Autore: 
Livia Botta, psicoterapeuta e formatrice

Concludevo il precedente articolo “La fatica di imparare” con l’affermazione che il contesto attuale in cui il bambino adottato si misura con l’apprendimento (l’ambito familiare, la scuola) può fare molto per favorire - ma anche purtroppo per ostacolare - il raggiungimento di risultati scolastici soddisfacenti. Soprattutto per i bambini più vulnerabili, diventa dunque cruciale individuare le diverse variabili su cui è possibile intervenire e le prassi più idonee da mettere in atto.

Sul versante “scuola”, la prima riflessione è che uno dei principali ingredienti – forse il principale – della possibilità d’imparare è la qualità dell’intreccio relazionale che si instaura tra l’alunno, l’insegnante, l’oggetto di apprendimento, il gruppo dei coetanei. Per un bambino fragile, che è stato ferito nella fiducia nelle proprie capacità e negli altri, dirigere le proprie energie verso l’apprendimento sarà possibile solo in un contesto sicuro, costante e prevedibile, che non gli faccia ri-sperimentare la frustrazione del fallimento. Sarà pronto a manifestare il suo desiderio d’imparare in un contesto accogliente e supportivo, se gli si proporranno obiettivi e attività calibrati sulle sue possibilità, abbastanza semplici da risultargli comprensibili e raggiungibili grazie all’aiuto dell’adulto e sufficientemente interessanti per lui. In caso contrario, tenderà a reagire con la passività o con comportamenti oppositivi.

Quanto detto è vero per tutti i bambini, ma diventa cruciale per quelli che hanno subìto perdite o traumi, o hanno conosciuto situazioni di trascuratezza fisica o emozionale che hanno minato il loro senso di sicurezza. Mentre un bambino fiducioso nelle proprie capacità e con un sicuro senso di sé può, infatti, reagire in modo costruttivo anche a livelli di frustrazione elevati e non scoraggiarsi se l’obiettivo da raggiungere non è immediato, non è così per un soggetto più fragile, per il quale ogni frustrazione si tramuterà in un senso di vergogna che lo ferirà nel cuore dell’identità e che potrà azzerare la normale curiosità di conoscere e di imparare tipica dei bambini.

Gli alunni con queste difficoltà vanno pertanto sostenuti e incoraggiati, con una presa in carico empatica, fatta di tanti piccoli gesti che consentano loro di riconoscere l’insegnante come figura di attaccamento. Fino a quando non si sentiranno sufficientemente sicuri, andranno accompagnati passo passo nell’imparare, con le strategie che le/gli insegnanti ben conoscono: ridurre i contenuti e porre pochi obiettivi per volta; evitare le attività che si prolungano eccessivamente e proporre prove di verifica brevi; far utilizzar schemi o griglie per contrastare la dispersione del pensiero; non eccedere col registro verbale ma usare materiali iconografici e strumenti tecnologici; valutare le singole prestazioni, sottolineando i successi per potenziare l’autostima ma anche riflettendo sugli insuccessi per aiutarli a sviluppare un’immagine realistica delle proprie capacità; creare occasioni in cui possano mettere a frutto abilità che, per la loro storia e provenienza, potrebbero possedere in aree diverse da quelle linguistiche o logiche: capacità di costruire oggetti, di apprendere visivamente, di risolvere problemi concreti. Sono tutte strategie che, oltre ad aiutare concretamente il bambino, lo faranno sentire “contenuto” nella mente di un insegnante disponibile e capace di andare a incontrarlo là dove egli si trova.

Sono comportamenti che vanno comunque calibrati con misura: l’attenzione mirata non deve tramutarsi in atteggiamenti troppo protettivi, che potrebbero trasmettere un messaggio di diversità e svalutazione negativo per il bambino e ostacolare il suo positivo inserimento nel gruppo. Occasioni di apprendimento cooperativo che sollecitino accettazione e aiuto reciproco, esperienze di tutoraggio tra compagni che possano trasformarsi in relazioni amicali saranno invece preziosi per aiutare il bambino a sentirsi a proprio agio tra i pari.

L’integrazione nella classe risulterà inoltre più facile se i compagni saranno stati educati a considerare l’adozione come una delle possibili e normali modalità di “essere famiglia”. Affinché ciò accada, la scuola dovrebbe promuovere un’educazione ai rapporti familiari fondata sulla dimensione affettiva e progettuale, inserendo le tematiche legate al concetto di famiglia e di genitorialità tra gli altri argomenti di studio ed evitando di trattare l’argomento “famiglia adottiva” precipitosamente e solo a ridosso dell’ingresso di un compagno adottato, come invece spesso succede.

