguistica svolge  un ruolo importante in questo processo nella misura in cui il linguaggio opera come un organizzatore del pensiero attivando i processi di riflessione interna e di autoanalisi. 

In analogia con quanto previsto da Heisenberg per gli elettroni,  ogni nuovo individuo sembra esistere solo quando interagisce con qualcosa/qualcuno d’altro e l’interazione stessa definisce e individua ogni aspetto della sua espressività psichica. 

La relazione con l’altro, quindi,  rappresenta l’elemento attraverso cui apprendiamo e definiamo noi stessi.  

Questo processo ha un inequivocabile vantaggio evolutivo perché consente ad ogni nuovo individuo di apprendere un bagaglio di informazioni,  di competenze e di esperienze che sono state patrimonio delle  generazioni precedenti. Nessuno parte da zero ogni fare è un rifare. 

In ogni processo di sviluppo, è , quindi, necessaria la presenza fisica e psichica  dell’altro per la definizione della propria indentità/individualità,   da ciò ne deriva  l’idea che l’altro, il caregiver nello specifico,  possa con le caratteristiche della sua relazione determinare il modo di essere e di definirsi di un sistema psichico in divenire quale è di fatto un bambino nei primi anni del suo sviluppo. 

Ma come avviene questo processo che ci consente di collegarci, quasi automaticamente all’altro e di apprendere le informazioni utili al nostro sviluppo individuale? 

La nostra comprensione rispetto ai comportamenti altrui  per la maggior parte del tempo è immediata, automatica,  quasi, come un riflesso.[2] 

Scrive  Daniel Stern:   

I nostri Sistemi nervosi centrali sono costruiti per essere catturati dai Sistemi nervosi centrali altrui così  che possiamo esperire gli altri come se dall’interno della loro pelle.[3]

La nostra naturale e strutturale tendenza ad entrare in connessione con l’altro quindi, ci consente di raccogliere, al di là della semplice captazione del dato percettivo, il mondo emotivo dell’altro. 

Tale sintonizzazione provoca delle assonanze interne che ci permettono di percepire e sentire i vissuti dell’altro come se noi stessi li stessimo vivendo. 

D. Stern, quindi,  non solo ipotizza la possibilità di una condivisione diretta, implicita e bidirezionale degli stati mentali, ma considera le menti non più chiuse nella dimensione di una soggettività circoscritta, quindi separate e isolate, ma impegnate in  una interazione continua.

Gli stati mentali, quindi non sono più soggettivi ma intersoggettivi, co-costruiti nella interazione continua con l’altro in un processo dinamico  a cui fa seguito  un rimodellamento in divenire delle menti stesse.   

Scrive Stern

Viviamo circondati dalle intenzioni, dai sentimenti e dai pensieri degli altri, che interagiscono con i nostri, al punto che la differenza tra ciò che è nostro e ciò che appartiene agli altri non sempre è così netta. […] In breve, la nostra vita mentale è frutto di una co-creazione, di un dialogo continuo con le menti degli altri, che io chiamo matrice intersoggettiva.[4]

L’intersoggettività, quindi, non è un semplice opportunità, ma si configura come un presupposto ineludibile dello sviluppo ed è un movimento verso cui siamo spinti da un sistema di motivazione primario. L’intersoggettività è condizione di umanità. […] Abbiamo bisogno di incontrare lo sguardo dei nostri simili per formarci come individui e mantenerci tali.

Questi processi  trovano  la loro base neuroanatomica nella scoperta del funzionamento dei neuroni mirror e, quindi, nella consapevolezza che parti del nostro  sistema nervoso centrale si attivano a specchio nel momento in cui osserviamo l’altro compiere un azione e che tale processo è  alla base del nostro sistema di apprendimento  e della interazione profonda tra sé e l’altro.

Ogni volta che guardiamo qualcuno compiere un’azione, oltre all’attivazione di alcune aree visive, si assiste alla contemporanea attivazione di quei circuiti motori che entrano in gioco quando siamo noi stessi a compiere l’azione. […] Il nostro sistema motorio diventa attivo come se stessimo eseguendo quella medesima azione che stiamo osservando. […] osservare un’azione comporta simulare quell’azione […] il nostro sistema motorio comincia a simulare l’azione dell’agente osservato.[5]

Tutto questo ha inoltre una evidente associazione con il divenire plastico della organizzazione funzionale del sistema nervoso centrale. 