Evitare, quando si parla di famiglia e di genitorialità, di riferirsi allo stereotipo di una coppia con figli biologici; creare occasioni per parlare della famiglia complessa e articolata di oggi (famiglie monoparentali, ricomposte, con genitori separati o divorziati, famiglie che si ricompongono solo nel weekend, matrimoni misti, famiglie con figli adottivi o in affido); sottolineare la funzione affettiva della famiglia, intesa come capacità di saper assolvere vicendevolmente ai bisogni fondamentali delle persone (fisiologici, di sicurezza, di appartenenza e di amore, di stima e di autorealizzazione): questo lavoro porterà beneficio a tutti i bambini con famiglie non tradizionali, non solo a quelli adottati, con effetti positivi sul loro benessere psicologico e sul loro senso di sicurezza e di appartenenza.

Risulterà inoltra assai utile leggere o raccontare storie, o proiettare filmati, che presentino come naturali le diverse declinazioni della genitorialità, o storie che riflettano metaforicamente le problematiche di cui un bambino adottato può essere portatore. Un racconto può infatti parlare ai bambini di molte verità importanti in modo indiretto, avvalendosi del potere evocativo della metafora: si aiuterà così il bambino adottato a conoscersi meglio e a sviluppare la propria personalità senza sottoporlo a domande sulla sua storia, mentre i compagni saranno indotti a riflettere e ad accettare come naturale la sua condizione.

Mentre si affrontano queste tematiche, si potrà fare qualche accenno alla storia del compagno adottato, ma in modo molto “leggero” e solo per dargli la consapevolezza che lo teniamo nella mente, evitando invece di porlo sotto i riflettori con domande dirette. E’ meglio aspettare che sia lui, quando lo vorrà, a parlare della propria realtà familiare e della propria storia. Questo accadrà se ci sarà un buon clima e se il bambino percepirà la sua classe come un posto sicuro in cui poter stare “tutto intero”.

Lavorare in classe per facilitare l’inclusione significa anche evitare di proporre attività da cui i bambini adottati possano sentirsi esclusi. E qui entra in gioco la spinosa questione dell’approccio alla storia personale. Sappiamo, infatti, che solitamente nel secondo anno delle elementari (talvolta anche prima) si cominciano a insegnare ai bambini i primi concetti storici a partire dalla storia personale e da quella della propria famiglia, e che anche negli anni successivi (ad esempio all’inizio della scuola media) questo approccio può essere riproposto. 

Si tratta di un lavoro bello e importante, che aiuta gli alunni a collocare nel tempo fatti ed esperienze vissute, a riconoscere i rapporti di successione e contemporaneità, a prendere dimestichezza con i concetti di fonte storica, datazione, generazioni. È un lavoro che può essere di grande utilità per i bambini adottati e per altri il cui percorso di vita ha conosciuto vari passaggi, ma che può creare sofferenza se non viene affrontato con attenzione e sensibilità. Va pertanto programmato con la massima cura, ricordando che in una classe possono esserci bambini che non conoscono l’inizio della loro storia e forse neppure il nome della madre biologica, altri (come i bambini in affido) con situazioni familiari difficili alle spalle, altri ancora che hanno perduto i genitori o ne sono stati allontanati, bambini migranti che non hanno portato con sé alcun bagaglio materiale di ricordi. Per tali ragioni è importante mantenere un dialogo aperto con le famiglie, avvertendole in anticipo di quel che verrà fatto, raccogliendo le informazioni indispensabili per una programmazione che non escluda nessuno, mantenendo i progetti flessibili e rispettosi delle variabili presenti nella classe. 

Alla pagina http://www.adozionescuola.it/adozione_00000f.htm del sito tematico "Adozionescuola" ho raccolto esempi di diversa provenienza di attività sulla storia personale o sull'albero genealogico da realizzare in classi in cui siano presenti alunni adottati. Ma sta soprattutto alla creatività e alla sensibilità dell’insegnante calibrare i progetti sulla realtà dei singoli alunni, facendo sì che nessun bambino possa sentirsi diverso in senso negativo. Né va dimenticato che queste attività possono mettere a disagio non solo i bambini adottati ma anche i loro genitori, in difficoltà quando devono aiutarli nel compito impossibile di ricostruire il loro passato, anche perché la mancata conoscenza della storia precoce dei figli è un vuoto doloroso anche per loro.

Non dobbiamo nasconderci, tuttavia, che questi interventi, finalizzati a favorire il benessere del bambino adottato nella classe e dunque a disporlo positivamente all’apprendimento, non sono di agevole realizzazione nel difficile momento attuale, in cui gli insegnanti, nei diversi gradi di scuola, si trovano di fronte classi numerose di alunni portatori di molteplici diversità, in una situazione complessiva di scarsità di risorse per la scuola (personale, sussidi, formazione) che limita la possibilità di dare la giusta attenzione ai soggetti più deboli. Sono, inoltre, solo una parte delle strategie da mettere in atto, quelle che potremmo chiamare “di cornice”. In molti casi possono essere necessari interventi mirati su problematiche specifiche più direttamente didattiche.