Infatti dal momento che il nostro cervello risulta costituito da  parti filogeneticamente differenti[6]  assemblate in una unità sistemica che consenta l’integrazione di una dimensione di “funzionamento istintuale”  con una dimensione più evoluta corticale,  l’azione di modeling e stabilizzazione  che le relazioni primarie  determinano sui circuiti neuronali struttura e definisce  una organizzazione funzionale del sistema formando quei circuiti che asservono le aree sottocorticali, filogeneticamente più antiche,  alla corteccia, ponendo  i comportamenti e  i tratti istintuali sotto il controllo del pensiero.  

Questa riorganizzazione interna, neuroanatomica facilita le procedure attentive, aumenta i livelli di autocontrollo riduce l’impulsività e migliora i livelli prestazionali.

In questo gioco continuo di interazioni\apprendimenti\definizione del sé,  il corpo e poi successivamente  il linguaggio svolgono una funzione di fondamentale importanza. 

Scrivono Lapierre e Aucouturier: 

La significanza del corpo, attraverso le sue posizioni i suoi movimenti le sue tensioni , le sue mimiche, i suoi contatti, le sue distanze, i suoi ritmi, ci sembra essere un linguaggio innato, immediatamente capito dall’altro, qualunque sia la sua età. […] In una relazione verbale è sempre possibile tacere . Il corpo, lui non tace mai[7]

La neuro psicomotricità  è una disciplina abilitativa che si  fonda sul  presupposto teorico della  unicità mente corpo e lavora con l’obiettivo di costruire e definire  connessioni tra il Sé corporeo e il  mondo  psichico del bambino.  

Attraverso un approccio che utilizza la relazione e primariamente la relazione corporea,  aiuta il bambino nel suo processo di sviluppo  a costruire e definire la sua identità. 

L’intervento  neuro psicomotorio soprattutto se realizzato in una dimensione precoce, quando il bambino ha ancora un funzionamento cognitivo senso-motorio,  permette l’organizzazione di una serie  di abbozzi funzionali su cui strutturare  successive competenze quali  l’ organizzazione del  Sé, la definizione di uno schema corporeo, un’adeguata rappresentazione di sé nello spazio e nel tempo, la costruzione  di  prassie semplici e complesse.

L’intervento neuro psicomotorio educativo e preventivo è concepito come facilitatore/elicitatore di  processi di maturazione neuropsichica  che favoriscono il passaggio “dal piacere di agire al piacere di pensare”.[8]

L’interazione corporea, il contatto, l’agire insieme, il dialogo tonico costituisce l’ambiente psichico in cui si consolida nel suo divenire lo sviluppo di un bambino. 

Esso si struttura  in una dimensione continua e lineare in cui la percezione del sé corporeo rappresenta il substrato, la mappa neurosensoriale,  su cui costruire l’immagine di sé e la possibilità di attribuire nello  spazio psichico un significante  rappresentativo alle emozioni percepite.  

Da qui  si dipana quel processo  che consente di trasformare le emozioni da semplice percezione a rappresentazione e poi,  infine,  a pensiero narrativo, processo che  definisce,  quindi,  una continuità lineare del proprio sé in una identità definita. Da qui si dipana la costruzione,  attraverso la relazione con l’altro, di quel sistema che consente al bambino di attribuire un significato  emozionale alla realtà esperienziale e nel contempo di utilizzare le emozioni    come strumento per comprendere il proprio mondo interno ed esterno. 

Scrive Eugenio Borgna: 

Le emozioni dicono quello che si svolge in noi, nella nostra psiche, nella nostra interiorità, nella nostra anima; ma le emozioni sono (anche) portatrici di conoscenza, di una conoscenza che ci trascina nel cuore di alcune esperienze di vita irraggiungibili dalla conoscenza razionale[9].

Il “movimento”  rappresenta il tratto che definisce la vitalità degli esseri viventi  e permea sia il mondo che ci accoglie sia la nostra stessa mente. 

Il nostro corpo è in continuo movimento anche quando è apparentemente fermo. 

Anche gli stati della mente sono soggetti ad un incessante dinamismo secondo profili variabili che soggiacciono alle stesse proprietà descritte per il movimento corporeo 

L’insieme di queste proprietà dinamiche è ciò che Stern intende per “forma” della nostra esperienza. Vi sarà una forma dei nostri stati mentali e una forma del nostro comportamento fisico. 

Il  contenuto dei nostri comportamenti  attiene al nostro agire come il contenuto dei nostri stati mentali attiene al nostro percepire, immaginare, provare. 