Prendiamo ora in considerazione alcuni interventi più specifici e “tecnici”, utili per affrontare problematiche e bisogni particolari che possono presentarsi, senza dimenticare che oggi la scuola sta attraversando una profonda crisi, che si manifesta in primo luogo con una scarsità di risorse che rende più faticoso il lavoro degli insegnanti e rischia di penalizzare gli alunni con particolari bisogni o fragilità.

 

LA COMPETENZA LINGUISTICA

Un aspetto che si tende a sottovalutare, ma che è invece da tener ben presente, è che i minori adottati, soprattutto se arrivati in Italia in età scolare, fanno spesso fatica a scuola per la loro carente competenza linguistica.

Perché se è vero che i bambini adottati hanno tempi inaspettatamente brevi nell’apprendere l’italiano, di che italiano si tratta, tuttavia? Della lingua della quotidianità, fatta di un vocabolario limitato, adatto per cavarsela nella vita di tutti i giorni, ma insufficiente per padroneggiare il linguaggio dell’apprendimento scolastico, carico di polisemie, sfumature, nessi, inferenze, riferimenti culturali. Il rafforzamento della padronanza dell'italiano è pertanto fondamentale, e va portato avanti non solo all’inizio, ma anche nelle fasi più avanzate del percorso scolastico, che richiedono competenze linguistiche sempre più raffinate.

Nella fase iniziale, per i bambini che arrivano già in età scolare, può essere utile l’intervento di un mediatore linguistico-interculturale: una figura della stessa lingua e cultura d’origine del bambino, che interviene per un numero limitato di ore, su richiesta della scuola, per offrirgli un primo supporto linguistico e per introdurlo a comportamenti e modi di apprendere che possono essere anche molto diversi da quelli del suo paese di provenienza. Insegnanti forniti di una preparazione specifica per l’insegnamento dell’italiano come seconda lingua (Italiano L2) potranno invece seguirlo con interventi più distesi nel tempo, sia individualmente che in piccolo gruppo, per aiutarlo a sviluppare ulteriormente le sue competenze linguistiche, in raccordo con i programmi scolastici: sempre che la scuola disponga delle risorse necessarie per attivare questi percorsi, che non rientrano nella didattica standard.

 

I BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI (BES)

Una recente normativa scolastica, volta a potenziare la cultura dell'inclusione, presenta elementi d'interesse per l'accompagnamento scolastico dei bambini e dei ragazzi adottati.

La Direttiva Ministeriale "Strumenti d'intervento per alunni con bisogni educativi speciali" del dicembre 2012 prende atto, infatti, della complessità e del contesto variegato delle nostre classi scolastiche, all'interno delle quali non è raro incontrare alunni che possono manifestare, con continuità o solo in certi periodi, disturbi evolutivi specifici, difficoltà cognitive lievi, situazioni di svantaggio culturale, sociale o linguistico non ascrivibili a disabilità certificabili. A questi alunni la scuola s'impegna a offrire una progettazione didattico-educativa mirata e personalizzata sulle loro effettive possibilità, da documentare mediante un Piano Didattico Personalizzato (PDP) che servirà agli insegnanti come strumento di lavoro in itinere e renderà chiare alle famiglie le strategie d'intervento programmate.

Si tratta di un'innovazione che potrà risultare utile per i bambini e i ragazzi adottati che presentano fragilità non riconducibili a una situazione di disabilità: essi potranno trarre vantaggio da una progettazione didattica "su misura" e flessibile, attuata solo per il tempo necessario e con obiettivi da raggiungere concordati, che in molti casi potrà avere anche una funzione tranquillizzante, con una buona ricaduta sul comportamento del bambino.

 

I DISTURBI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO (DSA)

Anche in presenza di disturbi specifici di apprendimento (che vedono compromesse le abilità che rendono automatici i processi legati alla lettura, alla scrittura e al calcolo in soggetti con intelligenza nella norma, e che sappiamo essere presenti negli alunni adottati in percentuale leggermente superiore rispetto alla restante popolazione scolastica) la scuola è tenuta a elaborare un Piano Didattico Personalizzato (PDP) e ad attivare tutte le strategie che permettano al bambino di rendere al meglio, tenendo conto delle sue difficoltà, potenzialità e caratteristiche.

La normativa di riferimento (la Legge 170/2010 e le successive Linee Guida) prevede che, a partire da una diagnosi specialistica che accerti la presenza e l'entità del disturbo, venga stilato un Piano Personalizzato che disponga gli strumenti dispensativi e compensativi (ad esempio la possibilità di utilizzare in classe la calcolatrice e il computer, il sussidio di tabelle e mappe concettuali, l'assegnazione di prove di verifica più brevi, le interrogazioni programmate...) che mettano gli alunni con DSA nelle stesse condizioni di apprendere dei loro compagni.