Vi sono dunque una forma e un contenuto degli stati mentali e una forma e un contenuto del nostro comportamento. Forma e contenuto sono tra loro indipendenti. Può variare la forma e mantenersi costante il contenuto o viceversa. Tra la forma degli stati interni e la forma del comportamento vi è un rapporto di espressione e in tal senso la dinamica del nostro pensiero si esprime nella dinamica del nostro agire. [10]

Tale rapporto di espressione consente anche la lettura della forma degli stati interni altrui attraverso la percezione del movimento del loro corpo, senza la necessità di eseguire inferenze di tipo cognitivo. 

Il mentale è così visibile nel corpo e quindi condivisibile a livello implicito e immediato nella relazione interpersonale. Viene superato il dualismo cartesiano tra mente e corpo.  

Il lavoro del terapista della neuropsicomotricità,   quindi, rappresenta una importante ambito di ristrutturazione funzionale in bambini che hanno vissuto esperienze primarie disfunzionali e tali da non favorire l’espressione di una buona potenzialità di sviluppo. 

Come in questo processo è coinvolta la competenza linguistica?

Il Logopedista è il professionista sanitario specializzato nella valutazione, riabilitazione, prevenzione ed educazione di tutte le patologie che provocano disturbi della comunicazione e/o del linguaggio.  Specifici o secondari ad altre patologie. Si occupa, di fatto, dei disturbi dell’apprendimento, della lettura, della scrittura e del calcolo, della voce e delle funzioni orali come la disfagia.[11]

L’intervento logopedico non deve intendersi esclusivamente  nella sua funzione abilitativa sia linguistica che comunicazionale.  

Il  linguaggio è di per sé un organizzatore dei processi di pensiero aiutare il bambino nello sviluppo di un linguaggio narrativo comporta la costruzione di quel linguaggio interno[12] che  utilizziamo nei processi di autoriflessione e che e  il presupposto dei processi di mentalizzazione.

Per P. Fonagy[13]  la mentalizzazione è intesa come “la capacità di concepire stati mentali inconsci e consci in se stessi e negli altri“. 

Questa funzione appresa nelle relazioni primarie è alla base di ogni processo di percezione  e rappresentazione di sé.  Il presupposto della nostra coscienza e della nostra costruzione identitaria. 

La costruzione di una comunicazione con l’altro facilita la costruzione di una “distanza” tra sé e l’altro e definisce e struttura uno dei presupposti utili a che il processo di individuazione separazione, si compia portando il bambino ad individuarsi e a percepirsi con un Sé separato all’interno del contesto psichico di riferimento. 

Ma come si struttura e si definisce  tutto questo in un bambino che ha vissuto  le sue esperienze primarie, quelle fondanti per la definizione del suo Sé, in una condizione di pregiudizio o in una condizione di carenza di provvigioni affettive? 

I processi traumatici spesso connessi con le esperienze sfavorevoli infantili vissuti dai bambini che poi vanno in adozione disequilibrano il sistema del linguaggio. 

Le esperienze traumatiche continuative attraverso l’azione di aree profonde del sistema nervoso determinano una iper-reattività della amigdala[14] durante la presentazione di stimoli stressanti come il ricordo di eventi traumatici, ma anche durante stimoli di tipo emotivo i cui contenuti sono  particolarmente coinvolgenti. 

Si determina inoltre in questi soggetti un aumento di attività  prevalente nell’ emisfero destro, quello non dominante, nelle aree maggiormente coinvolte nell’attivazione emotiva e più intimamente associate all’amigdala.

L’attivazione di queste strutture è accompagnata da un aumento dell’attività della corteccia visiva destra, che rispecchiava la re-esperienza visiva dei traumi riferiti dai pazienti. 

Uno degli aspetti più significativi di questi studi è rappresentato dal riscontro che l’area di Broca, ovvero quell’area cerebrale dell’emisfero dominante  responsabile della traduzione delle esperienze in parole comunicabili, appare del tutto silenziosa, “spenta” , priva di segnali rilevabili di attivazione. 

Questo meccanismo può risultare connesso con  la difficoltà di questi pazienti nel tradurre in parole le proprie sensazioni e potrebbe essere legata a mutamenti strutturali e funzionali nell’attività delle regioni del cervello deputate al ricordo delle emozioni e al linguaggio.