Nel caso di bambini adottati in età scolare, è importante ricordare che una diagnosi specialistica di DSA può essere effettuata solo dopo che siano state sufficientemente acquisite le competenze di lettura e scrittura nella nostra lingua, dunque non prima di un paio d'anni dall'arrivo.

 

IL SOSTEGNO

I Piani Didattici Personalizzati di cui ai punti precedenti non prevedono l'assegnazione alle classi di risorse aggiuntive. Devono essere gli insegnanti di classe a farsi letteralmente "in quattro" per metterli in pratica, calibrando e differenziando la didattica quotidiana in base ai bisogni dei singoli alunni. E a volte questa può rivelarsi un'impresa quasi impossibile, quando le differenze contemporaneamente presenti in una classe sono tante!

Nel caso di alunni con una certificazione di disabilità (rilasciata ai sensi della Legge 104/1992), invece, viene assegnato alla classe, per un numero di ore settimanali correlato alla gravità del caso, un insegnante specializzato nel sostegno, che può affiancare l'alunno durante il normale lavoro di classe o in attività specifiche in aule appositamente attrezzate. L'assegnazione del sostegno è decisa dagli Uffici Scolastici Regionali tenuto conto delle risorse a disposizione (purtroppo scarse al momento!) e sulla base delle certificazioni stilate dal Servizio di Neuropsichiatria Infantile dell’ASL di riferimento, che accertano la natura e l'entità della disabilità ed evidenziano le capacità e le potenzialità del bambino. Anche in questo caso viene stilato e sottoscritto collegialmente (scuola, servizi, famiglia) un Piano Educativo Individualizzato (PEI), che contiene gli obiettivi didattici ed educativi da raggiungere, calibrati sulle possibilità reali dell'alunno, nonché tutti gli interventi individualizzati previsti.

Spesso i genitori, anche di fronte a deficit evidenti, sono restii ad attivare le procedure necessarie per poter ottenere il sostegno, nel timore che la certificazione possa fare del loro figlio un "diverso" o farlo sentire emarginato rispetto al resto della classe. Dipende ovviamente dalla sensibilità degli insegnanti non far pesare l'intervento di sostegno come uno stigma (non dimentichiamo che l'insegnante di sostegno è un insegnante di classe che può lavorare con tutti gli alunni!). I timori dei genitori sono comprensibili, essi dovrebbero tuttavia considerare con attenzione i benefici che la certificazione garantisce, che possono essere fondamentali per consentire al figlio una scolarizzazione serena per l'intero iter scolastico.

Una programmazione didattica semplificata, con obiettivi chiari e raggiungibili, può, infatti, tranquillizzare il bambino e disporlo più favorevolmente all'apprendimento. Avere un insegnante "tutto per sé", soprattutto nella scuola secondaria quando le discipline e i docenti si moltiplicano, può significare disporre di un punto di riferimento, un faro per orientarsi tra insegnanti e discipline: impresa assai più impegnativa di quanto si pensi per gli alunni più fragili dal punto di vista cognitivo o relazionale.

 

GLI OPERATORI SOCIO-EDUCATIVI (OSE)

Si tratta di personale specializzato che non fa parte dell'organico della scuola, ma che può essere richiesto all'Ente Locale, in accordo con le famiglie, per un limitato numero di ore alla settimana per gli alunni con disabilità riconosciuta. Gli operatori socio-educativi possono essere richiesti per sostenere bambini e adolescenti con disturbi del comportamento, che necessitano di migliorare le autonomie personali, che hanno bisogno di una migliore identificazione nell'adulto.

L'intervento degli OSE non sostituisce le attività didattiche, ma prevede la realizzazione di percorsi a carattere educativo integrati nel Piano Educativo Individualizzato e finalizzati a favorire l'integrazione, potenziare le autonomie personali, promuovere uno stato di benessere nel contesto scolastico.

 

Come si vede, il ventaglio di opportunità che possono essere sfruttate per accompagnare al meglio il percorso scolastico degli alunni - adottati e non - è ampio. Del resto anche i bambini e i ragazzi adottati che frequentano le nostre scuole sono soggetti unici e irripetibili, e diversi sono i loro bisogni: se per qualcuno sarà necessario un percorso individualizzato e "sostenuto" per l'intero iter scolastico, per altri sarà sufficiente una buona accoglienza iniziale... senza tralasciare tutte le possibili soluzioni intermedie. Sta alla professionalità e alla sensibilità degli insegnanti, unite alla disponibilità e collaborazione delle famiglie, orientarsi tra le diverse possibilità d'intervento per individuare l'aiuto che sia nello stesso tempo più utile e meno ridondante.

 

 

Data di pubblicazione: 
Domenica, Settembre 10, 2017

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