Se immaginiamo un bambino che nelle relazioni primarie vive esperienze destrutturanti, abbandoniche, o francamente maltrattanti, se immaginiamo  che le relazioni primarie sono primariamente costruite su interazioni senso-motorie che restituiscono al bambino la sensazione di un corpo agente, di una identità percepente, di una relazione significante, se immaginiamo che le interazioni disfunzionali possono avere un effetto sulla strutturazione/organizzazione della  competenza linguistica possiamo anche comprendere come l’assenza di interazioni e di stimoli, la presenza di interazioni, confusive, discontinue, disorganizzate e caotiche non strutturi percorsi e procedure significativa sul piano adattivo, possiamo immaginare che tutto questo si trasformi nella percezione di un  corpo assente,[15]disarmonico,  muto, mancante in alcune sue componenti incapace di definire e sul piano motorio prassico,   sul piano dell’immagine dello schema corporeo,  sul piano della componente spaziale e relazionale una sua piena funzionalità.

Se immaginiamo quanto molte delle nostre azioni presuppongano di fatto una competenza motorio prassica, una competenza motorio spaziale e una componente motorio relazionale, una competenza linguistico/comunicativa comprendiamo quanto la sensazione di un corpo assente possa determinare ricadute significative su molte competenze successive, comprese le competenze della letto scrittura.  

Tutto questo impone come necessario un lavoro preventivo, sul bambino che ha subito esperienze sfavorevoli infantili, preventivo nel senso che evita che le disfunzioni di sviluppo che si sono definite nelle relazioni primarie si strutturino in quadri patologici. 

Questo aspetto temporizza la necessità dell’intervento in una dimensione precoce. 

Si evita,  così, il rischio   che interventi fuori tempo siano inutili o addirittura nocivi, poiché agiscono su sistemi non più sensibili al cambiamento.  Ci spostiamo, così,  dalla considerazioni sul tempo cronologico,  alla possibilità  sul “momento giusto”: la logica del chronos sembra fare posto a quella   del kairòs,  cambiando la prospettiva dell’intervento sulla fase sensibile delle persone. 

Tutto questo assume un significato importantissimo sul piano dell’efficacia dell’intervento stesso e sul piano della sua minore invasività.

Possiamo immaginare che tutto questo si configuri come una patologia? Possiamo immaginare che tutto questo si esaurisca nel limite angusto di una etichetta diagnostica? Possiamo immaginare che tutto questo consegni la storia di un bambino adottivo a percorsi diagnostici e terapeutici e i suoi genitori alla necessità di chiudersi dentro percorsi di cura definendo la loro genitorialità come profondamente intrisa dall’immagine di una patologia? Oppure possiamo immaginare questa condizione come un transito, una fase di passaggio in cui la possibilità di abilitare  e di recuperare può deviare i percorsi di sviluppo e di crescita in una direzione meno disfunzionale e dove la dimensione del “recupero” si interseca con il divenire dei percorsi di sviluppo e di crescita. La linea di confine è sottile,  ma definisce la prospettiva tra la malattia e il recupero di una condizione di deprivazione e di disfunzione.  

La storia di un bambino adottato, come di ogni altro bambino, si sostanzia di eventi e vicende reali e fantastiche collocate nel tempo e in uno spazio altro; a formare una storia saranno flussi di parole e di azioni dove il passato è costitutivo del presente ed indicherà la direzione del futuro. 

La storia pregressa del bambino, le provvigioni affettive ricevute nelle relazioni primarie,  le   dinamiche adattative che il bambino ha costruito in relazione alle esperienze sfavorevoli infantili patite e ai vincoli che tali dinamiche hanno imposto alla sua strutturazione psichica determinano le modalità di funzionamento del suo Sé  e la sua resilienza.

Le vite dei bambini adottivi sono spesso storie fatte da parentesi sconnesse, disarticolate che non seguono un unico percorso narrativo   e non costituiscono una narrazione che si configuri come una trama cognitivo emotiva armonica e coerente. 

L’adozione come il “transito di Venere”, è un passaggio che sembra nascondere i traumi, ma non li cancella, essi ricompaiono con i loro effetti  dopo l’inserimento nella nuova famiglia e accompagnano il bambino nel suo processo di sviluppo.  

Non si può immaginare che un bambino che provenga da  un esistenza in cui ha patito esperienze sfavorevoli infantili possa azzerare tutte le sue difficoltà  e costruire d’improvviso  un equilibrio psichico. 

I vissuti  e gli effetti di tali elementi coesistono sul piano temporale nel suo mondo interno anche dopo l’adozione, accompagnando il bambino nella sua quotidianità, influenzando il suo sistema di attribuzione dei significati esperienziali guidando le modalità con cui costruisce legami e con cui agisce. Lo sviluppo di un bambino è definito da un  susseguirsi non lineare, non cronologicamente determinato di “stati mentali”. Questo continuo divenire  determina, per trasformazione e selezione, la definizione di organizzazioni mentali sempre più complesse e valide sul piano dell’adattamento. 

A tutto questo fa da substrato una condizione in cui le esperienze vissute e le relazioni costruite nel loro divenire definiscono l’assetto neurobiologico del bambino e stabilizzano l’omeostasi dei suoi circuiti  neuronali. 

All’interno di tale percorso il recupero di un’identità diacronica non è mai facile e non può definirsi come un processo semplice  e indolore, che si snodi secondo una dimensione di continuità e semplice linearità. 

Spesso durante tale percorso, che è una ricerca in divenire, il bambino adottivo si definisce e si racconta come una colonia di sé possibili, frammentati e discontinui che operano in maniera disomogenea e simultanea tra di loro, includendo nel loro insieme identità rigettate e considerate come indesiderabili. In questa dimensione il confronto con le “origini” rappresenta un fantasma che il bambino deve affrontare per costruire una identità che contenga anche parti di sé ritenute inaccettabili.  

Il lavoro in psicomotricità e in logopedia, che avviene in una dimensione in cui vi è un continuo coinvolgimento dei genitori, attiva processi che poi si compiranno e si generalizzeranno nel contesto familiare e nell’ambito educativo, restituendo al bambino competenze e ai genitori la possibilità di sintonizzarsi sui suoi bisogni reali e su processi educativi e di insegnamento ristrutturanti.  

Attraverso questo lavoro i genitori possono acquisire un ruolo attivo ed esprimere attraverso la loro funzione genitoriale delle competenze specifiche per insegnare ai loro figli come  sentirsi e rappresentarsi in una nuova vita.

What's it to walk on a silent road,

to be thirsty and wait for, wait for the rain?

What is it like?

Teach me again! Teach me again!

Please..

So what is the smell of summer like? And..

what is the sound of your heart when you're running? And…

what is to be fearless like? And..

what is it to have nothing in mind but plenty of, space?[16]

 

 

[1] N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, La Terza, Roma-Bari, 1988.

[2] V. Gallese, “Being like me”: self-other identity, mirror neurons and empathy. In Hurley, S., Chater, N. (a cura di), Perspectives on Imitation I. MIT Press, Cambridge 2005, MA, p. 102)

[3] D. Stern, “ Il mondo interpersonale del bambino”, Bollati Boringhieri, 1987

[4]D. Stern, Il momento presente in psicoterapia e nella vita quotidiana. Raffaello Cortina 2005

[5] V. Gallese, The “shared manifold” hypothesis: From mirror neurons to empathy. In Journal of Consciousness Studies, 8 (2001), pp. 37-38)

[6]P.D. Maclean, “Evoluzione del cervello e comportamento umano” Nuovo Politecnico, Einaudi 1984

[7] A- Lapierre B. Acouturier “ Il corpo e l’incoscio in educazione e terapia.” Armando editore

[8]A- Lapierre B. Acouturier “ Il corpo e l’incoscio in educazione e terapia.” Armando editore

[9] E. Borgna, Le emozioni ferite, Feltrinelli, Milano 2002.

[10] G Casartelli, “ Le quattro premesse della teoria sterniana dell’esperienza – la distinzione tra forma e contenuto dell’esperienza e l’intersoggettività” https://www.stateofmind.it/2020/04/stern-forma-contenuto-esperienza/

[11] F.L.I., Federazione Logopedisti Italiani

[12]L. Vygotskij, “ Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, La Terza

[13] P. Fonagy, M. Target, Attaccamento e funzione riflessiva, Raffaello Cortina editore

[14]L'amigdala, o corpo amigdaloideo, è una particolare regione pari del cervello, sede di svariati nuclei nervosi, che appartiene al lobo temporale e prende parte al cosiddetto sistema limbico.

[15]A- Lapierre B. Acouturier “ Il corpo e l’incoscio in educazione e terapia.” Armando editore

[16]Teach me again, Tina Turner 


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Data di pubblicazione: 
Martedì, Settembre 14, 2021

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